Risarcimento del danno non integra “mutatio libelli” la successiva mera specificazione del fatto dannoso

Corte di Cassazione, civile, Sentenza|3 marzo 2023| n. 6387.

Risarcimento del danno non integra “mutatio libelli” la successiva mera specificazione del fatto dannoso

A fronte di una domanda di risarcimento del danno ex art. 2043 c.c., non integra “mutatio libelli” la successiva mera specificazione del fatto dannoso. (Principio affermato dalla S.C. in una fattispecie in cui l’attrice, dopo avere dedotto, nell’atto di citazione, la responsabilità dei convenuti per l’abbandono dei rifiuti e il conseguente inquinamento di un terreno, nella memoria ex art. 183, comma 6, n. 1, c.p.c., aveva puntualizzato la suddetta condotta illecita in relazione alla violazione dell’obbligo di custodia gravante sugli stessi).

Sentenza|3 marzo 2023| n. 6387. Risarcimento del danno non integra “mutatio libelli” la successiva mera specificazione del fatto dannoso

Data udienza 6 dicembre 2022

Integrale

Tag/parola chiave: RESPONSABILITA’ CIVILE – RISARCIMENTO (IN GENERE)

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Presidente

Dott. SCODITTI Enrico – Consigliere

Dott. IANNELLO Emilio – Consigliere

Dott. MOSCARINI Anna – Consigliere

Dott. GORGONI Marilena – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
sul ricorso Rg. n. 28806-2019 proposto da:
(OMISSIS), titolare della ditta individuale (OMISSIS), e (OMISSIS), rappresentati e difesi dagli avvocati BRUNO CELENTANO, ALBERTO DELFINO e GIAMMARIA CAMICI, elettivamente domiciliati in Roma presso lo studio di quest’ultimo, (OMISSIS);
– ricorrenti –
contro
(OMISSIS), – Azienda Pubblica di Servizi alla Persona, in persona del Presidente legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati MARCO RUSSO e STEFANIA CONTALDI, elettivamente domiciliata in Roma presso lo studio di quest’ultimo, Via (OMISSIS);
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 288/2019 della Corte d’Appello di Genova, pubblicata in data 27/2/2019.
Lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del sostituto procuratore, Mauro Vitiello, che ha chiesto il rigetto del ricorso.
Udita la relazione del Consigliere Marilena Gorgoni.

