Corte di Cassazione, penale, Sentenza|7 giugno 2022| n. 21928.
Reato permanente contestato nella forma cosiddetta “aperta”
In tema di reato permanente contestato nella forma cosiddetta “aperta”, qualora in sede esecutiva debba farsi dipendere un qualsiasi effetto giuridico dalla data di cessazione della condotta e questa non sia stata precisata nella sentenza di condanna, spetta al giudice dell’esecuzione l’accertamento mediante l’analisi accurata degli elementi a sua disposizione. (Fattispecie relativa a richiesta di fungibilità della pena inflitta per reato associativo, in cui la Corte ha annullato con rinvio l’ordinanza di rigetto che aveva ritenuto cessata la permanenza con la pronuncia di primo grado, senza verificare in concreto quanto emerso nel giudizio di merito).
Sentenza|7 giugno 2022| n. 21928. Reato permanente contestato nella forma cosiddetta “aperta”
Data udienza 17 marzo 2022
Integrale
Tag – parola: Esecuzione – Fungibilità delle pene espiate senza titolo – Inapplicabilità ai reati permanenti quando la permanenza sia cessata dopo l’espiazione senza titolo – Contestazione aperta del reato di associazione mafiosa – Illogicità della motivazione – Annullamento con rinvio
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. TARDIO Angela – Presidente
Dott. SIANI Vincenzo – rel. Consigliere
Dott. BIANCHI Michele – Consigliere
Dott. TALERICO Palma – Consigliere
Dott. DI GIURO Gaetano – Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
(OMISSIS), nato a (OMISSIS);
avverso l’ordinanza del 18/03/2021 della CORTE APPELLO di CATANZARO;
udita la relazione svolta dal Consigliere SIANI VINCENZO;
lette le conclusioni del PG, MOLINO PIETRO, che ha chiesto il rigetto del ricorso.
Reato permanente contestato nella forma cosiddetta “aperta”
RITENUTO IN FATTO
1. Con l’ordinanza in epigrafe, emessa il 18 marzo 2021, la Corte di appello di Catanzaro, quale giudice dell’esecuzione, ha rigettato l’istanza proposta nell’interesse di (OMISSIS), intesa a ottenere, ai sensi dell’articolo 657 c.p.p., il computo del periodo di carcerazione sofferto – senza titolo, nella prospettazione – dal 13 agosto 2012 al 23 dicembre 2014, a titolo di fungibilita’, ai fini della pena da espiare per altro titolo, a seguito della sentenza resa dalla Corte di assise di appello di Catanzaro il 26 novembre 2015, che aveva assolto (OMISSIS) dai reati, contestati come commessi il 21 aprile 2012, in relazione ai quali egli era stato detenuto.
La deduzione dell’istante e’ stata cosi’ richiamata: (OMISSIS) stava scontando la pena di anni sei di reclusione, irrogatagli con la sentenza di primo grado confermata in appello il 18 dicembre 2017 per fatti (relativi all’operazione definita Tabula rasa) che, secondo l’imputazione, erano stati commessi dall’anno 2008; egli, peraltro, aveva sofferto un ingiusto periodo di custodia cautelare in carcere; dall’11 agosto 2012 al 23 dicembre 2014, pari a 864 giorni, per il fatto (relativo all’operazione definita Impluvium) contestato come commesso il (OMISSIS), in relazione a cui era intervenuta la suindicata sentenza della Corte di assise di appello di Catanzaro del 26 novembre 2015; il Pubblico ministero nell’emettere il provvedimento di esecuzione della pena detentiva espianda non aveva computato questo periodo di detenzione in quanto la contestazione dell’imputazione per la quale era intervenuta la condanna era di carattere aperto; tuttavia, risultava accertato che le condotte attribuite a (OMISSIS) erano riferite ad alcune intercettazioni telefoniche, intervenute tra il marzo 2011 e il 29 maggio 2012, con la specificazione che dall’esame della sentenza di primo grado si evinceva altresi’ che le fonti di prova a suo carico erano riferibili al periodo dal (OMISSIS); del resto, anche la sentenza di secondo grado non aveva accertato elementi a carico di (OMISSIS) successivi al 13 agosto 2012; pertanto, da quella data, in cui era stato tratto in arresto e detenuto ininterrottamente fino al 20 dicembre 2014, per il fatto relativo all’operazione Impluvium, da cui poi era stato assolto, non sussistevano elementi a suo carico per il delitto riferito all’operazione Tabula rasa in relazione al quale aveva riportato condanna, non bastando in contrario il riferimento formale alla mera data di accertamento, con la conseguente, necessaria applicazione del principio di fungibilita’ di cui all’articolo 657 c.p..
