Suprema Corte di Cassazione
sezioni unite
sentenza 10 maggio 2016, n. 9451
Svolgimento del processo
L’Agenzia delle entrate propone ricorso per cassazione con un motivo, illustrato con successiva memoria, nei confronti della sentenza della Commissione tributaria regionale della Campania che, rigettandone l’appello, ha riconosciuto a C.N. , avvocato, il diritto al rimborso dell’IRAP versata per gli anni dal 2000 al 2004.
Il giudice d’appello, rilevato che nello svolgimento dell’attività professionale il contribuente si avvaleva “solo di un lavoratore dipendente con mansioni di segretario e di beni strumentali minimi”, ha ritenuto che “la presenza minimale di strumenti e di collaborazione non costituiva autonoma organizzazione” ai sensi dell’art. 2 del d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 446.
C.N. resiste con controricorso, illustrato con successiva memoria.
Con l’unico motivo, denunciando “violazione e falsa applicazione degli artt. 2, comma 1, e 3, lettera c), del d.lgs. 15 dicembre 1997, n. 447″, l’amministrazione ricorrente critica la sentenza impugnata perché, pur avendo riconosciuto la presenza di un dipendente e di beni strumentali ha escluso il requisito dell’autonoma organizzazione ai fini dell’IRAP, laddove, secondo le disposizioni in rubrica, tale requisito ricorrerebbe allorché il contribuente sia, sotto qualsiasi fama il responsabile dell’organizzazione e si avvalga del lavoro anche di un solo dipendente”.
Il contribuente resiste con controricorso, illustrato con successiva memoria.
Fissato per la discussione, a seguito di ordinanza interlocutoria della sezione tributaria (ord. 5040/15), il ricorso è stato rimesso a queste Sezioni unite per l’esame di questione di massima di particolare importanza.
L’Agenzia delle entrate ha depositato memoria.
Motivi della decisione
1.- Con l’ordinanza del gennaio 2015 la sezione tributaria ha ravvisato nella giurisprudenza della Corte di cassazione, con riguardo al presupposto dell’imposta regionale sulle attività produttive, fissato dall’art. 2 del d.lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, e segnatamente al concetto di “autonoma organizzazione”, un contrasto fra un orientamento più radicato – di cui costituisce espressione Cass. n. 3676 del 2007 -, secondo cui la presenza anche di un solo dipendente, anche se part time ovvero addetto a mansioni generiche, determinerebbe di per sé l’assoggettamento all’imposta, ed un orientamento più recente, secondo cui sarebbe invece necessario accertare in punto di fatto l’attitudine del lavoro svolto dal dipendente a potenziare l’attività produttiva al fine di verificare la ricorrenza del presupposto stesso.
Osserva il Collegio che la sentenza n. 3676 del 2007, menzionata come significativa dell’indirizzo più risalente, e decisamente maggioritario, rappresenta, con alcune pronunce coeve, il punto di approdo di una prima fase dell’elaborazione giurisprudenziale di questa Corte sull’IRAP, incentrata sul presupposto dell’imposta, regolato dagli artt. 2 e 1 del d lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, istitutivo del tributo, mentre la seconda fase è stata piuttosto caratterizzata dalla definizione dei contorni della platea dei soggetti passivi.
2.- Con la sentenza 16 febbraio 2007, n. 3676, dunque, la sezione tributaria aveva in primo luogo posto in luce che il d.lgs. n. 446 del 1997 aveva stabilito all’art. 2 che il presupposto del tributo è costituito dall’esercizio di un’attività “autonomamente organizzata” (cosi dopo la novella recata dal d.lgs. 10 aprile 1998, n. 137) diretta alla produzione o allo scambio di beni o servizi, ribadendo al successivo art. 3 che i soggetti passivi dell’IRAP sono quelli che svolgono una delle attività di cui all’art. 2 e, “pertanto”, anche le persone fisiche e le società semplici (od equiparate) che esercitano un’arte o una professione ai sensi dell’art. 49, corra 1 (nella vecchia numerazione) del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, che, come chiarito dalla lettera a) del corra 2 all’epoca vigente, ricomprendeva nella categoria tutti coloro che, per professione abituale, svolgevano un’attività di lavoro autonomo non classificabile care impresa o come collaborazione coordinata o continuativa e, cioè, come prestazione di servizi senza impiego di organizzazione propria.