FATTI DI CAUSA

Nel 2010, (OMISSIS), Azienda Pubblica di Servizi alla Persona, conveniva, davanti al Tribunale di Savona, (OMISSIS) s.n.c., (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS) S.p.A., (OMISSIS) piccola societa’ cooperativa a r.l., (OMISSIS), (E ALTRI OMISSIS)
A tale scopo adduceva:
i) che il terreno era occupato sin dal 1973 dal Consorzio (OMISSIS) ( (OMISSIS)) in forza di un contratto qualificato come “concessione in uso precario annuale”;
ii) che, nel 1998, tra dette parti contrattuali era sorto un contenzioso che era stato definito dal Tribunale di Savona con la sentenza n. 1332/2003, la quale qualificava detto contratto come locazione ed accertava che lo stesso era cessato alla data del 10/12/1998, condannando il (OMISSIS) al rilascio dell’immobile;
iii) che, stante che il (OMISSIS) non aveva ottemperato all’obbligo di rilasciare l’immobile, nel 2005 aveva proposto nei suoi confronti una procedura esecutiva di rilascio;
iv) che l’immobile risultava occupato per una parte consistente, oltre un ettaro, anche dagli altri convenuti, i quali, pertanto, venivano coinvolti nell’attivita’ esecutiva che veniva portata a conclusione con verbale dell’Ufficiale Giudiziario in data 31/10/2005;
iv) che nel mese di novembre 2005 (OMISSIS), (E ALTRI OMISSIS)
v) che, anche dopo il mese di novembre 2005, il terreno risultava ingombro di altro materiale: una Fiat Tipo, una Citroen AX, un furgone frigorifero, alcuni bidoni, materiale edile di risulta, una Ford Turbo, alcuni tubi Innocenti, un motocarro Bremach, una betoniera, alcune baracche e capannoni;
v) per tale ragione, con precedente atto di citazione, in data 24/3;2006, aveva convenuto, davanti al Tribunale di Savona, i medesimi soggetti per ottenere da essi il risarcimento del danno “da illegittima occupazione dell’immobile clan 1.5.1996 fino al giorno dell’effettiva e totale liberazione… ” (causa rubricata al n. R.G. 1034/2006, ancora pendente alla data della notifica del secondo atto di citazione)”;
vi) che, con la memoria ex articolo 183 c.p.c., comma 6, n. 1, aveva esteso la domanda risarcitoria anche allo smaltimento della mole di rifiuti scaricati sul terreno;
vi) che aveva rinunciato a tale domanda, a fronte della eccezione di tardivita’ formulata dai convenuti, per proporla in un altro giudizio, quello per cui e’ causa, nel quale aveva lamentato che sul terreno rilasciato era stata rinvenuta una mole di rifiuti, anche di natura pericolosa;
vii) che il costo sostenuto per la rimozione di detti rifiuti ammontava a complessivi Euro 106.560,00, come documentato dalle fatture prodotte;
viii) che, a seguito di indagini eseguite da ditte specializzate, era stato accertato l’inquinamento del terreno, da cui sarebbe scaturito un procedimento amministrativo volto alla caratterizzazione ed alla messa in sicurezza, secondo la disciplina di cui ai Decreto Legislativo n. 152 del 2006;
ix) che anche detto inquinamento era riconducibile ai convenuti;
x) che il costo per la bonifica del terreno era stato di Euro 397.095,27, come da fatture prodotte;
xi) che non aveva potuto utilizzare il terreno sino alla positiva conclusione del procedimento amministrativo di bonifica;
(OMISSIS), costituitosi, allegava di essersi limitato ad occupare, in forza di un contratto verbale di locazione stipulato con (OMISSIS), legale rappresentante del (OMISSIS), affermatosi legittimato alla sublocazione, una minima parte del terreno denominato “(OMISSIS)” dal 2002 al 31/10/2005 – data del verbale di rilascio redatto dall’Ufficiale Giudiziario – per posteggiarvi due furgoni di sua proprieta’ che non trovavano spazio presso la sua sede, dietro pagamento di un canone mensile di Euro 50,00; negava di avere mai svolto un’attivita’ che avesse potuto provocare l’inquinamento; precisava che Opere Sociali, durante tutto il periodo in cui il terreno era stato nella disponibilita’ del (OMISSIS) in forza del richiamato contratto di locazione – ossia quantomeno dal 1973 al 1998, come esplicitamente affermato dal Tribunale nella sentenza n. 1332/2003 – ed anche successivamente non aveva mai esercitato alcun controllo sullo stato dell’immobile e sulle attivita’ che vi svolgeva il (OMISSIS); chiedeva che tale omissione fosse considerata ai fini e per gli effetti di cui all’articolo 1227 c.c., comma 1.
Dando (OMISSIS) svolgeva difese analoghe, allegando di essere titolare di un’impresa artigiana e di avere occupato una piccola porzione di “(OMISSIS), allo scopo di ricoverarvi i propri mezzi, sulla base di un accordo verbale con (OMISSIS).
Sia (OMISSIS) che (OMISSIS) negavano di avere abbandonato rifiuti nell’area e/o di averla in qualsiasi modo inquinata.
L’attrice, secondo la rappresentazione degli odierni ricorrenti, mutava radicalmente posizione nella sua memoria ex articolo 183 c.p.c., comma 6, n. 1, sostenendo la diversa tesi di una responsabilita’ omissiva dei convenuti, derivante dalla violazione di un non meglio precisato obbligo di custodia, per avere occupato, con o senza titolo, il terreno, per averlo rilasciato dopo averlo danneggiato o per averlo restituito danneggiato.
Il Tribunale aveva disposto CTU, da cui era emerso che, nel sito “(OMISSIS)”, erano presenti concentrazioni superiori alle CSC di piombo, di idrocarburi pesanti, di rame, di arsenico e di cadmio, imputa bili, in parte, alle lavorazioni svolte in passato sul sito, presumibilmente connesse alle operazioni di manutenzione sui veicoli (cambi di olio motore, perdite accidentali di carburante, ecc.), in parte, al permanere di contaminazioni dovute a sversamenti accidentali di ohi o carburanti e alla presenza di terreni di riporto presumibilmente utilizzati per livellare eventuali depressioni localizzate nell’area.
La CM aveva escluso che gli inquinanti rinvenuti nelle acque di falda derivassero dalle attivita’ esercitate in passato sulla superficie ed aveva genericamente ritenuto “congrui” i costi sostenuti da Opere Sociali per lo smaltimento dei rifiuti e le operazioni di bonifica.
Il Tribunale di Savona, con la sentenza n. 1065/2015, rigettava integralmente le domande formulate dall’attrice, ritenendo insufficienti e comunque indimostrati i comportamenti lesivi imputati ai convenuti.