Reato permanente contestato nella forma cosiddetta “aperta”
Tuttavia, il giudice dell’esecuzione ha ritenuto dirimente in senso contrario che l’arresto di (OMISSIS) non avesse determinato la cessazione della permanenza del reato associativo da lui commesso, con conseguente inapplicabilita’ del principio invocato.
2. Avverso l’ordinanza ha proposto ricorso il difensore di (OMISSIS), il quale ne ha chiesto l’annullamento sulla scorta di un unico motivo con cui denuncia la violazione dell’articolo 657 c.p.p. e il corrispondente vizio di motivazione sulla sussistenza dei presupposti per l’applicazione del principio di fungibilita’.
Sulla premessa che, nell’istanza, si era specificato come il contenuto delle motivazioni delle sentenze di merito relative al processo Tabula rasa lasciasse evincere chiaramente che le fonti di prova a carico di (OMISSIS) avevano apportato elementi riferibili al solo periodo compreso fra il (OMISSIS) e come in nessun caso fosse stato accertato alcun fatto successivo all’arresto del (OMISSIS), il giudice dell’esecuzione, secondo la difesa, ha raggiunto una conclusione erronea ritenendo semplicemente normale che le intercettazioni fossero cessate per la sopravvenuta carcerazione di (OMISSIS), cosi’ finendo per sottrarsi all’accertamento rigoroso del contenuto delle motivazioni delle sentenze di merito, necessario quando il tempus commissi delicti non era indicato esplicitamente nel capo di accusa.
In tale prospettiva, il ricorrente rimarca che nel provvedimento impugnato si e’ trasformata la compatibilita’ fra detenzione e reato associativo in una presunzione, in virtu’ della quale il giudice dell’esecuzione ha omesso la verifica dell’effettivita’ della persistenza del contributo, ancorche’ solo morale, dedotto come apportato all’associazione nel tempo successivo al suo arresto e si e’ limitato a segnalare l’assenza della prova del recesso dalla consorteria, senza considerare che l’accertamento in sede cognitiva imponeva di concludere per l’anteriorita’ della commissione del fatto per cui e’ stata emessa condanna rispetto alla carcerazione ingiustamente sofferta e comunque obliterando che la contestazione aperta del reato permanente non determina l’automatica fissazione della cessazione della permanenza al momento – limite dell’emissione della sentenza di primo grado, ma obbliga il giudice ad appurare se il reato oggetto del capo di imputazione riguardi una fattispecie concreta che si sia esaurita prima o contestualmente al relativo accertamento.
3. Il Procuratore generale ha prospettato il rigetto del ricorso, non avendo, il giudice dell’esecuzione, ritenuto in modo presuntivo la persistenza della condotta associativa dopo l’arresto di (OMISSIS), ma avendo indicato le specifiche ragioni per le quali lo status detentionis non aveva implicato la cessazione della sua partecipazione alla consorteria, posto che la cessazione della partecipazione all’associazione non consegue automaticamente all’arresto dell’associato.
