Reati urbanistici e la scusabilità dell’ignoranza della legge penale

Corte di Cassazione, sezione terza penale, Sentenza 30 agosto 2019, n. 36689.

Massima estrapolata:

In materia di reati urbanistici, affinché possa affermarsi la scusabilità dell’ignoranza della legge penale, occorre che l’agente, a causa di un comportamento positivo degli organi amministrativi o da un complessivo orientamento giurisprudenziale, abbia avuto il convincimento della liceità del comportamento tenuto. Per il comune cittadino tale condizione deve ritenersi sussistente allorché lo stesso abbia assolto, con la normale diligenza, al dovere di informazione attraverso un corretto espletamento dei mezzi di indagine e di ricerca con riferimento al settore di attività al quale inerisce la disciplina predisposta dalle norme violate. Eventuali contrasti giurisprudenziali debbono comunque ritenersi ostativi rispetto alla configurabilità di un errore incolpevole, dal momento che la difficoltà nel determinare il significato univoco della disposizione normativa rappresenta un fattore che l’agente non può trascurare nell’iter di autodeterminazione, prospettandosi come maggiormente opportuna l’astensione piuttosto che l’azione.

Sentenza 30 agosto 2019, n. 36689

Data udienza 3 luglio 2019

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LIBERATI Giovanni – Presidente

Dott. SEMERARO Luca – Consigliere

Dott. SCARCELLA Alessio – rel. Consigliere

Dott. NOVIELLO Giuseppe – Consigliere

Dott. MACRI’ Ubalda – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
(OMISSIS), nato il (OMISSIS);
avverso la sentenza del 11/09/2018 della CORTE APPELLO di MILANO;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Dott. SCARCELLA ALESSIO;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.ssa PICARDI ANTONIETTA, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
udito il difensore presente, Avv. (OMISSIS), in sostituzione dell’Avv. (OMISSIS), che si e’ riportata ai motivi di ricorso, chiedendone l’accoglimento.

