La questione di legittimità costituzionale dell’art. 47-ter comma 1-bis della legge 26 luglio 1975 n. 354

Corte di Cassazione, sezione prima penale, Ordinanza 1 marzo 2019, n. 9126.

La massima estrapolata:

E’ rilevante e non manifestamente infondata, in riferimento agli artt. 3, comma 1, e 27, commi 1 e 3, Cost., la questione di legittimità costituzionale dell’art. 47-ter comma 1-bis della legge 26 luglio 1975 n. 354 nella parte in cui prevede che tale disposizione non si applica ai condannati per i reati di cui all’art. 4-bis della medesima legge.

Ordinanza 1 marzo 2019, n. 9126

Data udienza 18 febbraio 2019

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI TOMASSI Mariastefani – Presidente

Dott. ROCCHI Giacomo – Consigliere

Dott. LIUNI Teresa – Consigliere

Dott. SANTALUCIA Giuseppe – Consigliere

Dott. CENTOFANTI Frances – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA
sul ricorso proposto da:
(OMISSIS), nata a (OMISSIS);
detenuta per questa causa;
avverso l’ordinanza dell’08/03/2018 del Tribunale di sorveglianza di Firenze;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Dott. Francesco Centofanti;
lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. Di NARDO Marilia, che ha chiesto, in accoglimento del secondo motivo, l’annullamento con rinvio dell’ordinanza impugnata.