4. Con susseguente memoria, la difesa di (OMISSIS) ha replicato alle considerazioni dell’Autorita’ requirente osservando che proprio il principio di diritto richiamato nella requisitoria consente di ribadire che la verifica avrebbe dovuto essere compiuta sulla base delle risultanze emerse nelle sentenze di cognizione – messe a disposizione del giudice dell’esecuzione dalla parte istante – per stabilire fino a quando si era effettivamente protratta la permanenza, mentre la motivazione si e’ esaurita in affermazioni apodittiche e congetturali.
Reato permanente contestato nella forma cosiddetta “aperta”
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. L’impugnazione e’, per quanto di ragione, fondata e va accolta nei sensi che seguono.
2. Appare utile premettere che il giudice dell’esecuzione ha, a ragione del provvedimento reso e in risposta alle prospettazioni dell’istante, osservato che (OMISSIS) era stato condannato per partecipazione ad associazione di stampo mafioso commessa dal 2008, con contestazione aperta, per cui la permanenza era da ritenersi sussistita fino all’emissione della sentenza di primo grado, in data 19 febbraio 2016.
La Corte di merito non ha negato che la considerazione esposta afferiva, certo, a una regola di natura processuale, non corrispondente a una presunzione di colpevolezza fino a quella data, dipendendo – l’esito dei benefici richiesti dal condannato – dall’accertamento in concreto del momento di cessazione della permanenza: tuttavia, la verifica nel caso di specie faceva emergere che la partecipazione di (OMISSIS) nel reato associativo non si era interrotta per effetto della sua carcerazione, tenuto anche conto che la permanenza della suddetta partecipazione, in relazione alla struttura del clan e dei forti legami tra gli aderenti, non era incompatibile con lo stato detentivo, a meno di eventi, positivamente acclarati (quali il recesso o l’esclusione), dimostrativi della rescissione del vincolo.
Pertanto, nel ragionamento svolto dal giudice dell’esecuzione, il riferimento operato dalla difesa al fatto che le intercettazioni dimostrative della partecipazione di (OMISSIS) alla consorteria si erano arrestate al giugno 2012 fatto peraltro normale, posto che questi era stato arrestato il (OMISSIS) non era rilevante, in quanto non sussistevano elementi per ritenere che a tale ultima data costui avesse operato il recesso dall’associazione: per contro, le intercettazioni davano conto di un’attivita’ in divenire compiuta dal partecipe, attivita’ in relazione a cui l’arresto aveva soltanto impedito al medesimo di commettere ulteriormente reati fine, ma non aveva determinato la cessazione della permanenza del reato associativo da lui commesso.
3. Enucleati i termini della questione, emergenti dal raffronto fra le argomentazioni spese dal giudice dell’esecuzione e i rilievi esposti dalla difesa, e’ necessario, in punto di diritto, evidenziare due punti, fra loro collegati.
Reato permanente contestato nella forma cosiddetta “aperta”
3.1. In primo luogo, va senz’altro ribadito il principio – scaturente dalla corretta esegesi dell’articolo 657 c.p.p., comma 4, – in base al quale l’istituto della fungibilita’ delle pene espiate senza titolo non e’ applicabile ai reati permanenti quando la permanenza sia cessata dopo l’espiazione senza titolo di cui si tratta.
Occorre, invero, riflettere come, in ipotesi di reato permanente, data la struttura unitaria di esso, non sia possibile effettuare la scomposizione del fatto in una pluralita’ di reati, anteriori e posteriori all’esecuzione dello stato detentivo rivelatosi senza titolo: di conseguenza, non e’ dato computare la pena espiata senza titolo con riferimento al reato permanente che si protragga anche nel tempo ulteriore al termine della relativa esecuzione (Sez. 1, n. 6072 del 24/05/2017, dep. 2018, Di Perna, Rv. 272102 – 01; Sez. 1, n. 40329 del 11/07/2013, Onorato, Rv. 257600 – 01).
