Ricorso per cassazione e l’esposizione sommaria dei fatti di causa

Corte di Cassazione, civile, Ordinanza|12 gennaio 2024| n. 1352.

Ricorso per cassazione e l’esposizione sommaria dei fatti di causa

Il disposto dell’art. 366, comma 1, n. 3, c.p.c. – secondo cui il ricorso per cassazione deve contenere, a pena di inammissibilità, l’esposizione sommaria dei fatti di causa – non risponde ad un’esigenza di mero formalismo, bensì a consentire alla S.C. di conoscere dall’atto, senza attingerli aliunde, gli elementi indispensabili per una precisa cognizione dell’origine e dell’oggetto della controversia, dello svolgimento del processo e delle posizioni in esso assunte dalle parti; per soddisfare tale requisito occorre che il ricorso per cassazione contenga, in modo chiaro e sintetico, l’indicazione delle reciproche pretese delle parti, con i presupposti di fatto e le ragioni di diritto che le hanno giustificate, delle eccezioni, delle difese e delle deduzioni di ciascuna parte in relazione alla posizione avversaria, dello svolgersi della vicenda processuale nelle sue articolazioni e, dunque, delle argomentazioni essenziali, in fatto e in diritto, su cui si è fondata la sentenza di primo grado, delle difese svolte dalle parti in appello e, infine, del tenore della sentenza impugnata.

Ordinanza|12 gennaio 2024| n. 1352. Ricorso per cassazione e l’esposizione sommaria dei fatti di causa

Data udienza 15 dicembre 2023

Integrale

Tag/parola chiave: Impugnazioni civili – Cassazione (ricorso per) – Ricorso – Forma e contenuto – Esposizione sommaria dei fatti esposizione sommaria dei fatti – Finalità – Contenuto del ricorso – Requisiti.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

TERZA SEZIONE CIVILE

Composta da

Dott. FRASCA Raffaele – Presidente

Dott. CIRILLO Francesco Maria – Consigliere

Dott. IANNELLO Emilio – Consigliere Rel.

Dott. MOSCARINI Anna – Consigliere

Dott. SPAZIANI Paolo – Consigliere

ha pronunciato la seguente
ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 15367/2022 R.G.

proposto da

Pasticceria Pe. S.n.c., rappresentata e difesa dall’Avv. Ma.Cu. (p.e.c. indicata: …);

– ricorrente –

contro

I.A.C.P. – Istituto Autonomo Case Popolari della Provincia di Messina, rappresentato e difeso dall’Avv. Ma.Co. (p.e.c. indicate: …);

– controricorrente –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Messina, n. 218/2022 ,

depositata il 5 aprile 2022.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 15 dicembre 2023 dal Consigliere Emilio Iannello.

Ricorso per cassazione e l’esposizione sommaria dei fatti di causa

FATTI DI CAUSA

1. La Pasticceria Pe. S.n.c. ricorre, con tre mezzi, nei confronti dell’Iacp di Messina (che resiste con controricorso) per la cassazione della sentenza in epigrafe con la quale la Corte d’appello di Messina ha confermato il rigetto, da parte del giudice di primo grado, della sua domanda volta all’adempimento dell’obbligo di concludere contratto preliminare di locazione di immobili ed alla condanna dell’Istituto al risarcimento del danno per dolo incidente (in relazione al contenuto del detto preliminare) ex art. 1440 cod. civ..

È stata fissata la trattazione per la odierna adunanza camerale con decreto del quale è stata data rituale comunicazione alle parti.

Non sono state depositate conclusioni dal Pubblico Ministero.

Il difensore originario della parte resistente ha rinunciato al mandato e per l’Iacp si è costituito nuovo difensore

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RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il ricorso si espone ad un preliminare e assorbente rilievo di inammissibilità perché carente del requisito di contenuto – forma prescritto dall’art. 366, comma primo, num. 3, cod. proc. civ..

Nella parte introduttiva dell’atto la ricorrente si è invero limitata ad esporre le domande da essa proposte nella comparsa di costituzione depositata davanti al Tribunale per opporsi alla convalida dello sfratto intimato dall’Iacp e a dire che il giudizio di primo grado si concluse con il rigetto sia della domanda dell’Istituto locatore di risoluzione del rapporto per inadempimento, sia di tutte le sue domande riconvenzionali.