RITENUTO IN FATTO

1. (OMISSIS), detenuta presso la Casa circondariale di Pisa, e’ in espiazione della pena detentiva di due anni e sei mesi di reclusione, applicata, ai sensi degli articoli 444 c.p.p. e ss., con sentenza 20 giugno 2017 del Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Massa, irrevocabile dall’11 settembre 2017, in ordine ai seguenti reati, uniti dal vincolo della continuazione:
a) tentata rapina aggravata, ai danni del gestore di una stazione per il rifornimento di carburante, realizzata mediante minaccia consistita nel puntare contro la vittima una pistola giocattolo priva di tappo rosso; evento non verificatosi a seguito della pronta reazione della vittima stessa, che riusciva a disarmare il suo offensore;
b) rapina aggravata, ai danni del gestore di un esercizio commerciale, consumata mediante minaccia consistita nel puntare contro la vittima un coltello; per effetto di essa l’agente si impossessava della somma di 180 Euro.
In sentenza erano riconosciute le circostanze attenuanti di cui all’articolo 62 c.p., comma 1, nn. 4) e 6), in relazione alla speciale tenuita’ del danno e all’intervenuto suo risarcimento, nonche’ le attenuanti generiche, equivalenti a tutte le aggravanti contestate.
2. Dall’istituto penitenziario la condannata, a fronte di un fine pena fissato al 24 gennaio 2020, ha avanzato istanza di concessione di misure alternative alla detenzione.
Con l’ordinanza in epigrafe il competente Tribunale di sorveglianza di Firenze, per quel che rileva in questa sede, ha negato l’affidamento in prova al servizio sociale e ha rilevato l’inammissibilita’ della domanda di detenzione domiciliare.
Quanto all’affidamento in prova, il Tribunale di sorveglianza, pur rilevando come (OMISSIS) fosse alla sua prima detenzione e, a seguito degli accertamenti effettuati, non risultassero suoi collegamenti con la criminalita’ organizzata, ha reputato non sufficienti le risorse socio-familiari a disposizione della medesima e ha ritenuto che, allo stato, la misura non fosse in grado di assicurarne la rieducazione e prevenire il rischio di recidiva.
Quanto alla detenzione domiciliare, il Tribunale di sorveglianza ha dato atto che la pena in espiazione e’ tuttora imputabile al delitto consumato di rapina contestato al capo b), aggravata ai sensi dell’articolo 628 c.p., comma 3, (minaccia commessa con armi), e ha rilevato come la misura fosse preclusa ai sensi del combinato disposto della L. 26 luglio 1975, n. 354, articolo 4-bis e articolo 47-ter, comma 1-bis, recante norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della liberta’ (di seguito L. n. 354 del 1975), non sussistendo le condizioni per la concessione della misura stessa ad altro titolo.
3. Avverso tale ordinanza (OMISSIS), con il ministero dell’avvocato (OMISSIS), propone ricorso per cassazione, affidato a tre motivi.
3.1. Con il primo motivo la ricorrente deduce violazione processuale.
I suoi difensori di fiducia per la fase svoltasi dinanzi al Tribunale di sorveglianza, avvocati (OMISSIS) e (OMISSIS), seppur tempestivamente designati non avrebbero ricevuto il prescritto avviso di avvenuta fissazione dell’udienza camerale. Ne sarebbe derivata la nullita’ assoluta e insanabile di quest’ultima, e della successiva decisione, per violazione del diritto inviolabile di difesa.
3.2. Con il secondo motivo la ricorrente deduce vizio della motivazione, in relazione al diniego della misura dell’affidamento in prova al servizio sociale.
Quest’ultimo non presupporrebbe la totale assenza di pericolosita’ sociale, realizzabile solo attraverso il completamento del percorso di rieducazione, ma soltanto l’esistenza di elementi da cui possa desumersi il proficuo avvio del medesimo percorso.
In ordine a tale ultimo profilo l’ordinanza impugnata sarebbe carente, avendo essa omesso di valutare in modo compiuto la condotta della condannata successiva ai commessi reati, la partecipazione all’opera di rieducazione attuata in istituto e le concrete possibilita’ del suo reinserimento sociale.
3.3. Con il terzo motivo la ricorrente denuncia l’inosservanza ed erronea applicazione della L. n. 354 del 1975, articoli 4-bis e 47-ter, comma 1-bis.
La preclusione all’ottenimento della detenzione domiciliare “generica”, indotta da tali disposizioni, sarebbe legata non al titolo di reato come tale, siccome ricompreso nell’elencazione del citato articolo 4-bis, ma al ricorrere delle condizioni ostative da quest’ultimo specificamente previste in rapporto alla particolare categoria di reato.
Per la rapina aggravata sarebbe dunque sufficiente, ai fini dell’accesso alla misura, il mancato rilievo della sussistenza di collegamenti del reo con la criminalita’ organizzata, sicche’ – essendosi l’ordinanza impugnata espressa in tali esatti termini – l’istanza non avrebbe potuto essere considerata in parte qua inammissibile.
4. Nella requisitoria, presentata a norma dell’articolo 611 c.p.p., il Procuratore generale presso questa Corte ha concluso come in epigrafe.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. La numerazione dei motivi riflette l’ordine logico delle questioni proposte e il Collegio, movendo dunque, anzitutto, dalla censura processuale, oggetto del primo motivo, deve rilevarne la manifesta infondatezza.
Risulta dagli atti – cui e’ in questa sede consentito, a fronte della denuncia di un error in procedendo ai sensi dell’articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera c), il diretto accesso – che gli avvocati (OMISSIS) e (OMISSIS) parteciparono regolarmente all’udienza tenutasi dinanzi al Tribunale di sorveglianza, ne’ li’ mossero eccezione alcuna riguardante la loro citazione o chiesero l’aggiornamento della trattazione del caso.
L’eventuale nullita’, derivante dal dedotto mancato avviso ai difensori medesimi, si e’ dunque in ogni caso sanata, a norma dell’articolo 184 c.p.p., commi 1 e 2.
2. Analoga considerazione parrebbe da riservare al secondo motivo, posto che la giurisprudenza di legittimita’ ha ripetutamente affermato che la concessione delle misure alternative alla detenzione e’ rimessa alla valutazione discrezionale della magistratura di sorveglianza, che deve verificare, al di fuori di ogni automatismo, la meritevolezza del condannato in relazione al beneficio richiesto e l’idoneita’ di quest’ultimo a facilitarne il reinserimento sociale (tra molte, Sez. 1, n. 8712 del 08/02/2012, Tanzi, Rv. 252921). Nel caso dell’affidamento in prova, il giudice, basandosi sulle relazioni provenienti dagli organi deputati all’osservazione del condannato ma senza essere vincolato ai giudizi ivi espressi, deve apprezzare le riferite informazioni sulla personalita’ e lo stile di vita dell’interessato, parametrandone la rilevanza ai fini della decisione alle istanze rieducative sottostanti la misura e ai profili di pericolosita’ residua dell’interessato (Sez. 1, n. 23343 del 23/03/2017, Arzu, Rv. 270016).