Aveva quindi rilevato come la Corte costituzionale, con la sentenza n. 156 del 2001 avesse puntualizzato che l’IRAP non operava nessuna indebita equiparazione dei redditi di lavoro autonomo a quelli d’impresa, essendo un’imposta volta ad incidere su di un fatto economico diverso dal reddito, ossia sul valore aggiunto prodotto dalle singole unità organizzative, che ove sussistente, costituiva un indice di capacità contributiva capace di giustificare l’imposizione sia nei confronti delle imprese che dei lavoratori autonomi: ciò non voleva certamente dire che questi ultimi rientravano sempre tra i soggetti passivi dell’imposta perché se quello organizzativo costituiva un elemento connaturato alla nozione stessa d’impresa, non altrettanto poteva dirsi per le arti e le professioni, riguardo alle quali non era impossibile escludere in assoluto che l’attività potesse essere svolta anche in assenza di un’organizzazione di capitali e/o lavoro altrui.
Ma la ipotizzabilità di un’evenienza del genere, il cui accertamento costituiva una questione di nero fatto, non valeva a dimostrare la denunciata illegittimità dell’IRAP, ma soltanto la sua inapplicabilità per quei lavoratori autonoma che non si fossero giovati di alcun supporto organizzativo.
In tal modo, la Corte costituzionale “aveva in definitiva affermato che l’IRAP può ed, anzi, deve essere applicata pure ai lavoratori autonomi, tenendo però presente che non si tratta di una regola assoluta, Tre solo dell’ipotesi ordinaria, nel senso che l’assoggettamento all’imposta costituisce la noma per ogni tipo di professionista, mentre l’esenzione rappresenta l’eccezione valevole soltanto per quelli privi di qualunque apparato produttivo. Vero è che l’interpretazione che di una norma sottoposta a scrutinio di costituzionalità offre la Corte costituzionale in una sentenza di non fondatezza non costituisce un vincolo per il giudice chiamato successivamente ad applicarla, ma è altrettanto vero che quella interpretazione, se non altro per l’autorevolezza della fonte da cui proviene, rappresenta un fondamentale contributo ermeneutico che non può essere disconosciuto senza l’esistenza di una valida ragione”.
Secondo la sezione tributaria, “l’art. 2 del d.lgs. n. 446 del 1997, richiede unicamente la presenza di un’organizzazione autonoma senza fissare alcun limite quantitativo diverso da quello insito nel concetto stesso evocato dalle parole usate che, a loro volta, postulano soltanto l’esistenza di uno o più elementi suscettibili di combinarsi con il lavoro dell’interessato, potenziandone le possibilità.
Non occorre, quindi, che si tratti di una struttura d’importanza prevalente rispetto al lavoro del titolare o addirittura in grado di generare profitti anche senza di lui, ma è sufficiente che vi sia un insieme tale da porre il professionista in una condizione più favorevole di quella in cui si sarebbe trovato senza di esso.
La maggiore o minore consistenza di tale insieme non è dunque importante purché, ben s’intende, si tratti di fattori che non siano tutto sommato trascurabili, bensì capaci di fornire un effettivo qualcosa in più al lavoratore autonomo. L’indagine sull’esistenza di tale qualcosa in più costituisce senza dubbio un accertamento di fatto che il giudice di merito dovrà compiere caso per caso sulla base di una valutazione di natura non soltanto logica, ma anche socio-economica perché l’assenza di un struttura produttiva non può essere intesa nel senso radicale di totale mancanza di qualsiasi supporto, ma neppure in quello di particolare rilevanza o, peggio, di prevalenza dei beni e/o del lavoro altrui su quello del titolare. Per far sorgere l’obbligo di pagamento del tributo basta infatti, l’esistenza di un apparato che non sia sostanzialmente ininfluente, ovverosia di un quid pluris che secondo il comune sentire, del quale il giudice di merito è portatore ed interprete, sia in grado di fornire un apprezzabile apporto al professionista. Si deve cioè trattare di un qualcosa in più la cui disponibilità non sia, in definitiva, irrilevante perché capace, come lo studio o i collaboratori, di rendere più efficace o produttiva l’attività. Non varrebbe in contrario replicare che così ragionando si giunge a fare dei professionisti una categoria indefettitalnente assoggettata all’IPAP perché, nell’attuale realtà, è quasi impossibile esercitare l’attività senza l’ausilio di uno studio e/o di uno o più collaboratori o dipendenti. È infatti proprio per questo che il d.lgs. n. 446 del 1997 ha inserito gli autonomi fra i soggetti passivi dell’imposta, in quanto anch’essi sì avvalgono normalmente di quella struttura organizzativa che costituisce il presupposto dell’imposta. Ed è sempre per lo stesso motivo che… il d.lgs n. 446 del 1997 ha, fra l’altro, abrogato l’ICIAP, essendo l’IRAP destinata normalmente a colpire coloro che in precedenza pagavano l’ICIAP che, a sua volta, gravava sui professionisti indipendentemente dalla consistenza della organizzazione da essi predisposta”.