La Corte d’ Appello di Genova, con la sentenza n. 288/2019, depositata il 27/2/2019, investita del gravame da Opere Sociali, ha parzialmente riformato la decisione di primo grado; ha ritenuto: a) tutti i convenuti responsabili in solido, ex articolo 2055 c.c., di omissione, essendo obbligati non solo a non inquinare, ma altresi’ a custodire l’intero fondo e ad evitare l’inquinamento da parte di terzi; b) provato presuntivamente il nesso di causa tra la occupazione del terreno e l’abbandono dei rifiuti e l’inquinamento; ha escluso la responsabilita’ di (OMISSIS) e di (OMISSIS), il primo, perche’ aveva dimostrato di essersi limitato a lasciare sul fondo per cui e’ causa la
sua autovettura non funzionante per un periodo di circa tre mesi prima del rilascio, il secondo, poiche’ aveva utilizzato il fondo solo per tenervi un cavallo e due cani; ha condannato gli altri convenuti a corrispondere Euro 106.560,00 per lo smaltimento dei rifiuti, Euro 198.547,68, per i danni da inquinamento, Euro 50.000,00 per il completamento della bonifica.
(OMISSIS) e (OMISSIS) ricorrono, formulando otto motivi, per la cassazione di detta sentenza.
Resiste con controricorso (OMISSIS).
Si da’ atto che per la decisione del presente ricorso, fissato per la trattazione in Pubblica Udienza, come disposto con l’ordinanza interlocutoria n. 40887/2021, data la complessita’ delle questioni da esso poste, questa Corte ha proceduto in camera di consiglio, senza l’intervento del Procuratore Generale e dei difensori delle parti, ai sensi del Decreto Legge 28 ottobre 2020, n. 137, articolo 23, comma 8 bis, convertito in L. 18 dicembre 2020, n. 176, non avendo alcuna delle parti ne’ il Procuratore Generale fatto richiesta di trattazione orale.
Il Pubblico Ministero, nella persona del Sostituto procuratore, Mauro Vitiello, ha chiesto il rigetto del ricorso.
Entrambe le parti hanno depositato memoria.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1) Con il primo motivo i ricorrenti deducono la “Nullita’ della sentenza per violazione dell’articolo 132 c.p.c., comma 2, n. 4 e dell’articolo 111 Cost. in relazione all’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 4. Perplessita’, contraddittorieta’ e mera apparenza della motivazione”.
La tesi dei ricorrenti e’ che la lunghezza della motivazione della sentenza impugnata sia stata determinata “non dall’intento di meglio chiarire le effettive ragioni della decisione, ma al contrario da quello di mimetizzarle e disperderle in un coacervo di argomentazioni difficilmente districabile”, pervenendo al risultato di imputare indistintamente e cumulativamente ai convenuti i danni lamentati da Opere Sociali, senza prendere una posizione univoca circa la natura commissiva o omissiva dell’affermata responsabilita’ e quindi del nesso causale che dovrebbe giustificare la relativa imputazione oggettiva.
A supporto di tale censura i ricorrenti adducono il fatto che la Corte d’Appello non abbia mai preso posizione circa la natura commissiva o omissiva della responsabilita’ e non ne abbia chiarito i presupposti; aggiungono che la sentenza avrebbe adottato una tesi mediana, distinguendo, senza giustificazione, la natura omissiva della responsabilita’ derivante dall’abbandono di rifiuti da quella commissiva di inquinamento, per tornare a parlare di “responsabilita’ unitaria della custodia”, derivante dall’articolo 1177 c.c., per non avere impedito che i terzi, ivi compresi gli altri “occupanti”, danneggiassero il bene.
1.1) Il motivo non merita accoglimento.
Questa Corte a Sezioni Unite (Cass., Sez. Un., 03/11/2016, n. 22232; Cass., Sez. Un., 07/04/2014, n. 8053) ha affermato che la motivazione e’ solo apparente, e la sentenza e’ nulla perche’ affetta da error in procedendo, quando, benche’ graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perche’ recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le piu’ varie, ipotetiche congetture.
In tema di contenuto della sentenza, il vizio di motivazione, previsto dall’articolo 132 c.p.c., comma 2, n. 4, e dall’articolo 111 Cost., sussiste quando la pronuncia riveli una obiettiva carenza nella indicazione del criterio logico che ha condotto il giudice alla formazione del proprio convincimento, come accade quando non vi sia alcuna esplicitazione sul quadro probatorio, ne’ alcuna disamina logico-giuridica che lasci trasparire il percorso argomentativo seguito, in tal modo consentendo anche di verificare se abbia effettivamente giudicato iuxta alligata et probata.
La motivazione della sentenza impugnata non presenta le gravi anomalie individuate dagli arresti giurisprudenziali sopra richiamati, ne’ si pone al di sotto del “minimo costituzionale”. I giudici di appello hanno spiegato che costituisce circostanza pacifica che tutti gli occupanti dell’area, ad eccezione di (OMISSIS) e di (OMISSIS), avevano la possibilita’ di utilizzarla nella sua interezza e che avevano contribuito a depositarvi, nel corso degli anni, rifiuti di vario genere riconducibili alle attivita’ da ciascuno di essi svolte e a danneggiarla con materiali inquinanti.
2) Con il secondo motivo si deduce la “Nullita’ del procedimento e della sentenza per violazione degli articoli 112, 163 e 164 c.p.c. e articolo 183 c.p.c., commi 5 e 6 in relazione all’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 4”, perche’ la responsabilita’ per omissione, su cui si e’ basata la pronuncia di condanna, non sarebbe stata mai invocata dall’attrice, la quale, infatti, avrebbe contestato ai convenuti cumulativamente una condotta commissiva, consistente nell’avere abbandonato rifiuti e nell’avere inquinato il terreno denominato “(OMISSIS)” nel corso dell’occupazione sine titulo; solo a fronte delle difese dei convenuti costituiti, l’attrice avrebbe mutato posizione nella prima memoria ex articolo 183 c.p.c., comma 6, datata 20/2/2012, affermando la sussistenza di una responsabilita’ omissiva dei convenuti, derivante dalla violazione di un non meglio precisato obbligo di custodia.
Sebbene tale inammissibile mutatio libelli avesse costituito oggetto di eccezione formulata nel giudizio di primo grado e fosse stata ribadita anche nelle difese svolte in appello, la Corte d’ Appello di Genova avrebbe violato le preclusioni processuali poste dagli articoli 163 e 164 c.p.c. e articolo 183 c.p.c., commi 5 e 6, fondando la responsabilita’ solidale dei convenuti proprio su condotte di natura omissiva derivanti dall’inadempimento di un obbligo di custodia non tempestivamente allegato dall’attrice.