Da tali indicazioni emerge (solo) che:

– per opporsi allo sfratto la società aveva eccepito l’insussistenza della morosità stante la già intervenuta risoluzione del contratto per precedente sfratto e/o l’estinzione del rapporto per effetto di novazione del contratto;

– in via riconvenzionale aveva chiesto:

– dichiararsi l’obbligo dell’Iacp di Messina, scaturente da scrittura privata del 1° febbraio 2011, di stipulare un nuovo contratto di locazione alle condizioni vigenti al momento del raggiungimento dell’accordo, giusta “Nuovo Regolamento per la locazione di immobili ad uso diverso da quello di abitazione” approvato con delibera n. 172 del 30 luglio 2007 ed integrato con successiva n. 221 del 12 ottobre 2007;

– per l’effetto, che fosse emessa sentenza ex art. 2932 c.c., che tenesse luogo degli effetti del contratto non concluso;

– in subordine, preso atto che il consenso espresso nella scrittura privata del 1° febbraio 2011 era viziato da dolo incidente e/o errore, che l’Iacp di Messina fosse condannato, ex art. 1440 c.c., al risarcimento dei danni, determinati dalla differenza fra il maggior canone dovuto in virtù del Regolamento in vigore al momento della data di sottoscrizione del contratto e quello minore determinato dal Regolamento precedente, ovvero alla maggiore o minor somma ritenuta conforme a giustizia;

– in ulteriore subordine, che fosse dichiarata l’annullabilità della scrittura privata predetta, ex art. 1427 c.c., per vizio del consenso derivato da errore e/o dolo, con riserva di agire in separata sede per il risarcimento degli ingentissimi danni;

– in via ulteriormente gradata, che fosse dichiarato l’inadempimento dell’Iacp verso gli obblighi di cui all’art. 3) della menzionata scrittura privata, per non essere il canone preteso corrispondente all’effettivo valore commerciale locativo per gli esercizi ubicati nella zona ove sono site le botteghe.

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Assolutamente nulla, sia pure in via sommaria, invece è detto circa:

a) la vicenda sostanziale e il tema di lite (ossia sulle rispettive posizioni delle parti e sul perché era sorto contrasto in ordine al menzionato preliminare);

b) le ragioni per cui in primo grado tali domande erano state rigettate;

c) i motivi che erano stati proposti a fondamento dell’appello (si dice solo che erano stati proposti quattro motivi e si riportano poi le conclusioni dell’atto di gravame);

d) le difese in appello svolte da controparte;

e) le motivazioni della sentenza d’appello.

Anche l’illustrazione dei singoli motivi nulla dice della vicenda processuale e del modo del suo dipanarsi nei due gradi del giudizio di merito, per comprendere i quali dunque non resterebbe alla Corte che la lettura degli atti del processo.

Si apprendono soltanto, dalla illustrazione del primo motivo (v. ricorso, pagg. 8 – 12), ulteriori dettagli riguardanti la vicenda sostanziale da cui ha tratto origine la controversia, i quali consentono di comprendere meglio le ragioni poste a fondamento delle domande riconvenzionali della società. Queste si sostanziavano nell’assunto che la citata scrittura, nel rimandare – quanto al canone – alla misura prevista dal “regolamento in vigore”, era frutto di vizio del consenso derivante dal fatto che, in base a precorse trattative, essa riteneva che il canone del nuovo contratto sarebbe stato commisurato al più favorevole importo unitario previsto dal previgente regolamento, ignorando che, nelle more della effettiva sottoscrizione, tale regolamento era stato nel frattempo modificato con la previsione di importi più elevati.

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Nulla però ancora si ricava, nemmeno dalla illustrazione dei motivi, circa le ragioni del rigetto della domanda in primo grado e circa i motivi d’appello (dei quali si riportano solo le rubriche: certamente insufficienti ad avere un quadro delle questioni devolvibili ed effettivamente devolute in secondo grado).