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza 11.09.2018, la Corte d’appello di Milano confermava la sentenza del tribunale di Milano 30.01.2018, appellata dal (OMISSIS), il quale era stato condannato alla pena di 6 mesi di arresto ed Euro 9000,00 di ammenda, con il concorso di attenuanti generiche ed i doppi benefici di legge, in quanto ritenuto colpevole del reato edilizio contestatogli (per avere quale committente realizzato un mutamento di destinazione d’uso con opere edilizie per la creazione di un luogo di culto senza permesso di costruire, in locali originariamente destinati a magazzino), in relazione a fatti contestati come accertati in data antecedente e prossima al settembre 2014.
2. Contro la sentenza ha proposto ricorso per cassazione il difensore di fiducia, iscritto all’Albo speciale previsto dall’articolo 613 c.p.p., articolando quattro motivi di ricorso, di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex articolo 173 disp. att. c.p.p..
2.1. Deduce, con il primo motivo, violazione di legge quanto al Decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001, articolo 44, comma 1, lettera b) in relazione al Decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001, articolo 10, comma 2, alla Legge Regionale Lombardia n. 12 del 2005, articolo 52, comma 3bis e all’articolo 533 c.p.p..
In sintesi, si sostiene che la Corte di Appello di Milano avrebbe errato nel basare l’accertamento del reato addebitato su un unico sopralluogo effettuato dalla P.G. in data 6.10.2014, in occasione del quale veniva riscontrata la presenza di 400 persone riunite in preghiera nei locali della (OMISSIS), senza pero’ riscontrare la presenza di alcuna persona nel secondo accesso effettuato. L’accertamento si sarebbe fondato, inoltre, sul ritrovamento di un orario delle preghiere e sulla costruzione di bagni e rubinetti, giudicati univocamente funzionali allo svolgimento delle preghiere. Siffatti argomenti sono ritenuti dalla difesa insufficienti a dimostrare l’esistenza di un cambio di destinazione dell’immobile, non potendo gli elementi sopramenzionati provare lo svolgimento di una attivita’ di culto valevole a determinare una incompatibilita’ edilizio-urbanistica della destinazione d’uso dell’immobile. Viene fatto rinvio alla giurisprudenza amministrativa (Consiglio di Stato) in base alla quale solamente l’utilizzo esclusivo dell’immobile per fini di culto ne determinerebbe la qualifica del medesimo quale “luogo di culto”, in quanto il diritto a professare liberamente la propria fede religiosa, essendo oggetto di tutela a livello nazionale e sopranazionale, sarebbe e’ passibile di limitazioni esclusivamente in casi eccezionali. A sostegno di tale posizione viene richiamata anche una sentenza della Corte Edu, ossia la sentenza Association de solidarite’ avec les temoins de jehovah e altri c. Turchia. In tale occasione i giudici di Strasburgo hanno condannato lo Stato turco per aver sanzionato, in via penale ed amministrativa, alcuni testimoni di Geova che si erano radunati a pregare in un luogo privato in contrasto con le norme urbanistiche, ritenendo l’ingerenza nel diritto di culto non necessaria e comunque non proporzionata secondo quanto richiesto dall’articolo 9 Cedu.
Il ricorrente, a sostegno del motivo di ricorso, evidenzia come il TAR Lombardia/Brescia (Sez. 1, sent. del 29.5.2013, n. 522) abbia individuato due requisiti perche’ il Comune possa sanzionare l’uso di un locale difforme dalla sua destinazione (nello specifico come luogo di culto), ossia: 1. La presenza di arredi e paramenti sacri (requisito intrinseco); 2. l’accoglimento di tutti coloro i quali vogliano pacificamente accostarsi alle pratiche culturali e alle attivita’ in essi svolte, consentendo la pratica del culto a tutti i fedeli della religione (nel caso di specie islamica), uomini e donne, di qualsiasi scuola giuridica o nazionalita’. Pertanto, un uso non compatibile potrebbe verificarsi “nel caso in cui l’accesso per la libera attivita’ di preghiera fosse non riservato ai membri dell’Associazione ma indiscriminato, perche’ e’ in quest’ultimo caso che si verifica l’aumento di carico urbanistico da verificare in sede di rilascio del permesso di costruire”. Il medesimo TAR (Sez. 2, sent. del 25.10.2010, n. 7050) ha inoltre escluso la qualificabilita’ come luogo di culto di un centro culturale o altro luogo di riunione nel quale si svolgono, privatamente e saltuariamente, preghiere religiose, non rilevando ai fini urbanistici l’uso fatto dell’immobile in relazione alle molteplici attivita’ umane che il titolare e’ libero di fare. La giurisprudenza amministrativa avrebbe assunto tali posizioni relativamente alla religione islamica considerando che la mancanza di un ente di riferimento capace di stipulare intese con lo Stato, avrebbe de facto reso impossibile la realizzazione di luoghi di culto, salvo rare eccezioni.
La Legge Regionale Lombardia n. 12 del 2005 avrebbe inasprito suddetta situazione, con giudizio negativo in ordine alla conformita’ costituzionale espresso con la sentenza della Consulta n. 63/2016, con la quale si e’ evidenziato che “e’ costituzionalmente illegittima la Legge Regionale Lombardia n. 2 del 2015, articolo 70, comma 2bis, lettera a) b) e comma 2quater nella parte in cui introduce condizioni differenziate per la realizzazione di edifici di culto per le confessioni che non hanno stipulato un accordo o un’intesa con lo Stato; tale differente trattamento e’ incostituzionale sia perche’ costituisce una illegittima limitazione della liberta’ di religione garantita dall’articolo 8 Cost., commi 1 e 19, sia perche’ le questioni inerenti il rapporto con le confessioni religiose rientrano nella competenza esclusiva dello Stato ex articolo 117 Cost., comma 2, lettera c)”.
In un caso analogo a quello oggetto della decisione impugnata, la Corte di Cassazione (Sez. 3, 8.5.2013, n. 24852) avrebbe evidenziato l’imprescindibilita’ di un accertamento circa l’entita’ e l’incidenza dell’attivita’ di culto, il suo riflesso sulla destinazione del bene e, soprattutto, sul carico urbanistico, dovendosi valutare il mutamento, conseguente allo svolgimento di tale attivita’, dell’insieme delle esigenze urbanistiche valutate in sede di pianificazione. Da accertare sarebbe anche l’aggravio del carico urbanistico, inteso come maggiore richiesta di servizi c.d. secondari, come gli spazi pubblici destinati a parcheggio e le esigenze di trasporto, smaltimento di rifiuti e viabilita’. La Corte di Appello non avrebbe provveduto a tali verifiche, avendo piuttosto fatto riferimento all’isolato sopralluogo sopra menzionato.
2.2. Deduce, con il secondo motivo, violazione di legge sotto il profilo dell’erronea applicazione dell’articolo 44, comma 1, lettera b), TU edilizia, sotto il profilo dell’elemento soggettivo del reato.
In sintesi, sostiene il ricorrente come, nonostante fosse stato presentato uno specifico motivo sul punto nell’atto di impugnazione, la Corte di Appello non vi avrebbe dedicato alcuna considerazione in sentenza. La violazione di legge sarebbe resa evidente dalla non intellegibilita’ del concetto di “destinazione a luogo di culto”, testimoniata dalle numerose e contraddittorie sentenze emesse in sede penale ed amministrativa, richiamate nel motivo precedente. In tema di ignoranza inevitabile rilevante ai sensi dell’articolo 5 c.p., viene fatto rinvio alla sentenza della Corte di Cassazione, Sez. 3, n. 34522 del 2017, con la quale e’ stato ribadito che “per l’affermazione della scusabilita’ dell’ignoranza occorre che da un comportamento positivo degli organi amministrativi o da un complessivo pacifico orientamento giurisprudenziale, l’agente abbia tratto il convincimento della correttezza dell’interpretazione normativa e, conseguentemente, della liceita’ del comportamento tenuto”. Apparirebbe dunque evidente, ad avviso del ricorrente, che anche qualora si dovesse ritenere la necessita’ del permesso di costruire per le attivita’ realizzate dall’Associazione in quanto integrante un mutamento della destinazione d’uso, l’omessa richiesta costituirebbe un errore scusabile, indotto dalla assenza di una chiara normativa in materia e dai succitati plurimi provvedimenti adottati dalla magistratura penale ed amministrativa che non avrebbero ritenuto integrato il cambio di destinazione d’uso per condotte del tutto analoghe.