Risulterebbe in particolare, violato l’articolo 183 c.p.c., comma 5, il quale consente all’attore di proporre “le domande e le eccezioni che sono conseguenza della domanda riconvenzionale o delle eccezioni proposte dal convenuto”, ma non oltre la prima udienza di trattazione, stante che la pretesa dell’attrice di trasformare la responsabilita’ dei convenuti da commissiva ad omissiva non avrebbe potuto essere qualificata mera precisazione della domanda gia’ proposta nell’atto di citazione, essendo i relativi fatti costitutivi diversi e non evincibili dall’atto introduttivo del giudizio; farebbero difetto, in aggiunta, l’individuazione della fonte legale o negoziale dell’obbligo violato, la precisa individuazione dell’evento che la parte avrebbe avuto l’obbligo di impedire, l’allegazione della condotta doverosa in ipotesi non tenuta e che – in base al c.d. giudizio contro-fattuale – sarebbe stata idonea ad impedire l’evento.
Alla sentenza viene rimproverato anche di essere incorsa nella violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato.
2.1) Il motivo e’ infondato.
Il profilo commissivo e quello omissivo, inseparabilmente connessi ed inscindibilmente legati, sono stati unitariamente ricondotti al principio del “neminem laedere” sancito dall’articolo 2043 c.c.: a p. 8 la sentenza impugnata rileva, infatti, che la sentenza di primo grado aveva correttamente individuato l’essenza della domanda attrice nella violazione del principio generale del neminem laedere, sulla base di un comportamento illecito consistito nell’abbandono di rifiuti vari sul terreno e nel pregiudizio derivatone in termini di inquinamento e di impossibilita’ di godimento.
Ne consegue che correttamente la Corte territoriale ha rigettato l’eccezione di mutatio libelli: non sussiste, infatti, la denunciata mu-tatio libelli nel caso di domanda che contesti genericamente la ricorrenza di un fatto illecito, fonte di responsabilita’ extracontrattuale, e poi specifichi piu’ puntualmente il fatto dannoso (cfr. Cass. 13/12/2002, n. 17832).
Posto che le due condotte, consistenti rispettivamente in un profilo commissivo – l’inquinamento prodotto dagli occupanti attraverso le specifiche attivita’ esercitate all’interno dell’area – ed in altro omissivo – l’abbandono in loco di rifiuti di ogni genere – sono state ritenute inseparabilmente connesse ed inscindibilmente legate (a p. 8 della sentenza si legge che l’illecito imputato ai convenuti era consistito nell’abbandono di beni mobili e rifiuti di ogni genere, e del conseguente pregiudizio dell’area (risultata altresi’ inquinata), derivato, in via diretta e causale, dal suddetto comportamento tenuto dagli stessi occupanti senza titolo), che il fatto costitutivo della domanda era stato, in modo univoco, indicato in citazione esattamente e che in relazione alla suddetta “causa petendi” si era svolta la fase istruttoria successiva, il cui tema di indagine era consistito proprio nel verificare se gli occupanti avessero abbandonato i rifiuti e inquinato il terreno, senza, quindi, introdurre un nuovo tema di indagine e senza mutare i fatti posti a fondamento della domanda risarcitoria.
Non sussiste, percio’, la dedotta “mutatio libelli” ed e’ da escludere anche che il giudice di merito sia incorso nella denunciata ultrapetizione.
3) Con il terzo motivo alla sentenza impugnata si imputano “Violazione e/o falsa applicazione degli articoli 2043, 2055, 2727 e 2729 c.c. e degli articoli 40 e 41 c.p. in relazione all’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3”.
La Corte d’Appello avrebbe fondato la sua decisione di condanna esclusivamente su argomenti presuntivi, violando gli articoli 2043, 2055, 2727 e 2729 c.c., nonche’ gli articoli 40 e 41 c.p. In particolare, dopo avere individuato l’attivita’ svolta dagli odierni ricorrenti sul fondo – trasporti e traslochi per conto terzi, detenendo sull’area i loro automezzi e furgoni – ed avere riferito al solo C.A.R. – Consorzio Autotrasportatori Ribaltabilisti, legittimo conduttore dal 1973 al 1998, le attivita’ di manutenzione dei veicoli pesanti che venivano effettuate sulla piattaforma di cemento “in corrispondenza della quale e’ stata riscontrata la piu’ elevata concentrazione di idrocarburi pesanti”, avrebbe errato nell’imputare indistintamente e cumulativamente a tutti i convenuti – e quindi anche agii attuali ricorrenti – sia l’abbandono di tutti i rifiuti rinvenuti sul terreno nel 2006 (una roulotte, tre autovetture, un motocarro, una betoniera, un furgone frigorifero, bidoni e materiali edili di risulta, alcuni Innocenti, alcune baracche e capannoni), sia l’inquinamento del terreno causa della presenza di piombo e idrocarburi, ritenendo evidente che i cumuli di detriti e di materiali vari rinvenuti provenissero da operazioni di scavo o da ristrutturazioni in conformita’ con l’oggetto sociale delle attivita’ svolte dagli occupanti e che la presenza di tubi, cavi e fili elettrici non potesse che essere ricondotta agli occupanti esercenti, oltre che attivita’ edilizia e di movimento terra, anche attivita’ di impiantistica (cosi’ ad esempio (OMISSIS) S.p.A.) e, infine, che la presenza in ingente misura di fusti di olio, batterie al piombo, scarti di olio minerale per motori, ingranaggi e lubrificanti non clorurati, apparecchiature fuori uso non lasciasse dubbi circa la riconducibilita’ alla CAR (che per un trentennio ha detenuto sull’area i propri autotreni curandone la manutenzione) e agli altri soggetti, proprietari di grossi automezzi ed esercenti a vario titolo attivita’ di trasporto ( (OMISSIS), (OMISSIS), la stessa impresa di (OMISSIS)), salva naturalmente la graduazione interna delle relative e distinte responsabilita’, ai sensi dell’articolo 2055 c.c..
Tali conclusioni sarebbero state raggiunte incorrendo nel divieto di praesumptio de praesumpto, perche’ il giudice a quo avrebbe presunto che ogni attivita’ astrattamente ricompresa nell’oggetto sociale fosse stata effettivamente esercitata e che dal relativo esercizio derivasse, secondo Vici quod plerumque accidit, l’abbandono incontrollato di rifiuti e l’inquinamento del suolo e avrebbe obliterare due circostanze:
a) il difetto di qualunque prova di quale fosse la condizione del fondo nel 1973, prima che Opere Sociali lo concedesse in locazione al (OMISSIS);
b) la circostanza che sia l’abbandono dei rifiuti che l’inquinamento