Appare dunque incontestabile l’inosservanza dell’onere imposto dall’art. 366, comma primo, num. 3, cod. proc. civ..

2. La prescrizione normativa risponde non ad un’esigenza di mero formalismo, ma a quella di consentire una conoscenza chiara e completa dei fatti di causa, sostanziali e/o processuali, che permetta di bene intendere il significato e la portata delle censure rivolte al provvedimento impugnato (Cass. Sez. U. 20/02/2003, n. 2602).

La legittimità di tale requisito di accesso al giudizio di legittimità non può essere messa in dubbio in relazione al diritto di difesa delle parti, o a quello al giusto processo, tutelati dagli artt. 24 e 111 Cost., ovvero dall’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali (firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata – in uno al protocollo aggiuntivo firmato a Parigi il 20 marzo 1952 – con legge 4 agosto 1955, n. 848, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 221 del 24 settembre 1955 ed entrata in vigore il 10 ottobre 1955).

Sotto questo profilo, in particolare, giova ribadire che il requisito di contenuto – forma in questione è imposto in modo chiaro e prevedibile, non è eccessivo per il ricorrente e risulta funzionale al ruolo nomofilattico della Suprema Corte e segnatamente all’esigenza di “consentire alla Corte di cassazione di conoscere dall’atto, senza attingerli aliunde, gli elementi indispensabili per una precisa cognizione dell’origine e dell’oggetto della controversia, dello svolgimento del processo e delle posizioni in esso assunte dalle parti” (Cass. Sez. U. 10/09/2019, n. 22575; Id. 16/05/2013, n. 11826).

Mette conto, altresì, ancora una volta rammentare che la Corte europea, con la sua sentenza 15 settembre 2016, in causa Trevisanato c/ Italia (i cui principi sono stati ribaditi nella recente sentenza, depositata il 31 marzo 2021, nel caso Oorzhak c. Russia), ha riaffermato – perfino riconoscendo l’astratta ammissibilità del pure abrogato sistema del c.d. “filtro a quesiti” per l’accesso in cassazione – il basilare principio della piena legittimità di un sistema anche rigoroso di requisiti formali per l’accesso al giudizio di legittimità e per la redazione dei ricorsi introduttivi: il quale non solo non viola l’art. 6 CEDU, ma anzi è funzionale alla tutela del ruolo nomofilattico della Corte di legittimità e quindi al conseguimento dei valori fondamentali, benché non espressamente codificati nella Convenzione, della certezza del diritto e della buona amministrazione della giustizia; solo dovendo la compresente esigenza di tutela del diritto del singolo trovare un contemperamento, così che ogni soluzione possa superare il consueto vaglio di proporzionalità tra fine perseguito e mezzi impiegati (così, in motivazione, Cass. n. 26936 del 2016).

A tale contesto ermeneutico di riferimento non apporta significative novità la pronuncia della Corte Edu 28/10/2021, Succi c. Italia: questa richiama anzi espressamente, confermandone i principi, tra le altre, la propria sentenza 15/09/2016, Trevisanato c. Italia.

Essa ha bensì riscontrato la violazione dell’art. 6 § 1 della Convenzione con riferimento ad uno dei tre casi al suo esame (nel quale venivano in rilievo i diversi requisiti di ammissibilità di cui ai nn. 4 e 6 dell’art. 366 cod. proc. civ.), ma ciò ha fatto considerando, all’esito di un esame in punto di fatto degli atti ivi considerati, non certo che quei requisiti rispondessero di per sé e in astratto a inammissibile formalismo fine a sé stesso ma che nel caso in esame, diversamente da quanto ritenuto dalla Corte di cassazione, fossero stati in realtà rispettati (e, peraltro, lo si nota sommessamente, vi sarebbe da interrogarsi sul se la censura effettuata dalla CEDU non fosse in realtà prospettabile con il rimedio interno dell’art. 391-bis cod. proc. civ.).