3.2. Sotto altro e inevitabilmente connesso profilo, d’altronde, si sottolinea che, ai fini dell’accertamento in sede esecutiva, della data di consumazione del reato permanente, in particolare del delitto di natura associativa, il riferimento alla contestazione in forma aperta avvenuta in sede cognitiva e al conseguente ancoraggio dell’epoca di conclusione della permanenza al momento dell’emissione della sentenza di primo grado accertativa del reato stesso afferisce a una regola di natura processuale, la quale non esime in alcun modo il giudice dell’esecuzione dal vaglio – da compiersi anzitutto sulla scorta della motivazione resa dal giudice della cognizione, onde cogliere la portata effettiva del suo accertamento – inerente alla ricognizione dell’effettiva data del commesso reato.
3.2.1. Pare opportuno rimarcare che la ragione della contestazione definita aperta del reato permanente poggia sul rilievo che essa, per l’intrinseca natura del fatto che enuncia, contiene gia’ l’elemento del perdurare della condotta antigiuridica, sicche’, qualora il pubblico ministero si sia limitato ad indicare esclusivamente la data iniziale (o la data dell’accertamento) e non quella finale, la permanenza – intesa come dato della realta’ – deve ritenersi compresa nell’imputazione: pertanto, l’interessato e’ chiamato a difendersi nel processo in relazione a un fatto la cui essenziale connotazione e’ data dalla sua persistenza nel tempo, senza alcuna necessita’ che il protrarsi della condotta criminosa formi oggetto di contestazioni suppletive da parte del titolare dell’azione penale. Sotto il profilo accertativo, quando il capo di imputazione contenuto indichi esclusivamente la data di accertamento di un reato permanente, senza nessun riferimento a quella di cessazione della permanenza, il giudice del dibattimento deve appurare, attraverso l’interpretazione di detto capo, considerato nel suo complesso, se esso riguardi una fattispecie concreta la quale, cosi’ come descritta, sia gia’ esaurita prima o contestualmente all’accertamento medesimo, ovvero una condotta perdurata e ancora in atto al momento della sentenza (cosi’ gia’ gli arresti regolatori di Sez. U, n. 11930 del 11/11/1994, Polizzi, Rv. 199170 – 01; Sez. U, n. 11021 del 13/07/1998, Montanari, Rv. 211385 – 01).
3.2.2. Sotto il profilo cognitivo, si da’ per assodato che, in presenza di un reato permanente nel quale la contestazione sia stata effettuata nella forma cosiddetta aperta, o anche a consumazione in atto, senza indicazione della data di cessazione della condotta illecita, la suindicata regola di natura processuale, per la quale la permanenza si considera cessata con la pronuncia della sentenza di primo grado, non equivale a presunzione di colpevolezza fino a quella data, spettando all’accusa l’onere di fornire la prova che l’imputato abbia protratto la condotta criminosa fino all’indicato ultimo limite processuale (Sez. 2, n. 23343 del 01/03/2016, Ariano, Rv. 267080 – 01).
Il relativo punto, naturalmente, si presta a essere trattato e definito alla stregua di tutte le variabili proprie del giudizio di merito, essendo chiaro che, in tema di associazione per delinquere di stampo mafioso, il sopravvenuto stato detentivo dell’indagato non esclude la permanenza della partecipazione dello stesso al sodalizio criminoso, che viene meno solo nel caso, oggettivo, della cessazione della consorteria criminale, ovvero nelle ipotesi soggettive, positivamente acclarate, di recesso o esclusione del singolo associato, la rescissione del legame potendo essere desunta, fra le varie possibili situazioni di fatto, da un lungo periodo di detenzione senza che siano stati mantenuti contatti con la consorteria, da una contrapposizione interna all’associazione seguita dall’allontanamento di uno dei sodali, ovvero da altri fatti oggettivi, di cui grava sull’interessato un mero onere di allegazione, quali il trasferimento in luogo distante da quello in cui opera la consorteria, sempre che non vi siano elementi da cui desumere la continuita’ della partecipazione (Sez. 6, n. 1162 del 14/10/2021, dep. 2022, Di Matteo, Rv. 282661 – 02).