del terreno erano stati accertati da Opere Sociali solo in epoca successiva al rilascio del fondo da parte dei convenuti – la presenza di rifiuti e’ stata rilevata solo nel 2006, l’inquinamento addirittura due anni dopo – onde difetterebbe il rapporto di immediatezza tra occupazione e danni anche sotto il profilo meramente cronologico.
3.1) Il motivo non puo’ accogliersi.
Ad avviso del Collegio del tutto impropriamente i ricorrenti richiamano il principio praesumptum de praesumpto non admittitur.
Va innanzitutto chiarito che tale principio non e’ unanimemente ritenuto esistente – “perche’ non e’ riconducibile ne’ agli evocati articoli 2729 e 2697 c.c. ne’ a qualsiasi altra norma dell’ordinamento”: come e’ stato piu’ volte e da tempo sottolineato da autorevole dottrina, il fatto noto accertato in base ad una o piu’ presunzioni (anche non legali), purche’ “gravi, precise e concordanti”, ai sensi dell’articolo 2729 c.c., puo’ legittimamente costituire la premessa di una ulteriore inferenza presuntiva idonea, in quanto a sua volta adeguata, a fondare l’accertamento del fatto ignoto (in termini: Cass. 16/06/2017, n. 15003) – esso opererebbe esclusivamente nella consecuzione di una presunzione semplice da un’altra presunzione semplice (cfr. Cass. 9/04/2002, n. 5045), in ragione del fatto che, poiche’ le presunzioni semplici, ai sensi dell’articolo 2727 c.c., sono le conseguenze che il giudice trae da un fatto noto per risalire ad un fatto ignoto, gli elementi che costituiscono la premessa devono avere il carattere della certezza e della concretezza (cfr. Cass. 28/01/1995, n. 1044).
In linea generale, va osservato che cio’ che conta, invero, non e’ che il fatto noto assunto a premessa di un’inferenza non derivi a sua volta da una inferenza, cioe’, che sia frutto di un’altra presunzione come se si trattasse di applicare il principio della probabilita’ congiunta o composta, in quanto il secondo fatto discende dalla verificazione favorevole di due probabilita’: che sia vero il primo fatto e che sia esatta la conseguenza dedottane – ma che la concatenazione di inferenze presuntive non sia debole, cioe’ inattendibile e infondata, e si fondi, invece, su una serie lineare di inferenze, ciascuna delle quali, nella sua conclusione, sia la premessa di una inferenza successiva. Tale linearita’ e’ assicurata esclusivamente dall’adozione dei criteri di precisione, gravita’ e concordanza per attribuire attendibilita’ al fatto noto, quale che ne sia la sua origine, cioe’ anche quando il fatto noto sia divenuto tale sulla scorta di un ragionamento logico. La catena si rompe. e con essa tutto il ragionamento logico, cioe’ tutto il percorso fatto per attribuire attendibilita’ ad un enunciato di
fatto ipotizzato, ove anche solo una delle premesse non sia assistita dal richiesto grado di attendibilita’ e di conferma – giacche’ per ragioni logiche, prima ancora che giuridiche, non si puo’ legittimare una ricostruzione della questione di fatto sulla sola ed esclusiva base di ragionamenti presuntivi poco gravi ovvero scarsamente attendibili. Per contro, regge e puo’ essere assunta per sostenere l’intero ragionamento inferenziale la’ dove ogni anello della catena risulti conforme ai parametri di cui all’articolo 2729 c.c..
Nel caso specifico le censure dei ricorrenti si rivelano, innanzitutto, eccentriche rispetto alla ratio decidendi della sentenza impugnata, la quale ha si’ ritenuto rilevante lo stato di occupazione del bene, riferendosi ad esso come necessario presupposto, ma, prima ha escluso – riformando, sul punto, la decisione di prime cure – che il fatto lesivo ed il danno dedotto dall’attrice si identificassero con lo stato di occupazione in se’ e per se’ (pp. 9, 10, 11), poi, basandosi su un compendio probatorio articolato e complesso, di cui ha dato ampiamente conto, ha ritenuto provato il nesso di causa tra la condotta degli occupanti e i danni lamentati. Detto compendio probatorio e’ costituito da prove testimoniali e documentali nonche’ da univoci e convergenti elementi di natura presuntiva: i) il documento redatto dall’ufficiale giudiziario in data 31 ottobre 2005, con allegate le foto dello stato del sedime (p. 11); ii) le intimazioni e le ingiunzioni di sgombero e di bonifica emesse dal comune di Savona e le lettere inviate dalla Provincia (p. 12, p. 19); iii) le dichiarazioni rese dai convenuti e dallo stesso (OMISSIS) (pp. 12, 16, 17); iv) la testimonianza del custode (OMISSIS) e la lettera che egli aveva inviato agli occupanti, sollecitandoli a ritarare i loro beni (p. 13); iv) la CTU (p. 14, p. 21-23, 26-30); v) le testimonianze dei dipendenti delle ditte occupanti (pp. 15 e 16); vi) la documentazione camerale (p. 20); vi) il rifiuto dell’interrogatorio formale (p. 23).
Quanto, invece, al fatto che la Corte territoriale abbia erroneamente presunto che tutte le attivita’ previste nell’oggetto sociale delle imprese convenute, risultanti dalle visure camerali, fossero state effettivamente esercitate e che da esse, secondo l’id quod plerumque accidit, derivassero come conseguenza normale l’abbandonato incontrollato di rifiuti e l’inquinamento dei suolo, che non abbia tenuto conto dello stato del terreno occupato prima del 1973 e che l’attivita’ esercitata dalle loro ditte individuali non comportasse lo svolgimento di attivita’ di manutenzione e di riparazione dei mezzi che parcheggiavano in una ridotta porzione dell’area e per un limitato periodo di tempo, i Collegio ritiene che si tratti di sollecitazioni volte ad ottenere un riesame del materiale istruttorio sulla scorta di due presupposti: il primo, rivelatosi non esatto, che la Corte territoriale abbia integrato le allegazioni dell’appellante affidandosi a mere presunzioni e il secondo che i fatti noti si prestassero ad un’inferenza probabilistica diversa; affermano l’ricorrenti, infatti, che sarebbe “nozione notoria ad ogni operatore giuridico che l’oggetto sociale delle imprese viene di regola indicato in modo particolarmente ampio, si’ da comprendervi anche attivita’ che non vengono attualmente esercitate ma che potrebbero essere svolte in futuro ed anche evitare
che agli amministratori possano essere eccepiti limiti ai poteri di rappresentanza” ed aggiungono che l’abbandono di rifiuti e l’inquina-
mento ambientale costituiscono atti illeciti e specifiche fattispecie di reato, allo scopo di contestare che l’imprenditore per il fatto stesso di svolgere attivita’ astrattamente inquinamenti possa presumersi responsabile dell’inquinamento.