2.3. Deduce, con il terzo motivo, la difesa del ricorrente avanza la richiesta di sollevare questione di legittimita’ costituzionale del Decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001, articolo 44, comma 1, lettera b) in relazione al combinato disposto del Decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001, articolo 10, comma 2, e Legge Regionale Lombardia n. 12 del 2005, articolo 52, comma 3bis, per contrasto con l’articolo 19 Cost., articolo 25 Cost., comma 2 e articolo 117 Cost. in riferimento all’articolo 9 Cedu.
Gia’ avanzata tale richiesta in sede di appello, si sostiene che il giudice di secondo grado avrebbe errato nel negare il contrasto con le norme costituzionali, affermando che nessuna limitazione alla liberta’ di culto sarebbe derivata dall’applicazione della normativa in esame la quale si limita a richiedere il permesso di costruire nel caso in cui chiunque intenda destinare a luogo di culto un immobile, in ragione della necessita’ di valutare il carico urbanistico e, dunque, l’impatto sul territorio e la pianificazione urbanistica quale interesse pubblico di evidente importanza. Una tale interpretazione, si osserva, non terrebbe conto dell’evoluzione normativa che avrebbe de facto reso impossibile per i professanti la fede musulmana aprire un luogo di culto. La Legge Regionale n. 2 del 2005, infatti, per la costruzione di luoghi di culto avrebbe previsto requisiti impossibili da realizzare, tanto da incontrare la censura della Corte Costituzionale la quale aveva riscontrato come, avendone tale legge subordinato la costruzione, per le confessioni prive di una intesa con lo Stato, al previo avallo della Giunta regionale che, tuttavia, ad oltre un anno di distanza, non era stata ancora istituita, avrebbe reso di fatto impossibile per un professante di religione musulmana (religione senza intesa) edificare un proprio luogo di culto. Si rinvia sul punto alla sentenza n. 63/2016 della Consulta. Delle due, quindi, l’una: a) o la normativa interna, ancorche’ consenta ai professanti la fede islamica la possibilita’ di edificare un proprio edificio di culto perche’ inesistente la consulta che dovrebbe esprimere il parere in merito, permette ai medesimi di riunirsi in preghiera in luoghi privati senza andare incontro a violazioni di carattere penale (e amministrativo), ed allora non vi e’ violazione della normativa costituzionale e convenzionale in materia; b) oppure la normativa interna che vieta tali riunioni e’ incostituzionale per violazione sia dell’articolo 19 Cost. che dell’articolo 117 Cost. con riferimento all’articolo 9 Cedu.
A conferma della contrarieta’ di una tale normativa rispetto alla disciplina convenzionale il ricorrente rinvia nuovamente alla sentenza dei giudici di Strasburgo alla quale e’ stato fatto riferimento nel primo motivo (Association de solidarite’ avec les temoins de jehovah e altri c. Turchia). Il TAR Lombardia, con la sentenza n. 1939 del 2018, ha inoltre sollevato una nuova questione di legittimita’ costituzionale con riferimento alla Legge Regionale n. 2 del 2005 rilevandone proprio il contrasto con la liberta’ di culto. Secondo il giudice amministrativo, infatti, tale legge finirebbe per accentrare in capo all’Amministrazione locale la scelta in ordine ai tempi, luoghi e distribuzione tra le varie confessioni religiose, degli spazi di culto che si prevedono di aprire sul territorio, senza consentire, al di fuori di tale rigida predeterminazione, neppure la realizzazione, ad iniziativa privata e in aree comunque idonee dal punto di vista urbanistico, di modeste sale di preghiera. Secondo il TAR, la disciplina regionale lombarda in materia di edifici di culto consiste nell’individuazione di una corrispondenza biunivoca tra le “attrezzature religiose di interesse comune” di cui all’articolo 71, comma 1, costituenti opere di urbanizzazione secondaria, e le “attrezzature religiose” di cui all’articolo 72, sicche’ tutte tali attrezzature sono soggette alla programmazione comunale, a prescindere dalla circostanza che il loro inserimento nel territorio debba essere effettivamente preordinato della Amministrazione, al fine di assicurare la proporzionata dotazione di standard di urbanizzazione secondaria a servizio di insediamenti residenziale, ovvero che si tratti di iniziative d enti religiosi, comunita’ di fedeli o gruppo di cittadini al solo scopo di assicurare ai fedeli che intendano pratica il culto di disporre di un luogo idoneo a tale fine. Tale impostazione, sostiene il giudice amministrativo, collide con l’articolo 19 Cost. che pone come unico limite alla pratica di un culto nella non contrarieta’ al buon costume, includendo nel diritto tutelato anche l’apertura di luoghi destinati al suo esercizio. Sebbene la Corte Costituzionale abbia rimarcato che la legislazione regionale in materia di edilizia del culto trova la sua ragione e giustificazione nell’esigenza di assicurare uno sviluppo equilibrato ed armonico dei centri abitativi e nella realizzazione dei servizi di interesse pubblico nella loro piu’ ampia accezione, comprendente pertanto anche i servizi religiosi, tuttavia non e’ consentito, all’interno di una legge sul governo del territorio, introdurre disposizioni che ostacolino o compromettano la liberta’ di religione (sent. 63/2016). Sempre riprendendo quanto esposto dal TAR lombardo, la suddetta legge regionale non sarebbe incompatibile con l’articolo 19 Cost. qualora il Piano delle attrezzature religiose (inclusi i luoghi di culto intervenisse al solo scopo di censire le attrezzature esistenti aperte al pubblico, di verificare il fabbisogno di ulteriori attrezzature e provvedere conseguentemente. Tuttavia, la Legge Regionale n. 2 del 2005 si spingerebbe oltre, stabilendo che, in assenza o comunque al di fuori delle previsioni del Piano, non sia consentita l’apertura di alcuna attrezzatura religiosa, a prescindere dal contesto e dal carico urbanistico generato dalla specifica opera. Si determinerebbe un ostacolo di fatto al libero esercizio del culto, subordinando alla pianificazione comunale la possibilita’ di esercitare collettivamente e in forma pubblica i riti non contrari al buon costume.
2.4. Deduce, con il quarto motivo, violazione di legge sotto il profilo dell’erronea applicazione dell’articolo 131-bis c.p..
In sintesi, si sostiene che la Corte di Appello avrebbe erroneamente interpretato l’articolo 131-bis c.p. il quale impone di valutare la sussistenza della tenuita’ guardando alle modalita’ della condotta e alla esiguita’ del danno. Ne caso di specie l’imputato, straniero poco avvezzo ad orientarsi nella complessita’ normativa, nonche’ incensurato, aveva operato al solo scopo di poter esercitare il diritto di professare liberamente il proprio credo religioso. La condotta contestata sarebbe inoltre consistita in una unica preghiera, mentre i lavori eseguiti nei bagni sarebbero consistiti semplicemente nel cambio di un lavandino e nell’aggiunta di un rubinetto.