Anche in tale ambito, l’accertamento specifico dell’effettiva durata del reato permanente contestato in modo aperto spiega conseguenze a molteplici fini (v., in particolare, Sez. 1, n. 20135 del 16/12/2020, dep. 2021, Ciancio, Rv. 281283 – 01, per la precisazione che, in tema di contestazioni a catena, ai fini della retrodatazione dei termini di decorrenza della custodia cautelare disposta per il reato di associazione mafiosa, contestato in forma aperta, il provvedimento coercitivo che limita la liberta’ personale dell’indagato per il primo fatto di reato determina una mera presunzione relativa di non interruzione della condotta partecipativa, la protrazione della quale deve tuttavia essere desunta da concreti elementi dimostrativi).
Reato permanente contestato nella forma cosiddetta “aperta”
3.3. Posto cio’, resta ineludibile l’effetto che, in materia di esecuzione di pene detentive, nel caso di condanna per un reato associativo contestato senza l’indicazione della data di cessazione della condotta criminosa, l’esclusione del computo del periodo di pena espiata inutilmente per altro reato non deve prescindere – ove la sentenza di condanna di primo grado per il reato associativo sia successiva al periodo di detenzione subito in relazione all’altro reato – dalla verifica che la condotta permanente sia effettivamente continuata sino alla data di pronuncia della sentenza, non potendo farsi derivare in via meramente presuntiva questa prova dalla regola giurisprudenziale secondo cui, in ipotesi di contestazione in modo aperto del fatto associativo, la penale responsabilita’ puo’ essere affermata anche con riferimento al periodo successivo alla data di accertamento e che il momento consumativo coincide con la pronuncia della sentenza di condanna di primo grado (Sez. 1, n. 19851 del 22/06/2020, De Mattia, non mass.; Sez. 1, n. 6905 del 08/01/2015, Terrasi, Rv. 262319 – 01).
Il titolo cognitivo va, in questa prospettiva, adeguatamente scandagliato dal giudice dell’esecuzione, mediante un’indagine approfondita degli elementi di riscontro desumibili su tale determinante elemento: si e’ condivisibilmente affermato che, in tema di reato permanente contestato nella forma definita aperta, qualora in sede esecutiva debba farsi dipendere un qualsiasi effetto giuridico dalla data predetta e questa non sia stata precisata nella sentenza di condanna, spetta al giudice dell’esecuzione accertarla, attraverso un’analisi accurata degli elementi a sua disposizione (Sez. 1, n. 45295 del 24/10/2013, Formicola, Rv. 257725 – 01).
Il principio, che viene coerentemente ribadito per i vari aspetti della giurisdizione esecutiva (Sez. 1, n. 10567 del 05/02/2019, Mucci, Rv. 274877 01, in tema di accertamento del tempus commissi delicti relativo a reato permanente ai fini della revoca dell’indulto L. 31 luglio 2006, n. 241, ex articolo 3; Sez. 1, n. 20158 del 22/03/2017, Rizzo, Rv. 270118 – 01, in materia di concessione di benefici penitenziari, in particolare della liberazione anticipata, in ordine a un reato ostativo permanente con contestazione aperta), esige, dunque, che il giudice dell’esecuzione – qualora la sentenza di condanna non specifichi per esplicito la data di cessazione della condotta criminosa – effettui l’accertamento della data in questione mediante l’analisi approfondita degli elementi emersi nel giudizio di merito.
4. Chiarite queste linee ermeneutiche, e’ da considerare che – come risulta denunciato nel ricorso – la fissazione della data di consumazione del reato associativo, al fine della verifica rilevante per l’applicazione della disciplina di cui all’articolo 657 c.p.p., e’ risultata indicata, nell’ordinanza impugnata, sulla scorta di una motivazione carente.