Quel che dunque è stata in quella sede censurata è la concreta applicazione delle formalità previste dall’ordinamento nazionale, che occorre osservare all’atto della proposizione del ricorso, in quanto nel caso esaminato ritenuta (l’applicazione, non le formalità) in contrasto con il diritto di accesso ad un tribunale perché di fatto ispirata ad eccessivo formalismo e tale, dunque, da impedire il pur possibile esame nel merito del ricorso proposto dall’interessato.

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In tale prospettiva, la Corte EDU con la medesima pronuncia ha invece escluso la violazione della detta norma convenzionale in un altro caso contestualmente esaminato in cui veniva in considerazione proprio il requisito dell’art. 366 n. 3 cod. proc. civ. (ritenuto in quel caso non rispettato dalla S.C. per l’utilizzo della tecnica redazionale del c.d. assemblaggio), osservando in particolare che:

– l’interpretazione data all’esposizione sommaria dei fatti è compatibile con l’applicazione del principio dell’autosufficienza del ricorso che esige che la Corte di cassazione, ad una lettura globale del ricorso, sia in grado di comprendere l’oggetto della controversia nonché il contenuto delle censure che dovrebbero giustificare l’annullamento della decisione impugnata e sia in grado di pronunciarsi;

– la giurisprudenza della Corte di cassazione prevede procedure chiare e definite (si vedano i paragrafi 17 e 30) per la redazione dell’esposizione dei fatti rilevanti;

– la procedura davanti alla Corte di cassazione prevede l’assistenza obbligatoria di un avvocato che deve essere iscritto in un albo speciale, sulla base di determinate qualifiche, per garantire la qualità del ricorso e il rispetto di tutte le condizioni formali e sostanziali richieste; l’avvocato dei ricorrenti era quindi in grado di sapere quali fossero i suoi obblighi al riguardo, sulla base del testo dell’art. 366 e con l’aiuto dell’interpretazione della Corte di cassazione, definita “sufficientemente chiara e coerente”.

Ciò premesso, occorre quindi ribadire la piena legittimità del requisito in parola e che per soddisfarlo è necessario che il ricorso per cassazione contenga, sia pure in modo non analitico o particolareggiato, ma anzi chiaro e sintetico, l’indicazione sommaria delle reciproche pretese delle parti, con i presupposti di fatto e le ragioni di diritto che le hanno giustificate, delle eccezioni, delle difese e delle deduzioni di ciascuna parte in relazione alla posizione avversaria, dello svolgersi della vicenda processuale nelle sue articolazioni e, dunque, delle argomentazioni essenziali, in fatto e in diritto, su cui si è fondata la sentenza di primo grado, delle difese svolte dalle parti in appello, ed infine del tenore della sentenza impugnata (v. Cass. Sez. U. n. 2602 del 2003; ed ancora da ultimo, ex multis, Cass. 08/08/2023, n. 24149; 03/11/2021, n. 31318; 19/10/2021, n. 28929; 08/08/2023, n. 24149).

3. Se fosse possibile – ma non lo è – prescindere da tale preliminare e assorbente rilievo, il ricorso andrebbe incontro comunque ad analogo esito per altre ragioni intrinseche al contenuto dei motivi.

3.1. Con il primo di essi si deduce “violazione e falsa applicazione dell’art. 1337 e 1440 c.c. e degli artt. 115 e 116 c.p.c., in relazione all’art. 360 comma 1, n. 3 e n. 5 c.p.c.; nullità della sentenza per motivazione apparente, con conseguente violazione e falsa applicazione dell’art. 132 cod. proc. civ. (art. 360, n. 4, c.p.c.); omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c.”.

Si lamenta che erroneamente la Corte d’appello abbia rigettato il secondo motivo di appello (rubricato “Erroneo rigetto della domanda riconvenzionale subordinata di sussistenza del vizio del consenso ex art. 1427 e 1440 c.c., della scrittura privata dell’01.02.11; carente e/o omessa motivazione sulle deduzioni all’uopo formulate”), afferente alla richiesta di risarcimento dei danni, per vizio del consenso ex art. 1440 c.c..