Censure di tal tenore non sono idonee a provocare la cassazione di una decisione per violazione del ragionamento presuntivo. Occorre ricordare, a tal proposito, che l’articolo 2729 c.c., nel prescrivere che le presunzioni non stabilite dalla legge sono lasciate alla “prudenza del giudice” (secondo una formula analoga a quella che si rinviene nell’articolo 116 c.p.c., a proposito della valutazione delle prove dirette), impone al giudice di compiere l’inferenza logica dal fatto secondario (fatto noto) al fatto principale (fatto ignoto) sulla base di una regola d’esperienza che egli deve ricavare dal sensus communis, dalla conoscenza dell’uomo medio, dal sapere collettivo della comunita’ sociale in quel dato momento storico. Grazie alla regola d’esperienza adottata, e’ possibile per il giudice concludere che l’esistenza del fatto secondario (indizio) deponga, con un grado di probabilita’ piu’ o meno alto, per l’esistenza del fatto principale. Lo stesso articolo 2729 c.c. si cura di precisare come debba manifestarsi la “prudenza” del giudice, stabilendo che il decidente deve ammettere solo presunzioni che siano “gravi, precise e concordanti”; ove il requisito della “precisione” va riferito al fatto noto (indizio) che costituisce il punto di partenza dell’inferenza e postula che esso non sia vago ma ben determinato nella sua realta’ storica; il requisito della “gravita’” va riferito al grado di probabilita’ della sussistenza del fatto ignoto che, sulla base della regola d’esperienza adottata, e’ possibile desumere dal fatto noto; mentre il requisito della “concordanza” richiede che il fatto ignoto sia – di regola – desunto da una pluralita’ di indizi gravi e precisi, univocamente convergenti nella dimostrazione della sua sussistenza, anche se il requisito della “concordanza” deve ritenersi menzionato dalla legge solo per il caso di un eventuale ma non necessario concorso di piu’ elementi presuntivi.
Dal modello di prova per presunzioni configurato dalla legge, risulta che il giudice deve seguire un procedimento logico che si articola in due momenti valutativi: in primo luogo, occorre che il giudice valuti in maniera analitica ognuno degli elementi indiziari per scartare quelli intrinsecamente privi di rilevanza e conservare, invece, quelli che, presi singolarmente, rivestano i caratteri della precisione e della gravita’, presentino cioe’ una positivita’ parziale o almeno potenziale di efficacia probatoria; successivamente, egli deve procedere ad una valutazione complessiva di tutti gli elementi presuntivi isolati e accertare se essi siano concordanti e se la loro combinazione sia in grado di fornire una valida prova presuntiva, che magari non potrebbe dirsi raggiunta considerando atomisticamente uno o alcuni consistente nella riscontrata presenza di rifiuti di vario genere e che, escluso l’inquinamento della falda acquifera, quello determinato dalla presenza di piombo e rame – ascritto dal CTU solo in parte alla presenza di batterie esauste e in prevalenza alla contaminazione con terreno di riporto di provenienza esterna impiegata per livellare il sedime – dovesse ritenersi, invece, solo parzialmente compatibile e collegabile – nella misura, determinata in via equitativa, del 50% – eziologicamente allo svolgimento delle attivita’ di trasporto, di edilizia e di movimento terra.
Tale statuizione non e’ stata efficacemente confutata dai ricorrenti, i quali, riportandone solo uno stralcio, si limitano a lamentare che la Corte con una motivazione sbrigativa e lacunosa abbia considerato tutti gli occupanti indistintamente corresponsabili dei danni da inquinamento da piombo e rame.
Deve, in primo luogo, ribadirsi che le valutazioni espresse dal consulente tecnico d’ufficio non hanno efficacia vincolante per il giudice, il quale puo’ legittimamente disattenderle attraverso una valutazione critica, ancorata alle risultanze processuali con congrua e logica motivazione.
Nel caso di specie, la Corte territoriale ha sottolineato che, anche se il CTU aveva ascritto alle batterie esauste solo in parte la presenza di piombo e di rame, la concentrazione di tali sostanze era maggiore in corrispondenza delle zone in cui si effettuavano i lavaggi e la manutenzione dei veicoli, che la CTU non conteneva alcuna menzione dei cumuli e terreni di riporto, riconducibili alle ditte operanti nel settore edilizio e di movimento terra, che tutti gli occupanti – ad eccezione di (OMISSIS) e di (OMISSIS) – avevano occupato per decenni l’area, senza rilievo per il fatto di avere ottenuto da (OMISSIS) la disponibilita’ di piccole porzioni del bene, stante la prova, raggiunta in giudizio, che tutti gli occupanti fruivano liberamente dell’intera area ed erano corresponsabili del suo stato complessivo (cfr. pp. 15-18 della sentenza), che la presenza in ingente misura di fusti di olio, di batterie al piombo, di scarti di olio minerale per motori, di ingranaggi e lubrificanti non clorurati, di apparecchiature indizi. In questo secondo momento valutativo, percio’, gli indizi devono essere presi in esame e valutati dal giudice tutti insieme egli
uni per mezzo degli altri allo scopo di verificare la concordanza delle presunzioni che da essi possono desumersi (c.d. convergenza del molteplice); dovendosi considerare erroneo l’operato del giudice di merito il quale, al cospetto di plurimi indizi, li prenda in esame e li valuti singolarmente, per poi giungere alla conclusione che nessuno di essi assurga a dignita’ di prova (cosi’ Cass. 21/03/2022, n. 9054).
Tale risulta il percorso seguito dalla Corte d’Appello, la cui statuizione resiste quindi alle censure dei ricorrenti.
4) Con il quarto motivo si imputano alla sentenza d’appello “Violazione e/o falsa applicazione sotto altro profilo degli articoli 2043, 2055, 2727 e 2729 c.c. e degli articoli 40 e 41 c.p. in relazione all’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – Violazione e/o falsa applicazione dell’articolo 2697 c.c. e articolo 115 c.p.c., comma 1 in relazione all’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3”.
La Corte d’ Appello di Genova avrebbe violato i principi che regolano il riparto dell’onere della prova e l’ammissibilita’ della prova presuntiva anche in relazione all’affermazione di una responsabilita’ solidale di tutti i convenuti per l’inquinamento da piombo rilevato dal C.T.U., nonostante quest’ultimo avesse escluso che l’inquinamento da piombo derivasse dalle attivita’ che venivano effettuate sul terreno da parte dei convenuti.