CONSIDERATO IN DIRITTO

3. Il ricorso e’ complessivamente infondato e deve essere rigettato.
4. Preliminare alla questione posta con il primo motivo di ricorso e’ l’analisi della questione concernente il mutamento della “destinazione d’uso” e la creazione di luoghi di culto.
Orbene, va premesso che la destinazione d’uso e’ un elemento che qualifica la connotazione del bene immobile e risponde a precisi scopi di interesse pubblico, di pianificazione o di attuazione della pianificazione. Essa individua il bene sotto l’aspetto funzionale, specificando le destinazioni di zona fissate dagli strumenti urbanistici in considerazione della differenziazione infrastrutturale del territorio, prevista e disciplinata dalla normativa sugli standard, diversi per qualita’ e quantita’ proprio a seconda della diversa destinazione di zona. Secondo un costante orientamento giurisprudenziale, la destinazione d’uso non si identifica con l’impiego che in concreto ne fa il soggetto utilizzatore, ma con la destinazione impressa dal titolo abilitativo (ex multis: Cons. Stato, Sez. 5, 9 febbraio 2001, n. 583; TAR Piemonte, 13 dicembre 2012, n. 1346; TAR Liguria, Sez. 1, 25 gennaio 2005, n. 85), e cio’ in quanto la nozione di “uso” urbanisticamente rilevante e’ ancorata alla tipologia strutturale dell’immobile, come individuata nel titolo edilizio, non rilevando eventuali utilizzazioni difformi rispetto al contenuto degli atti autorizzatori e/o pianificatori (TAR Lombardia-Milano, Sez. 2, 7 maggio 1992, n. 219; TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. 1, sentenza 7 settembre 2012, n. 537). Solo in caso di assenza, o indeterminatezza, del titolo edilizio essa e’ ritraibile dalla classificazione catastale attribuita in sede di primo accatastamento, ovvero da altri documenti probanti. L’organizzazione del territorio comunale e la gestione dello stesso vengono realizzate attraverso il coordinamento delle varie destinazioni d’uso in tutte le loro possibili relazioni, e le modifiche non consentite di queste incidono negativamente sull’organizzazione dei servizi, alterando appunto il complessivo assetto territoriale. Costituisce pertanto “mutamento d’uso urbanisticamente rilevante” ogni forma di trasformazione stabile di un immobile, preordinata a soddisfare esigenze non precarie, anche se non accompagnata da opere edilizie, purche’ cio’ avvenga tra categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico, mentre nell’ambito della medesima categoria, eccezion fatta per i centri storici, gli eventuali mutamenti di fatto non incidono sul carico urbanistico della zona (Cass., Sez. 3, 19 giungo 2018, n. 52398; Cass., Sez. 3, 22 maggio 2014, n. 20773).
5. La giurisprudenza amministrativa, in merito al mutamento della destinazione d’uso di un immobile a luogo di culto, ha posto in luce come in un locale legittimamente adibito a sede di associazione culturale/religiosa, l’uso difforme della destinazione, per utilizzarlo come sede dedicata all’esercizio del credo (nel caso di specie islamico), non possa essere identificato con il mero fatto che nel locale si svolga la preghiera. Di uso incompatibile puo’ eventualmente parlarsi nel caso in cui l’accesso per la libera attivita’ di preghiera non sia riservata ai soli membri dell’associazione, ma “indiscriminato” (TAR Lombardia-Brescia, Sez. 1, sentenza 8 marzo 2013 n. 242). La destinazione d’uso religioso, come uso difforme dalla destinazione originaria, deve essere adeguatamente supportata dalla natura e dalla tipologia dell’opera realizzata o da una documentazione che accerti il fine religioso svolto sull’immobile, come esclusivo e indiscriminato. Infatti, non sara’ richiesta la procedura per il mutamento della destinazione d’uso se l’immobile venga utilizzato da una associazione culturale in cui il fine religioso rivesta carattere di accessorieta’ e di marginalita’ nel contesto degli scopi statutari. Non rileva la circostanza che nella sede dell’associazione sia stato riscontrato occasionalmente la presenza di persone di religione islamica ovvero di persone raccolte in preghiera, purche’, comunque l’accesso sia garantito ai soli associati e non in modo indiscriminato (TAR Lombardia-Milano, Sez. 2, sentenza 25 ottobre 2010 n. 7050). Pertanto, il mutamento di destinazione rilevante ai fini della creazione di luoghi di culto e’ quello che altera, sia pure senza opere, la funzione originaria dell’immobile, al fine di adibirlo, in via permanente, ad una funzione diversa. In tal caso l’immobile perde la destinazione originariamente assentita per assumere la funzione diversa che gli viene assegnata (Cons. St., Sez. IV, ordinanza 10 maggio 2011 n. 2008).
Relativamente alla specifica previsione contenuta nella Legge Regionale Lombardia n. 12 del 2005, rectius articolo 52, comma 3bis, il Consiglio di Stato (sent. n. 5778 del 2011) ha evidenziato che la richiesta del permesso di costruire per mutamenti di destinazione d’uso di immobili, anche senza opere, ha la propria ratio nella necessita’ di garantire il controllo di modifiche le quali, per l’afflusso di persone, siano suscettibili di creare centri di aggregazione (luoghi di culto, centri sociali, etc.) aventi come destinazione principale ed esclusiva l’esercizio di una religione ovvero altre attivita’ con riflessi di rilevante impatto urbanistico, le quali richiedono una verifica delle dotazione di attrezzature pubbliche rapportate a dette destinazioni (se non altro agli effetti dell’altrettanto necessario rilascio del certificato di agibilita’).
6. Tanto premesso, il motivo e’ infondato.
Innanzitutto non sembra potersi dubitare circa l’applicabilita’ del Decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001, articolo 44, comma 1, lettera b), dal momento che la condotta dell’imputato ha determinato un concreto mutamento della destinazione d’uso originaria dell’immobile, classificato nella visura catastale come C2, ossia magazzino e locale di deposito (non destinato, per tipologia e natura ad accogliere, in modo continuativo e prolungato persone, bensi’ merci e beni). Il mutamento si e’ sostanziato, come si evince dal testo della sentenza di primo grado (la cui motivazione si integra con quella d’appello, per formare un unico complessivo corpo argomentativo, allorquando – come nel caso di specie – i giudici del gravame, esaminando le censure proposte dall’appellante con criteri omogenei a quelli del primo giudice ed operando frequenti riferimenti ai passaggi logico giuridici della prima sentenza, concordino nell’analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento della decisione: Sez. 3, n. 44418 del 16/07/2013 – dep. 04/11/2013, Argentieri, Rv. 257595), anche nell’esecuzione di opere all’interno dei locali, consistite nel dividere gli spazi per riservarne una parte alle donne, nella costruzione di nuovi servizi igienici, nella zona di abluzione dei piedi.