“In considerazione di quanto sopra, va pertanto enunciato il seguente principio di diritto: “A norma del combinato disposto del d.lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, art. 2, primo periodo, e art. 3, comma 1, lettera c), l’esercizio delle attività di lavoro autonomo di cui all’art. 49, comma 1 (nella versione vigente fino al 31/12/2003), ovvero all’art. 53, comma 1, (nella versione vigente dal 1/1/2004), del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, è escluso dall’applicazione dell’imposta regionale sulle attività produttive (IRAP) solo qualora si tratti di attività non autonomamente organizzata. I1 requisito dell’autonoma organizzazione, il cui accertamento spetta al giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato, ricorre quando il contribuente: a) sia, sotto qualsiasi forma, il responsabile dell’organizzazione e non sia, quindi, inserito in strutture organizzative riferibili ad altrui responsabilità ed interesse; b) impieghi beni strumentali eccedenti, secondo l’id quod pderumque accidit, il minimo indispensabile per l’esercizio dell’attività in assenza di organizzazione, oppure si avvalga in modo non occasionale di lavoro altrui. Costituisce onere del contribuente che chieda il rimborso dell’imposta asseritamente non dovuta dare la prova dell’assenza delle condizioni sopraelencate”.
3.- Queste Sezioni unite, con riguardo al requisito dell’autonoma organizzazione nel presupposto dell’IRAP, condividono i principi e, più complessivamente, l’impianto ricostruttivo fornito allora con la sentenza capofila dell’orientamento maturato nel 2007 nella sezione tributaria, della quale si è dato conto sopra, e tuttavia ritengono che essi meritino, più che una rivalutazione, delle precisazioni concernenti il fattore lavoro.
Se fra “gli elementi suscettibili di combinarsi con il lavoro dell’interessato, potenziandone le possibilità necessarie”, accanto ai beni strumentali vi sono i mezzi “personali” di cui egli può avvalersi per lo svolgimento dell’attività, perché questi davvero rechino ad essa un apporto significativo occorre che le mansioni svolte dal collaboratore non occasionale concorrano o si combinino con quel che è il proprium della specifica (professionalità espressa nella) “attività diretta allo scambio di beni o di servizi”, di cui fa discorso l’art. 2 del d.lgs. n. 946 del 1997, e ciò vale tanto per il professionista che per l’esercente l’arte, come, più in generale, per il lavoratore autonome ovvero per le figure “di confine” individuate nel corso degli anni dalla giurisprudenza di questa Corte. È infatti in tali casi che può parlarsi, per usare l’espressione del giudice delle leggi, di “valore aggiunto” o, per dirla con le pronunce della sezione tributaria del 2007, di “quel qualcosa in più”.
Diversa incidenza assume perciò l’avvalersi in nudo non occasionale di lavoro altrui quando questo si concreti nell’espletamento di mansioni di segreteria o generiche o meramente esecutive, che rechino all’attività svolta dal contribuente un apporto del tutto mediato o, appunto, generico.
Lo stesso limite segnato in relazione ai beni strumentali “eccedenti, secondo l’id quod piterumgue accidit, il minimo indispensabile per l’esercizio dell’attività in assenza di organizzazione” – non può che valere, armonicamente, per il fattore lavoro, la cui soglia ninnale si arresta all’impiego di un collaboratore.
Va pertanto enunciato il seguente principio di diritto: “con riguardo al presupposto dell’IRAP, il requisito dell’autonoma organizzazione – previsto dall’art. 2 del d.lgs. 15 settembre 1997, n. 496 -, il cui accertamento spetta al giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato, ricorre quando il contribuente: a) sia, sotto qualsiasi forma, il responsabile dell’organizzazione e non sia, quindi, inserito in strutture organizzative riferibili ad altrui responsabilità ed interesse; b) impieghi beni strumentali eccedenti, secondo l’id quod plerumque accidit, il minimo indispensabile per l’esercizio dell’attività in assenza di organizzazione, oppure si avvalga in nudo non occasionale di lavoro altrui che superi la soglia dell’impiego di un collaboratore che esplichi mansioni di segreteria ovvero meramente esecutive”.
Il ricorso dell’Agenzia delle entrate deve essere rigettato.
Le spese del giudizio vanno compensate fra le parti, in considerazione del carattere controverso della questione in sede di legittimità.
P.Q.M.
La Corte di cassazione, a sezioni unite, rigetta il ricorso.
Dichiara compensate fra le parti le spese del giudizio.
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