Premesso che, diversamente da quanto postulato in un passaggio della sentenza, in secondo grado non era stata riproposta la domanda di annullamento del contratto per vizio del consenso, si censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha rigettato la domanda risarcitoria ex art. 1440 c.c. sul rilievo che “presunte maliziose variazioni rispetto a precedenti accordi sono del tutto destituite di prova anche perché qualunque obbligo contrattuale della P.A. non può essere assunto che in forma scritta e l’unico atto che possiede tali requisiti è appunto la scrittura privata del 01/02/2011”, non potendosi invece attribuire rilievo alle “motivazioni soggettive recondite della parte in ordine alla convenienza che ella attribuisce al negozio che sottoscrive”.

Si lamenta il carattere “apparente” di tale motivazione e la si dice anche “errata e lacunosa”, osservandosi che oggetto di critica non era il contenuto dello scritto (al fine di verificarne la sua validità), bensì le modalità con cui si era giunti a quella pattuizione, al qual riguardo la Corte di merito ha omesso qualsiasi valutazione.

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Si lamenta inoltre la violazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ., per avere la Corte ritenuto al riguardo mancare evidenze probatorie, che invece – si assume – erano “svariate”, essendo in particolare rappresentate: a) dall’avere l’Iacp pubblicato una nuova delibera (atto, prettamente, interno e pubblicizzato solo sul proprio sito), modificativa delle modalità di determinazione del canone per locazioni non abitative, senza comunicare nulla al “promissario locatario”; b) dall’avere l’Istituto “imposto” una modifica di una prima scrittura del gennaio 2011, sottoscritta solo dal proprio legale, con l’aggiunta, nel testo definitivo, di un espresso riferimento (con riguardo alla determinazione del canone) ai regolamenti in vigore, senza specificazione di quale regolamento si tratti; c) dalle circostanze poste ad oggetto di prova testimoniale sulla cui richiesta la Corte d’Appello non si è in alcun modo pronunciata.

Si censura, inoltre, in quanto asseritamente “apodittica e viziata da nullità”, l’ulteriore argomentazione sul punto spesa in sentenza secondo cui “la formulazione dell’art. 3 della scrittura privata del 01/02/2011 risponde inoltre ad un chiaro perseguimento dell’interesse pubblico dell’I.A.C.P. e, tanto per questo quanto per la natura di Ente Pubblico impersonale, va escluso che si possano individuare nella negoziazione elementi di dolo tali da viziare il consenso della controparte o da danneggiarla”.

Si osserva di contro che, secondo la giurisprudenza di legittimità, “la responsabilità precontrattuale della P.A. è configurabile in tutti i casi in cui l’ente pubblico, nelle trattative con i terzi, abbia compiuto azioni o sia incorso in omissioni contrastanti con i principi della correttezza e della buona fede, alla cui puntuale osservanza anch’esso è tenuto, nell’ambito del rispetto dei doveri primari garantiti dall’art. 2043 cod. civ. (Cass. 10/10/2019, n. 25407)”.

3.2. Con il secondo motivo si denuncia, poi, “violazione e falsa applicazione dell’art. 1218 e seg. c.c. e degli artt. 115 e 116 c.p.c., in relazione all’art. 360 comma 1, n. 3, n. 4 e n. 5 c.p.c.; nullità della sentenza per motivazione errata e apparente, con conseguente violazione e falsa applicazione dell’art. 132 c.p.c. (art. 360, n. 4, c.p.c.); omessa valutazione di prove documentali e/o omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4 e n. 5 c.p.c.”.

Si lamenta che erroneamente la Corte d’appello abbia rigettato il terzo motivo di appello (rubricato “erroneo rigetto della domanda riconvenzionale subordinata di condanna dell’Iacp al rispetto degli impegni assunti con la scrittura privata dell’01.02.11; carente e/o omessa motivazione sulle deduzioni all’uopo formulate”), afferente alla richiesta di esatto adempimento della scrittura del 1° febbraio 2011.

Si censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha rigettato la domanda subordinata di condanna della controparte alla stipulazione del contratto nel rispetto degli accordi sottoscritti sul rilievo che “l’I.A.C.P. non risulta essersi mai sottratto né risulta essere mai stato costituito in mora”, osservandosi che in realtà la costituzione in mora dell’Istituto avrebbe dovuto evincersi dagli atti e dai documenti prodotti (si elencano al riguardo: sub lett. a, b, c, tre raccomandate delle quali si trascrive anche il contenuto; sub lett. d, documentazione, non meglio descritta, attestante l’avvio al riguardo di un procedimento di mediazione; si fa infine riferimento, sub lett. e, alla domanda riconvenzionale proposta in primo grado).