Ulteriore conferma veniva ricavata non solo dallo scopo associativo primario (valorizzazione e promozione del patrimonio comune, delle tradizioni e del proprio culto, tra l’altro confermato dalla difesa in primo grado) ma anche dalle fotografie ritraenti l’interno dell’ambiente, il cui pavimento si presentava ricoperto di tappeti, nonche’ uno spazio, separato da un vetro divisorio, con un cartello riportante la dicitura “riservato alle donne”. All’interno dell’associazione vi era inoltre un tabellone riportante l’orario delle preghiere. La presenza di 400 persone al momento del sopralluogo rappresentava quindi semplicemente un aggiuntivo elemento a conferma della destinazione dell’immobile a luogo di culto. Da escludere e’ pertanto il carattere occasionale degli incontri tra i credenti.
Sussistente, peraltro, e’ stato ritenuto anche un aggravio del carico urbanistico non indifferente, considerato anche il considerevole assembramento di persone (400). La conformazione dei luoghi, in ragione della loro grandezza e dell’accesso mediante attraversamento del cortile condominiale e discesa dell’unica scala, manifestava la modificazione dell’assetto edilizio del territorio e, dunque, il maggior carico urbanistico, dovendosi anche tenere in conto dell’assenza di uscite di sicurezza all’interno dei locali, il che determinava anche un pericolo per la pubblica incolumita’.
7. Puo’ quindi procedersi all’esame del secondo motivo.
8. Per pervenire alla soluzione della questione posta con tale motivo di ricorso, occorre esaminare la giurisprudenza formatasi sul tema dell’errore scusabile e sulle ricadute che puo’ avere sul punto l’esistenza di un contrasto giurisprudenziale. Orbene, e’ pacifico nella giurisprudenza di questa Corte che, in materia di reati urbanistici, affinche’ possa affermarsi la scusabilita’ dell’ignoranza della legge penale, occorre che l’agente, a causa di un comportamento positivo degli organi amministrativi o da un complessivo orientamento giurisprudenziale, abbia avuto il convincimento della liceita’ del comportamento tenuto. Per il comune cittadino tale condizione deve ritenersi sussistente allorche’ lo stesso abbia assolto, con la normale diligenza, al dovere di informazione attraverso un corretto espletamento dei mezzi di indagine e di ricerca con riferimento al settore di attivita’ al quale inerisce la disciplina predisposta dalle norme violate. Eventuali contrasti giurisprudenziali debbono comunque ritenersi ostativi rispetto alla configurabilita’ di un errore incolpevole, dal momento che la difficolta’ nel determinare il significato univoco della disposizione normativa rappresenta un fattore che l’agente non puo’ trascurare nell’iter di autodeterminazione, prospettandosi come maggiormente opportuna l’astensione piuttosto che l’azione (da ultimo, v. Sez. 5, n. 2506 del 24/11/2016 – dep. 18/01/2017, Incardona, Rv. 269074).
9. Tanto premesso, il motivo di ricorso e’ inammissibile.
Considerata la natura contravvenzionale del reato in questione, e dunque la punibilita’ anche a titolo di colpa, deve escludersi che nel caso di specie l’agente sia incorso in un errore incolpevole. Cio’ e’ dimostrato non solo dal ruolo in seno all’associazione, determinante la consapevolezza dello scopo associativo al cui conseguimento i lavori erano stati eseguiti (tra l’altro con noncuranza, data l’assenza di presidi a tutela della pubblica incolumita’) ma, in modo particolare dalla presentazione, da parte dell’imputato, in data 11.5.2015 (dopo l’avvenuto sopralluogo), di una pratica edilizia con la quale lo stesso aveva provveduto a comunicare di avere degli interventi in corso di esecuzione dal 20.10.2014 sull’immobile in questione. Non puo’, pertanto, riconoscersi alcun pregio alla tesi difensiva fondata sul contrasto tra la giurisprudenza penale ed amministrativa sul tema, in quanto cio’ viene piuttosto a corroborare il carattere colposo della condotta e ad escludere, di conseguenza, la scusabilita’ dell’errore. La non chiarezza della posizione giurisprudenziale avrebbe dovuto spingere l’imputato a non agire piuttosto che ad eseguire comunque i lavori. L’inammissibilita’ della doglianza per manifesta infondatezza del motivo esplica, quindi, un’efficacia sanante rispetto al silenzio della sentenza impugnata sullo specifico motivo di appello sul punto proposto. Ed invero, e’ pacifico nella giurisprudenza di questa Corte che in tema di impugnazioni e’ inammissibile, per carenza d’interesse, il ricorso per cassazione avverso la sentenza di secondo grado, che non abbia preso in considerazione un motivo di appello, che risulti ab origine inammissibile per manifesta infondatezza, in quanto l’eventuale accoglimento della doglianza non sortirebbe alcun esito favorevole in sede di giudizio di rinvio (tra le tante: Sez. 2, n. 10173 del 16/12/2014 – dep. 11/03/2015, Bianchetti, Rv. 263157).
10. Deve essere esaminata la questione di costituzionalita’ prospettata nel terzo motivo.
Al fine di fornire una soluzione alla richiesta di rimessione degli atti alla Corte costituzionale, occorre esaminare preliminarmente la questione giuridica relativa al tema del rapporto tra normativa urbanistica e limitazione del diritto all’esercizio del culto nella giurisprudenza nazionale e sovranazionale.