Il giudice dell’esecuzione, invero, ha effettuato l’analisi dell’accertamento compiuto dal giudice della cognizione richiamando soltanto indici di natura negativa – la non rescissione del vincolo, non smentita dall’assenza di ulteriori intercettazioni di comunicazioni, mero effetto della sopravvenuta carcerazione, e la non dissoluzione dell’associazione – ma non ha chiarito in modo espresso e univoco se la valorizzazione degli indici negativi sia stata l’esito della valutazione compiuta dal giudice della cognizione, come tale doverosamente recepita dal giudice dell’esecuzione, oppure se essa sia stata il risultato della sua valutazione, resasi eventualmente necessaria per il silenzio sostanziale delle sentenze di merito sul punto stesso.
Questa aporia di base vulnera la linearita’ e la logicita’ del discorso giustificativo, giacche’, nel primo caso, il collegamento con l’assunto della motivazione posta a fondamento della sentenza resa in sede cognitiva sarebbe risultato – non solo sufficiente, ma anche – dirimente, mentre, nel secondo caso, il giudice dell’esecuzione avrebbe dovuto dare conto, con riferimenti adeguati e specifici, dell’accurata analisi compiuta in ordine agli elementi emersi nel giudizio di merito: analisi che, tuttavia, al di la’ della formule generali addotte, non traspare in modo congruo dalla motivazione oggetto di esame.
Quindi, la censura di mancata esposizione dei dati sulla cui base il giudice dell’esecuzione ha tratto il convincimento dell’avvenuto accertamento della persistenza della permanenza associativa di (OMISSIS) dopo il suo arresto, per altro titolo, il (OMISSIS), si profila fondata, dal momento che il provvedimento impugnato, pur negandone le implicazioni, offre una motivazione radicata essenzialmente sulla sola presunzione di persistenza del vincolo associativo in caso di carcerazione del partecipe che non recede.
Invero, il giudice dell’esecuzione non ha fornito concreti riferimenti dimostrativi dell’avvenuto approfondimento del contenuto delle sentenze di cognizione (doverosamente in atti e riprodotte dal ricorrente per l’autosufficienza dell’impugnazione), accertative del reato associativo di cui si tratta e delle sue specifiche connotazioni relative alla durata della partecipazione di (OMISSIS) alla consorteria, nonche’ – in ipotesi di carenza di dati dirimenti scaturenti dal titolo cognitivo – dell’avvenuta valutazione di ogni altro elemento del processo utile per stabilire se la contestazione aperta sia stata seguita dall’accertamento di responsabilita’ anche per il periodo (OMISSIS) in cui (OMISSIS) e’ stato detenuto per l’altra causa, poi rivelatasi senza titolo.
In definitiva, il richiamo di natura solo generale, trasmodato nell’asserzione generica, degli indici da cui il giudice dell’esecuzione ha tratto il convincimento della perdurante condotta criminosa associativa ascritta a (OMISSIS) fino all’esaurimento (in data 23 dicembre 2014) della carcerazione patita sine titulo dal condannato (e anche oltre) – sia per non aver adeguatamente chiarito se gia’ nel complessivo decisum di cognizione era stato esplicitamente enucleato il tempo del commesso reato, sia (ove cio’ non risulti avvenuto) per non avere esposto i concreti riferimenti agli elementi probatori del giudizio di merito che lo hanno condotto alla conclusione raggiunta – determina la decisiva carenza della motivazione posta alla base dell’ordinanza in esame.
5. In considerazione del vizio emerso, il provvedimento impugnato deve essere annullato con rinvio alla Corte di appello di Catanzaro per nuovo giudizio, da effettuarsi – con piena liberta’ valutativa, ma – nell’alveo dei principi teste’ affermati.
P.Q.M.
Annulla l’ordinanza impugnata con rinvio per nuovo giudizio alla Corte di appello di Catanzaro.
Reato permanente contestato nella forma cosiddetta “aperta”
In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.
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