3.3. Con il terzo motivo si denuncia, infine, “violazione ed errata applicazione dell’art. 91 e 92 c.p.c. in relazione all’art. 360 comma 1, n. 3 c.p.c.”, instandosi con esso per la cassazione della sentenza anche in punto di spese, in conseguenza dell’auspicato accoglimento delle “istanze avanzate”.

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4. Ebbene, il primo motivo si appalesa inammissibile – oltre che, in via assorbente, per la impossibilità, derivante dalla già rilevata inosservanza dell’onere imposto dall’art. 366 n. 3 cod. proc. civ., di comprendere se e in che termini la questione cui esso fa riferimento era stata dedotta in appello – sotto altri diversi e per così dire autonomi profili:

– anzitutto per la sovrapposizione, con riferimento ad un indistricabile unico argomentare, di censure eterogenee e ricondotte a ben tre diversi e incompatibili vizi cassatori (error in iudicando, error in procedendo e vizio di omesso esame ex art. 360 n. 5);

– lungi dall’evidenziare l’affermazione contenuta in sentenza che riveli una erronea impostazione qualificatoria, sotto i profili indicati, della fattispecie così come accertata, le doglianze mirano a investire proprio tale accertamento di fatto, sollecitandone una inammissibile rivisitazione in questa sede;

– si deduce un vizio di erronea o lacunosa motivazione, vagamente evocante paradigma censorio non più consentito dalla vigente formulazione dell’art. 360 n. 5 cod. proc. civ.;

– il vizio di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti non è comunque deducibile per la preclusione che deriva – ai sensi dell’art. 348-ter, ultimo comma, cod. proc. civ. (come sostituito dall’art. 54, comma 1, lett. a), d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 134) – dall’avere la Corte d’appello deciso in modo conforme alla sentenza di primo grado (c.d. doppia conforme), non avendo la ricorrente assolto l’onere in tal caso su di essa gravante di indicare le ragioni di fatto della decisione di primo grado ed in cosa queste si differenziavano da quelle poste a fondamento della decisione di appello (v. Cass. 22/12/2016, n. 26774; 06/08/2019, n. 20994; 15/03/2022, n. 8320);

– si deduce la violazione dell’art. 115 e dell’art. 116 c.p.c. del tutto al di fuori dei criteri di deduzione indicati dalla giurisprudenza di questa Corte, inaugurati da Cass. n. 11892 del 2016, ribaditi, in motivazione non massimata, ma espressa, da Cass. Sez. U. n. 16598 del 2016 e, quindi, ex multis, da Cass. Sez. U. n. 20867 del 2020, sollecitando, invece, una rivalutazione della quaestio facti, particolarmente quanto al tenore della scrittura del febbraio 2011 in rapporto ad altre risultanze probatorie;

– si fa riferimento a circostanze di fatto senza, per gran parte di esse, indicare se e come queste siano state acquisite nel processo, nel rispetto degli oneri di specificità e autosufficienza imposti dagli artt. 366 n. 6 e 369 n. 2 cod. proc. civ.;

– il carattere apparente della motivazione lo si deduce con riferimento ad elementi estranei ad essi (l’asserita mancata considerazione di documenti o richieste istruttorie), in termini dunque difformi dal relativo paradigma censorio quale definito da Cass. Sez. U. 07/04/2014, nn. 8053 – 8054;

– il rilievo della configurabilità della responsabilità precontrattuale anche nei confronti della P.A. coglie un’affermazione bensì erronea contenuta in sentenza (che sembrerebbe invero escluderla) ma tuttavia incidentale e priva di decisività nell’ambito della più ampia e complessa motivazione;

– infine, la doglianza appare comunque non supportata da concreto interesse, dal momento che, non essendo stato stipulato alcun contratto definitivo di locazione, non si vede né è specificato quale danno la società abbia subito per essere stata indotta alla stipula del preliminare alle condizioni ivi indicate.