Il diritto in materia urbanistica e’ costituito dall’insieme degli istituti giuridici e delle norme positive concernenti le attivita’ di uso e di trasformazione del territorio, poste in essere sia da soggetti privati sia da soggetti pubblici. Il nucleo centrale di tale settore e’ individuato nella disciplina dell’edilizia, sottoposta al rispetto della pianificazione urbanistica, determinante il dove e il come e’ possibile realizzare una costruzione, nonche’ il suo legittimo uso. Le disposizioni normative afferenti l’edilizia costituiscono una logica prosecuzione e specificazione di dettaglio della disciplina contenuta nei piani urbanistici. Le due componenti (l’urbanistica e l’edilizia) sono infatti complementari, sebbene distinte: la prima predetermina le potenzialita’ edificatorie del territorio, considerando i vari interessi pubblici coinvolti ed assicurando la conservazione ed il buon uso dei suoli; la seconda assicura che anche le attivita’ costruttive rispondano a determinati standard e a specifici criteri (salubrita’, sicurezza, efficienza energetica), anch’essi diretti alla tutela e al governo del territorio. Evidente e’ il coinvolgimento di interessi pubblici fondamentali, soprattutto laddove si considerino le conseguenze derivanti da un’erronea pianificazione, non aderente alle caratteristiche del suolo e, in linea generale, delle diverse zone interessate. Non trascurabile e’ inoltre l’incidenza della materia su peculiari categorie di beni, di rilievo storico-archeologico, e, in una prospettiva piu’ ampia, sul paesaggio nazionale, oggetti questi di espressa tutela nel testo costituzionale (articolo 9 Cost.).
Di rilievo costituzionale e’ anche il diritto alla libera professione della fede, in qualsiasi forma, individuale o associata (articolo 19 Cost.), garantito anche a livello sovranazionale (articolo 10 Carta dei diritti fondamentali; articolo 9 Cedu). La Corte costituzionale ha contribuito a delinearne in modo piu’ netto sia i confini che il contenuto, precisando che la laicita’ dello Stato non e’ da intendersi come indifferenza di fronte all’esperienza religiosa, bensi’ come “salvaguardia delle liberta’ religiose in un regime di pluralismo confessionale e culturale” (sentenze nn. 508/2000, 329/1997 e 203/1989). L’ordinamento statale deve garantire condizioni favorevoli all’espansione della liberta’ di religione, nella sua dimensione individuale e comunitaria, indipendentemente dai contenuti di ciascun credo. Unico limite e’ da individuarsi nel rispetto del buon costume.
La Corte Costituzionale ha poi precisato che l’apertura di luoghi di culto, ovvero l’utilizzazione di edifici specificatamente destinati a tal fine, ricade inevitabilmente nella sfera di garanzia dell’articolo 19 Cost., in quanto condizione essenziale per il pubblico esercizio dello stesso, per cui non potra’ essere condizionata ad una previa regolazione pattizia ex articoli 7 e 8 Cost., salvo il caso in cui a tali atti di culto vogliano riconnettersi particolari effetti civili. Il libero esercizio del culto, infatti, costituisce un aspetto essenziale della liberta’ di religione, da riconoscersi a tutte le confessioni religiose a prescindere dalla stipulazione di una intesa con lo Stato. Ne consegue che il concordato o l’intesa non possono costituire una conditio sine qua non per l’esercizio della liberta’ religiosa. L’articolo 8 Cost. rappresenta il connubio della liberta’ e dell’uguaglianza, imponendo un’uniformita’ di trattamento, senza comunque escludere la possibilita’ di un regime giuridico differenziato, volto a valorizzare i caratteri propri di ogni singola confessione (sentenze nn. 508/2000 e 329/1997). Costante e’ l’orientamento della Corte costituzionale secondo il quale il legislatore non puo’ operare discriminazioni tra confessioni religiose in base alla sola circostanza che esse abbiano o meno regolato i loro rapporti con lo Stato per mezzo di accordi o intese (sentenze nn. 346/2002 e 195/1993). Recentemente, nella pronuncia n. 52 del 2016, il Giudice delle Leggi ha ribadito che tutte le confessioni religiose sono idonee a rappresentare gli interessi religiosi dei loro appartenenti, escludendosi che la previa stipulazione di un’intesa possa costituire un fattore di discriminazione nell’applicazione di una disciplina volta ad agevolare l’esercizio di un diritto di liberta’ dei cittadini costituzionalmente garantito, dovendosi piuttosto assicurare l’uguaglianza dei singoli nell’effettivo godimento della liberta’ di culto. Nemmeno la condizione di minoranza di alcune confessioni potrebbe giustificare un minore livello di protezione rispetto a quelle piu’ diffuse.
11. In sintonia con tale orientamento e’ anche la posizione assunta dai giudici di Strasburgo in un recente caso coinvolgente lo Stato della Turchia, citato dalla difesa: una legge nazionale sulla pianificazione urbana vietava l’apertura di luoghi di culto in spazi non destinati a tale scopo, prevedendo inoltre particolari condizioni per la costruzione di edifici di culto. Sebbene la Corte EDU abbia ritenuto che in un settore cosi’ complesso e difficile, come quello della pianificazione territoriale, gli Stati beneficiano di un ampio margine di apprezzamento nelle loro politiche di pianificazione urbanistica, ha tuttavia preso atto che i tribunali nazionali non avevano valutato i diversi interessi in gioco, ne’ valutato la proporzionalita’ delle misure rispetto al diritto dei ricorrenti di manifestare il loro credo. Si riscontrava, pertanto, un’interferenza diretta con la liberta’ religiosa non proporzionata al legittimo obiettivo perseguito, ne’ necessaria in una societa’ democratica. La Corte EDU aveva quindi ritenuto accertata la violazione dell’articolo 9 Cedu.