Parimenti violato sarebbe l’articolo 115 c.p.c., comma 1, che impone al giudice di decidere iuxta alligata et probata, avendo la Corte d’Appello costruito artificiosamente un nesso di causalita’ materiale (o ipotetico-giuridica se si ha riguardo all’affermata responsabilita’ omissiva) palesemente insussistente.
4.1) Il motivo non e’ meritevole di accoglimento.
La Corte territoriale, infatti, ha ritenuto dimostrato, che tutti i soggetti che si erano avvicendati nell’occupazione del fondo, svolgendovi le proprie attivita’, avessero contribuito al verificarsi del danno, fuori uso dovesse imputarsi anche ai soggetti proprietari di grossi automezzi ed esercenti a vario titolo attivita’ di trasporto (salva la graduazione interna delle relative e distinte responsabilita’, ai sensi dell’articolo 2055 c.c.).
5) Con il quinto motivo, rubricato “Omesso esame di fatti rilevanti ai fini dell’applicazione delle norme regolatrici del processo – Violazione dell’articolo 115 c.p.c., comma 1 e articolo 232 c.p.c., comma 1 in relazione all’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 4”, si censura l’affermazione secondo cui i convenuti, non essendosi presentati a rendere l’interrogatorio formale, “avevano confermato in via confessoria, il contenuto dei capitoli, relativi sia alla pacifica occupazione dell’area nonche’ allo stato di degrado della stessa”. Detta affermazione, riferita a tutti i convenuti, sarebbe errata perche’ invece gli odierni ricorrenti si erano regolarmente presentati ed avevano risposto alle domande oggetto di interrogatorio formale all’udienza del 23/12/2013.
6) Con il sesto motivo si rimprovera alla sentenza impugnata la “Violazione e/o falsa applicazione dell’articolo 115 c.p.c., comma 1 e articolo 232 c.p.c., comma 1 in relazione all’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – Omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che e’ stato oggetto di discussione tra le parti in relazione”;
La Corte d’Appello avrebbe deciso senza tener conto delle risposte da loro date in sede di interrogatorio formale.
6.1) I motivi quinto e sesto, esaminabili congiuntamente, non meritano accoglimento.
La sentenza impugnata, a p. 23, quando ha affermato “tutti i soggetti di cui sopra, non essendosi presentati a rendere l’interrogatorio formale, hanno, con cio’, confermato, in via confessoria, il contenuto dei capitoli, relativi sia alla pacifica occupazione dell’area nonche’ allo stato di degrado della stessa” ha erroneamente generalizzato; del resto, la stessa pronuncia prende in considerazione le affermazioni degli odierni ricorrenti cfr. p. 16, 17, ove, rispettivamente, viene riferito che (OMISSIS), occupante dal 2001, aveva dichiarato che solo nei 2003 si era spostato in una porzione recintata da una cancellata di legno a rete metallica, e ha ritenuto irrilevanti le affermazioni rese da (OMISSIS) di avere occupato solo piccole porzioni del bene, per un limitato periodo di tempo e in buona fede.
Ne consegue che nessun rilievo ha assunto rispetto alla responsabilita’ a titolo risarcitorio degli odierni ricorrenti la suddetta erronea generalizzazione; la sentenza impugnata ha preso in considerazione le dichiarazioni rese da (OMISSIS) e da (OMISSIS) ritenendole non idonee ad escludere che essi, benche’ avessero ottenuto da (OMISSIS), la disponibilita’ di una porzione dell’area, non potessero avere accesso all’intero fondo e non fossero da considerare corresponsabili della presenza dei rifiuti e dell’inquinamento del terreno.
I ricorrenti riportano le risposte rese all’interrogatorio formale del 23.12.2003, allo scopo di dimostrare che la Corte d’Appello avrebbe falsamente applicato ai loro danni l’articolo 232 c.p.c., comma 1 e che, in aggiunta, avrebbe violato la regola che le imponeva di decidere tenendo conto delle risposte rese in sede di interrogatorio formale: proprio quelle risposte sono state prese in considerazione dalla sentenza impugnata, come gia’ detto alle pagg. 16 e 17, e cio’ dimostra inequivocabilmente che la sentenza impugnata e’ scevra dai vizi e degli errori che le sono stati attribuiti.
7) Con il settimo motivo si censura la “Violazione e/o falsa applicazione degli articoli 1177 e 2055 c.c. e degli articoli 40 e 41 c.p. in relazione all’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3”.
L’affermazione di una loro responsabilita’ per omissione, in via solidale con tutti gli altri convenuti, costituirebbe, secondo i ricorrenti, altresi’ violazione e comunque falsa applicazione degli articoli 1177 e 2055 c.c., perche’ l’articolo 1177 c.c. si riferisce esplicitamente alle sole obbligazioni di fonte negoziale e non puo’ costituire fonte di obbligazioni a carico dell’occupante senza titolo e perche’ comunque la cosa della cui consegna si tratta deve essere “determinata”. Avendo gli odierni ricorrenti occupato una ridotta porzione del terreno (poche decine di metri quadri), non avrebbero potuto essere tenuti alla riconsegna – e quindi alla custodia – dell’intero immobile.
In aggiunta, la Corte d’Appello non avrebbe neppure individuato quale condotta avrebbero dovuto tenere in concreto per impedire il danno subito dall’intero fondo, considerata la sua estensione e la compresenza del (OMISSIS) e di tutti gli altri “subconduttori”.
Va innanzitutto osservato che il richiamo dell’articolo 1177 c.c. da parte della Corte d’Appello e’ servito per cogliervi l’espressione codificata di un principio generale, informatore ed immanente al sistema, che impone a chiunque abbia la disponibilita’ di una res altrui di garantirne la custodia in vista della restituzione, il quale ha assunto, nella decisione, una valenza complessa: in negativo, come limite connaturato alla situazione giuridica soggettiva, e in positivo, in chiave collaborativa-conformativa della preservazione dell’interesse proprietario, da cui sono dipesi tanto il riscontro di una condotta commissiva ed omissiva (cfr. pp. 9 – ove la Corte d’Appello afferma: si tratta invero di un principio generale ripreso, nell’ambito dei singoli istituti del codice, sia in tema di responsabilita’ contrattuale l’articolo 1591 c.c.), sia in ambito extracontrattuale, rientrando a pieno titolo nella responsabilita’ da illecito l’obbligo di non danneggiare la cosa in custodia, detenuta, a qualunque titolo, e pertanto, come in specie, anche in via di mero fatto, ma con uguale obbligo restitutorio) quanto la disamina in ordine alla sussistenza del nesso di causalita’ materiale anche in ordine alla condotta omissiva imputata ai ricorrenti.