5. Il secondo motivo – oltre a esporsi ai medesimi rilievi di inammissibilità svolti in via preliminare, nonché a quelli svolti con riferimento al precedente motivo (anche per esso le censure volgendo chiaramente a sollecitare una inammissibile rivalutazione del materiale istruttorio) – appare inammissibile anche e principalmente perché riguarda domanda che non risulta compresa nemmeno tra quelle che si dice essere state formulate in primo grado: dalla scarna e insufficiente esposizione sommaria di cui s’è detto (v. supra, “Ragioni della decisione”, § 1), si desume infatti che, con la comparsa di costituzione nel procedimento di convalida, la società convenuta ebbe a chiedere bensì l’adempimento dell’obbligo di stipulare un nuovo contratto di locazione sul presupposto però che esso prevedesse l’applicazione di un canone da calcolarsi nella misura stabilita da regolamenti previgenti; la domanda del cui rigetto si lamenta, in subordine, la ricorrente con il motivo in esame, sembrerebbe invece avere ad oggetto l’obbligo di stipulare il contratto di locazione alle condizioni stabilite dal nuovo regolamento, ma di essa non vi è traccia tra quelle che si dice essere state proposte in primo grado.

In tal senso, peraltro, vi è anche espressa motivazione in sentenza, integrante autonoma ratio decidendi non attinta dal ricorso.

Nel par. 3.3 (pag. 6), a giustificazione del rigetto della domanda di esecuzione specifica ex art. 2932 cod. civ., la Corte peloritana osserva infatti che “la pretesa della società appellante non può essere accolta perché la stessa chiede la sentenza in luogo del contratto alle condizioni di cui alle delibere del C.d.A. dell’Istituto n. 172 del 30/07/2007 e n. 221 del 12/10/2007, mentre all’art. 3 della scrittura privata del 01/02/2011 è espressamente previsto che il nuovo contratto avrebbe dovuto essere sottoscritto “alle condizioni previste sulla base del valore locativo vigente al momento della sottoscrizione della locazione”. Inoltre, dal tenore del più volte richiamato art. 3 della scrittura privata si desume che la stessa non può essere assunta a nuovo contratto, ma solo come mero preliminare in vista di una futura sottoscrizione del nuovo contratto ed il nuovo contratto non può, stando alla lettera dell’accordo, che essere concluso “alle condizioni previste sulla base del valore locativo vigente al momento della sottoscrizione della locazione”. La domanda di Pasticceria Pe. s.n.c. non è quindi conforme al contenuto del preliminare, chiedendo l’applicazione del non più vigente regolamento del 2007, e non può dare quindi luogo ad emissione di sentenza ex art. 2932 cod. civ.”.

6. Il terzo motivo non è tale, ossia è un “non motivo”, limitandosi a postulare la caducazione della statuizione sulle spese come conseguenza dell’accoglimento di alcuno dei due motivi precedenti e, dunque, un effetto disposto dalla norma dell’art. 336, primo comma, c.p.c., posto che la statuizione sulle spese dipende da quelle della decisione sul “merito” della lite.

7. Il ricorso deve essere pertanto dichiarato inammissibile, con la conseguente condanna della ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del presente giudizio, liquidate come da dispositivo.

8. Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dell’art. 1-bis dello stesso art. 13.

Ricorso per cassazione e l’esposizione sommaria dei fatti di causa

P.Q.M.

dichiara inammissibile il ricorso.

Condanna la ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del presente giudizio, che liquida in Euro 2.300 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13 comma 1-quater del D.P.R. n. 115 del 2002, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dell’art. 1-bis dello stesso art. 13.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 15 dicembre 2023.

Depositato in Cancelleria il 12 gennaio 2024.

In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.

Le sentenze sono di pubblico dominio.

La diffusione dei provvedimenti giurisdizionali “costituisce fonte preziosa per lo studio e l’accrescimento della cultura giuridica e strumento indispensabile di controllo da parte dei cittadini dell’esercizio del potere giurisdizionale”.

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