12. Sul bilanciamento dell’interesse al libero esercizio del proprio culto, da un lato, e gli interessi pubblici immanenti alla pianificazione urbanistica, dall’altro, la Corte Costituzionale si e’ recentemente pronunciata con due sentenze, le sentenze nn. 52 e 63 del 2016: il Giudice delle Leggi ha evidenziato che la legislazione regionale in materia di edilizia di culto “trova la sua ragione e giustificazione nell’esigenza di assicurare uno sviluppo equilibrato ed armonico dei centri abitativi e nella realizzazione dei servizi di interesse pubblico nella loro piu’ ampia accezione, che comprende percio’ anche i servizi religiosi” richiamando anche il proprio precedente (sent. n. 195/1993). Al di fuori di queste perimetrate competenze, il legislatore regionale non puo’ introdurre disposizioni le quali, de facto, ostacolino o compromettano la liberta’ di religione attraverso la previsione di requisiti differenziati, piu’ stringenti, per la realizzazione di edilizia di culto delle sole confessioni “senza intesa”, elemento questo che andrebbe a costituire una barriera nell’esercizio della liberta’ di religione costituzionalmente garantita, oltre che appalesare un trattamento di natura discriminatoria. Cio’ pero’ non esclude la possibilita’ per le autorita’ competenti di operare ragionevoli differenziazioni in quanto, l’eguale liberta’ delle confessioni religiose di organizzarsi e di operare non implica che a tutte “debba assicurarsi un’eguale porzione dei contributi o degli spazi disponibili: come “e’ naturale allorche’ si distribuiscano utilita’ limitate, quali le sovvenzioni pubbliche o la facolta’ di consumare suolo, si dovranno valutare tutti i pertinenti interessi pubblici e si dovra’ dare adeguato rilievo all’entita’ della presenza sul territorio dell’una o dell’altra confessione, alla rispettiva consistenza e incidenza sociale e alle esigenze di culto riscontrate nella popolazione”. E’ il rispetto i principi di proporzionalita’ e ragionevolezza a condizionare il rilascio alla legge della patente di conformita’ costituzionale.
La Corte costituzionale riconosce che, nel modulare la tutela della liberta’ di culto, sono senz’altro da considerare la sicurezza, l’ordine pubblico e la pacifica convivenza i quali, in veste di interessi costituzionali garantiti, possono comportare una limitazione dell’esercizio della liberta’ religiosa in tutte le sue possibili accezioni, assicurando ad ogni modo una tutela unitaria e non frammentaria di tutti gli interessi coinvolti, nonche’ applicando il principio c.d. less restrictive measure, ossia indirizzando la scelta verso misure che consentano il minor sacrificio possibile del diritto inciso. La premessa basilare da cui muove la Corte e’ data dalla considerazione che tutti i diritti fondamentali nascono limitati, non mancando di sottolineare che una disciplina sulle modalita’ di esercizio di un diritto non sarebbe da considerare ex se violazione o negazione del diritto, precisando che il concetto di limite e’ insito nel concetto di diritto, per cui e’ necessario che le diverse sfere giuridiche si limitino reciprocamente affinche’ possano coesistere nell’ordinata convivenza civile. L’esistenza di un legame tra un diritto e il limite al suo esercizio fa si’ che il primo puo’ “cedere” quando si pone in contrasto con valori che sono da ritenersi prevalenti, purche’ ovviamente tali limitazioni trovino fondamento in (altrettanti) principi costituzionali, esplicitamente enunciati dalla Costituzione o direttamente desumibili da questa attraverso una rigorosa interpretazione (c.d. teoria dei limiti impliciti). Si tiene a precisare l’impossibilita’ di individuare in maniera certa e definita tutti i possibili limiti a cui e’ assoggettabile l’esercizio dei diritti fondamentali. Il limite implicito inevitabilmente si inserisce nel giudizio di bilanciamento tra gli interessi in conflitto, il cui esito potrebbe determinare una prevalenza o una soccombenza dei diritti di liberta’ rispetto all’interesse riconducibile ad un limite immanente della Costituzione, esito comunque suscettibile di mutare con l’evolversi del contesto giuridico-sociale.
In un’ulteriore recente sentenza (n. 67/2017), avente ad oggetto due disposizioni della Legge Regionale Veneto n. 12 del 2016, la Corte Costituzionale ha riaffermato che “non v’e’ dubbio che la Regione e’ titolata, nel regolare la coesistenza dei diversi interessi che insistono sul proprio territorio, a dedicare specifiche disposizioni per la programmazione e la realizzazione dei luoghi di culto”, tuttavia, nell’esercizio di tali competenze, possono essere imposte (solo) quelle condizioni e limitazioni “che siano strettamente necessarie a garantire le finalita’ di governo del territorio affidate alle sue cure”. Tale non e’ stata considerata l’imposizione, ai sensi dell’articolo 31-ter della legge summenzionata, dell’impiego della lingua italiana, anche se cio’ era stato motivato con l’intento di favorire l’integrazione di tutti gli appartenenti alla comunita’, in quanto tale finalita’ non avrebbe potuto legittimamente ritenersi una misura strettamente necessaria (richiamandosi in tal modo anche la normativa sovranazionale e, nello specifico il par. 2 dell’articolo 9 Cedu).
13. Orbene, ritornando alla Legge Regionale Lombardia, e’ bene evidenziare che la Corte Costituzionale, con la decisione n. 63/2016, non ha accolto tutte le censure sollevate. Relativamente alla richiesta di stipulare una convenzione a fini urbanistici con il comune interessato e alla previsione del suo contenuto (in particolare, circa la possibilita’ di risoluzione o revoca, nel caso in cui il Comune accerti lo svolgimento di attivita’ non previste nella convenzione), il ricorrente aveva segnalato una lesione dell’articolo 19 Cost., in quanto la formula, troppo generica, avrebbe interferito anche con la liberta’ di un ente confessionale allo svolgimento di attivita’ diverse da quelle strettamente attinenti al culto (ad esempio, culturali). Nell’argomentare la decisione interpretativa di rigetto, la Corte ha affermato che la convenzione richiesta dalla legge regionale deve essere ispirata ad assicurare uno sviluppo urbanistico equilibrato e armonico e, limitatamente a questo ambito essa potra’ contenere indicazioni circa le conseguenze in caso di suo mancato rispetto, ivi compresa la possibile risoluzione o revoca. Viene dunque rimessa al Comune l’individuazione e la valutazione di strumenti urbanistici i quali siano idonei a salvaguardare gli interessi pubblici rilevanti ma che, al contempo, si presentino come i meno pregiudizievoli per la liberta’ di culto. Il sindacato circa l’eventuale difetto della ponderazione di tutti gli interessi coinvolti, e la compromissione del principio di proporzionalita’, viene rinviato dalla Consulta alle “sedi competenti” (ossia al giudice amministrativo), con l’attenzione dal rango costituzionale degli interessi attinenti alla liberta’ religiosa”. Infatti, il test di proporzionalita’ impone di valutare se la potenziale limitazione