Ora, stante che In tema di responsabilita’ civile, poiche’ l’omissione di un certo comportamento rileva quale condizione determinativa del processo causale dell’evento dannoso non soltanto quando si tratti di omissione di condotta imposta da una norma giuridica specifica (omissione specifica), ma anche quando, in relazione al configurarsi della posizione del soggetto cui si addebita l’omissione, si ravvisi l’esistenza a suo carico di un generico dovere di intervento (omissione generica) in funzione dell’impedimento di quell’evento, correttamente la Corte territoriale ha individuato nell’articolo 1177 c.c. l’emersione di un obbligo generico di intervento, soddisfacendo la necessita’ che il giudizio relativo alla sussistenza del nesso causale non si limitasse alla mera valutazione della materialita’ fattuale, bensi’ postulasse la preventiva individuazione dell’obbligo specifico o generico di tenere la condotta omessa in capo al soggetto; l’individuazione di tale obbligo si connota, infatti, come preliminare all’apprezzamento di una condotta omissiva sul piano della causalita’ giuridica, nel senso che, se prima non si individua, in relazione al comportamento che non risulti tenuto, il dovere generico o specifico che lo imponeva, non e’ possibile apprezzare l’omissione del comportamento sul piano causale (Cass. 21/05/2013, n. 12401 e successiva giurisprudenza conforme).
Cio’ detto, attiene all’apprezzamento di fatto, non sindacabile in questa sede, l’accertamento del rispetto da parte degli odierni ricorrenti del principio di carattere generale che imponeva loro di attivarsi: rispetto che avrebbe evitato il verificarsi dell’evento dannoso. In aggiunta, va ribadito che l’unicita’ del fatto dannoso richiesta dall’articolo 2055 c.c., ai fini della configurabilita’ della responsabilita’ solidale degli autori dell’illecito, va intesa in senso non assoluto, ma relativo, sicche’ ricorre tale responsabilita’, volta a rafforzare la garanzia del danneggiato e non ad alleviare la responsabilita’ degli autori dell’illecito, come sembra adombrare la difesa dei ricorrenti, pur se il fatto dannoso sia derivato da piu’ azioni o omissioni, dolose o colpose, costituenti fatti illeciti distinti, e anche diversi, sempre che le singole azioni od omissioni, legate da un vincolo di interdipendenza, abbiano concorso in maniera efficiente alla produzione del danno. Deve infatti escludersi, a norma dell’articolo 41 c.p., comma 2, l’imputabilita’ del fatto dannoso a taluno degli autori delle condotte illecite esclusivamente nel caso in cui a uno solo degli antecedenti causali debba essere riconosciuta efficienza determinante ed assorbente, tale da escludere il legame eziologico tra l’evento dannoso e gli altri fatti. Dopodiche’ costituisce nuovamente apprezzamento di fatto non censurabile in sede di legittimita’, la verifica della sussistenza o meno, nella specie, di una condotta dotata di efficienza determinante ed assorbente, tale da escludere ogni responsabilita’ concorrente (Cass. 12/04/2018, n. 9067).
8) Con l’ottavo motivo i ricorrenti lamentano l’Omessa pronuncia sull’eccezione relativa al preponderante concorso di colpa dell’attrice ai sensi dell’articolo 1227 c.c. – Violazione dell’articolo 112 c.p.c. in relazione all’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 4″.
La Corte d’Appello non si sarebbe pronunciata sull’eccezione con cui avevano chiesto di valutare, ai sensi e per gli effetti dell’articolo 1227 c.c., comma 1, l’omesso controllo del terreno da parte della proprietaria, che aveva consentito che per quasi 30 anni (OMISSIS) – presidente dei consorzi di autotrasportatori che si sono avvicendati nel tempo – si comportasse quale vero e proprio dominus degli “(OMISSIS)” e proprio per questo i terzi interessati a poterne utilizzare alcune porzioni si rivolgevano direttamente a lui.
Il concorso del fatto colposo del danneggiato ai sensi dell’articolo 1227 c.c., comma 1, non da’ luogo a un’eccezione in senso proprio, bensi’ a una mera difesa, sulla quale non sussiste alcun onere di espressa pronuncia. Deve ribadirsi il principio gia’ affermato da questa Corte, per il quale, in tema di risarcimento del danno, l’ipotesi del fatto colposo del creditore che abbia concorso al verificarsi dell’evento dannoso (articolo 1227 c.c., comma 1) va distinta da quella (disciplinata dal comma 2 della medesima norma) riferibile a un contegno dello stesso danneggiato che abbia prodotto il solo aggravamento del danno senza contribuire alla sua causazione, costituendo, questa, oggetto di una eccezione in senso proprio, ai sensi e per gli effetti di cui all’articolo 112 c.p.c..
E’ vero che il giudice d’ufficio deve proporre un’indagine sul concorso di colpa del danneggiato, se risultino prospettati gli elementi di fatto dai quali si possa desumere la ricorrenza della concausa del danno.
Ora, per quanto risulta dalla sentenza impugnata, essa, ritenendo indubbio che solo gli occupanti dell’area e non altri soggetti, che solo la loro condotta consistita nell’abbandono dei rifiuti e nell’ulteriore inquinamento dell’area abbia cagionato e concorso a cagionare il danno sia pure implicitamente ha escluso un concorso di colpa della danneggiata.
Ne consegue il rigetto del motivo.
9) Il ricorso va, dunque, rigettato.
10) Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.
11) Seguendo l’insegnamento di Cass., Sez. Un., 20/02/2020 n. 4315 si da’ atto, ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2012, articolo 13, comma 1 quater, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello da corrispondere per il ricorso, a norma dello stesso articolo 13, comma 1 bis, se dovuto.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese in favore della controricorrente, liquidandole in Euro 12.100,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.
Si da’ atto, ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2012, articolo 13, comma 1 quater, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello da corrispondere per il ricorso, a norma dello stesso articolo 13, comma 1 bis, se dovuto.

 

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