del diritto fondamentale alla liberta’ di culto sia necessaria e idonea al conseguimento di obiettivi legittimamente perseguiti, applicando, tra piu’ misure appropriate, quella meno restrittiva dei diritti individuali, imponendo sacrifici non eccedenti quanto necessario per assicurare il perseguimento degli interessi ad essi contrapposti. Nella sentenza n. 63/2016, manifestamente inammissibile e’ stata ritenuta anche la censura sollevata relativamente alla Legge Regionale Lombardia, articolo 72, comma 5, il quale prevede l’approvazione da parte del Comune del piano delle attrezzature religiose entro 18 mesi dall’entrata in vigore della legge censurata o, in mancanza, unitamente al nuovo PGT. Nel ricorso si sosteneva che detto articolo violasse l’articolo 117 Cost., comma 2, lettera l), dal momento che la facolta’ del Comune di prevedere nuove attrezzature religiose mediante l’approvazione dell’apposito piano era stata ritenuta contrastante con quanto disposto dal Decreto Ministeriale 2 aprile 1968, n. 1444 che, in materia di standard urbanistici, all’articolo 3 prescrive la dotazione minima di spazi da destinare alle attrezzature di interesse comune, quindi anche “religiose”. Ad avviso dei Giudici delle Leggi, il ricorso su questo punto non era sufficientemente e adeguatamente motivato, non comprendendosi il legame intercorrente tra la norma che si assumeva violata dal legislatore regionale ( Decreto Ministeriale n. 1444 del 1968, articolo 3) e il contenuto dell’articolo 117 Cost., comma 2, lettera l), sicche’ “per come e’ evocato, il parametro risulta del tutto inconferente”. Tuttavia, anche in questo caso non e’ mancato un rinvio alla possibilita’ che il cattivo o mancato esercizio del potere da parte delle autorita’ urbanistiche (ergo l’ipotesi di non adozione del piano suddetto) possa essere censurato nelle sedi competenti ricorrendo, cioe’, al giudice amministrativo.
14. Considerato quanto sopra, la circostanza che il TAR Lombardia, con la sentenza n. 1939 del 2018, abbia sollevato una nuova questione di legittimita’ costituzionale con riferimento alla Legge Regionale Lombardia n. 2 del 2005, censurando sostanzialmente la limitazione del diritto al libero esercizio di culto derivante dall’eventuale mancata adozione del piano regolatore della attrezzature religiose, puo’ senza dubbio essere superata richiamando quanto gia’ precedentemente affermato dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 63/2016. Qualora il Comune non abbia provveduto ad adottare suddetto piano, si riscontrerebbe infatti un’ipotesi di inadempimento della P.A., suscettibile di essere oggetto di ricorso innanzi al giudice amministrativo (peraltro dovendosi rilevare che il Comune di Milano, luogo in cui e’ collocato l’immobile, si e’ dotato, a partire da giugno 2018, del Piano per le attrezzature religiose). Nel caso di specie, in ogni caso, non si riscontra alcuna discriminazione derivante dall’applicazione della legge regionale, essendo il permesso di costruire richiesto a prescindere dal culto professato, ovvero dall’esistenza o meno di una intesa con lo Stato.
Alla luce della teoria dei c.d. limiti impliciti, deve dunque rispondersi positivamente al test di proporzionalita’ richiesto dalla Corte Costituzionale (e dai giudici di Strasburgo): la limitazione della liberta’ fondamentale di esercizio del proprio culto viene ad essere fondata sull’esigenza per la P.A. (nella specie, il Comune) di avere conoscenza dei mutamenti di destinazione d’uso degli immobili i quali, dato l’utilizzo per fini religiosi, possono comportare un aggravio del carico urbanistico non di scarso rilievo, incidendo sul territorio e sulla pianificazione urbanistica, considerati anche i possibili risvolti rispetto ad interessi di pari dignita’ giuridica quali l’ordine pubblico e la pubblica sicurezza.
15. Ne discende, pertanto, che la richiesta di sollevare la questione di costituzionalita’ deve essere ritenuta inammissibile Legge Cost. n. 87 del 1953, ex articolo 23, in quanto il giudizio non solo puo’ essere definito indipendentemente dalla risoluzione della questione di legittimita’ costituzionale, ma deve anche ritenersi che la questione sollevata sia manifestamente infondata.
16. Resta, infine, da esaminare il quarto motivo.
Lo stesso e’ inammissibile.
Quanto sostenuto dalla difesa collide infatti con il contenuto della sentenza di primo grado ove (pag. 4) si rileva che “anche in altre occasioni, come documentato dalle fotografie in atti, vi erano persone a terra, inginocchiate, tutte rivolte nella stessa direzione cosi’ come i tappeti”, sicche’ non puo’ parlarsi di un unico episodio. Relativamente alla condotta, e agli effetti derivanti da essa, deve poi evidenziarsi come i lavori eseguiti abbiano non solo comportato un mutamento della destinazione d’uso dell’immobile (originariamente risultante al catasto come magazzino/deposito), ma anche un aggravio non indifferente del carico urbanistico dovuto all’elevato numero di persone, ponendo in pericolo interessi pubblici di primaria importanza quali l’ordine pubblico e l’incolumita’ pubblica, specialmente per l’assenza di presidi di sicurezza.
Da qui, dunque, la corretta soluzione fornita dalla Corte d’appello all’identico motivo, replicato davanti a questa Corte senza alcun apprezzabile elemento di novita’, non potendosi ravvisare nel caso in esame un’ipotesi di particolare tenuita’ del fatto. Ai fini della configurabilita’ della causa di esclusione della punibilita’ per particolare tenuita’ del fatto, prevista dall’articolo 131 bis c.p., infatti, il giudizio sulla tenuita’ richiede una valutazione complessa e congiunta di tutte le peculiarita’ della fattispecie concreta, che tenga conto, ai sensi dell’articolo 133 c.p., comma 1, delle modalita’ della condotta, del grado di colpevolezza da esse desumibile e dell’entita’ del danno o del pericolo (Sez. U, n. 13681 del 25/02/2016 – dep. 06/04/2016, Tushaj, Rv. 266590).
17. Al rigetto del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Dichiara inammissibile e manifestamente infondata la questione di costituzionalita’ proposta.

 

In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.

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