Nella specie, il Tribunale di sorveglianza ha espressamente preso in esame le risultanze del trattamento, senza sottacerne gli aspetti favorevoli; e tuttavia, con motivazione non lacunosa ed esente da profili di illogicita’, non le ha ritenute di pregnanza tale, alla luce del contesto ambientale e delle risorse a disposizione, da giustificare l’ammissione alla richiesta misura alternativa. Si tratta di motivazione nient’affatto mancante ne’ contraddittoria, cui la ricorrente contrappone argomenti che appaiono largamente di merito, e percio’ estranei all’ambito della cognizione che questa Corte puo’ esercitare.
3. Viene allora in considerazione il terzo motivo, con il quale si censura la declaratoria d’inammissibilita’ dell’istanza di detenzione domiciliare “generica”, ai sensi della L. n. 354 del 1975, articolo 47-ter, comma 1-bis, adottata sulla sola base del titolo di reato, in relazione alla sua appartenenza al catalogo indicato nell’articolo 4-bis della medesima legge.
Tale declaratoria e’ allo stato conforme al dato normativo e al diritto vivente.
La giurisprudenza di legittimita’, con indirizzo assolutamente consolidato (Sez. 1, n. 20145 del 27/04/2011, Barbato, Rv. 250277-01; Sez. 1, n. 44572 del 09/12/2010, Allegra, Rv. 248995; Sez. 1, n. 27557 del 27/05/2010, Mikovic, Rv. 247723; Sez. 1, n. 30804 del 07/07/2006, Napolitano, Rv. 234716), afferma, infatti, che la L. n. 354 del 1975, articolo 47-ter, comma 1-bis, nel disciplinare le ipotesi espressamente preclusive di tale forma di detenzione domiciliare, rinvia unicamente al menzionato catalogo dei reati, e non al contenuto della disposizione che lo contempla (l’articolo 4-bis della stessa legge), relativa ad una pluralita’ di situazioni variamente articolate dal legislatore, e che e’ pertanto di ostacolo all’applicazione della misura la condanna irrevocabile per uno dei delitti al catalogo appartenente, a nulla rilevando, a tal fine, l’insussistenza di collegamenti del condannato con la criminalita’ organizzata, terroristica o eversiva.
Da tale interpretazione, basata su logiche argomentazioni di carattere letterale e logico-sistematico, non vi e’ ragione di discostarsi in questa sede, avuto riguardo, in particolare, al rilievo, che, essendo gia’ previsto dall’articolo 4-bis che l’assegnazione al lavoro esterno, i permessi premio e le misure alternative alla detenzione possono essere concessi ai detenuti o internati solo se sussistono le condizioni ivi espressamente enunciate, le ulteriori disposizioni, che in relazione a specifici benefici o misure escludono i soggetti condannati per i reati di cui all’articolo 4-bis, non avrebbero ragion d’essere e significato alcuno se fossero da intendere riferite alle condizioni preclusive gia’ poste dall’articolo 4-bis anziche’ al mero catalogo dei reati in esso indicati.
4. Il Collegio, tuttavia, dubita che tale assetto normativo sia compatibile con l’articolo 3 Cost., comma 1, e articolo 27, commi 1 e 3, Cost..
5. Come detto, la L. n. 354 del 1975, articolo 4-bis reca una disciplina speciale, a carattere restrittivo, per la concessione dei benefici penitenziari a determinate categorie di detenuti o di internati, che si presumono socialmente pericolosi in ragione del tipo di reato per il quale la detenzione o l’internamento sono stati disposti; disciplina la cui genesi risale alla “stagione emergenziale” in tema di lotta alla criminalita’ organizzata risalente al principio degli anni 90 dello scorso secolo.
Gia’ nella versione di origine – introdotta dal Decreto Legge n. 152 del 1991, articolo 1, conv. nella L. n. 203 del 1991 – l’articolo 4-bis distingueva le figure criminose di riferimento in due “fasce”. Per i reati di “prima fascia”, a matrice o sfondo di carattere associativo, l’accesso alle misure alternative era subordinato all’acquisizione di elementi tali da escludere l’attualita’ di collegamenti con la criminalita’ organizzata; per i reati di “seconda fascia”, privi di tale connotazione ma comunque socialmente allarmanti, si richiedeva – in termini inversi, dal punto di vista probatorio – la mancata emersione di elementi tali da far ritenere attuali detti collegamenti. Erano parallelamente disposti aggravamenti istruttori, di natura obbligatoria, ancorche’ dall’esito non vincolante. In relazione, era previsto l’innalzamento dei “tetti” di pena stabiliti per i benefici penitenziari caratterizzati dall’accesso subordinato all’avvenuta espiazione di una predeterminata quota-parte della pena stessa.
5.1. A seguito della riforma operata dal Decreto Legge n. 306 del 1992, conv. nella L. n. 356 del 1992, assunse un ruolo centrale, nell’economia dell’istituto, la collaborazione con la giustizia.
L’utile collaborazione, nei sensi indicati dalla L. n. 354 del 1975, articolo 58-ter, divenne, infatti, condicio sine qua non per l’accesso ai benefici penitenziari, in rapporto ai delitti di “prima fascia”, salva – anche per effetto delle pronunce della Corte costituzionale e delle successive conformi modifiche legislative l’equiparazione della collaborazione impossibile o “oggettivamente irrilevante”, ove al condannato fossero state concesse talune attenuanti, sintomatiche di una minore pericolosita’.
Il meccanismo poggia sulla presunzione legislativa che la commissione di determinati delitti dimostri il collegamento dell’autore con la criminalita’ organizzata e costituisca, quindi, un indice di pericolosita’ sociale incompatibile con l’ammissione del condannato ai benefici penitenziari extra-murari. La scelta di collaborare con la giustizia viene assunta, in questa prospettiva, come una sorta di prova legale, la sola idonea ad esprimere con certezza la volonta’ di emenda del condannato e, dunque, a rimuovere l’ostacolo alla concessione delle misure, in ragione della sua valenza “rescissoria” di tale legame, ferma in ogni caso la necessita’ che risulti esclusa l’attualita’ di collegamenti con la criminalita’ organizzata.
Pur a seguito del successivo incremento del relativo catalogo dei reati, l’assetto complessivo dell’istituto ha ripetutamente superato il vaglio di legittimita’ costituzionale, ancorche’ talune pronunce della Corte costituzionale, tra le quali vanno in particolare ricordate quelle in tema di rieducazione gia’ raggiunta e di collaborazione impossibile e quelle relative ai minorenni, abbiano inciso su aspetti specifici (e limitati) della disciplina.
5.2. Quanto ai reati di “seconda fascia”, il loro regime giuridico, nonostante la sempre piu’ marcata eterogeneita’ dell’elencazione, via via aggiornata dal legislatore, non e’ sostanzialmente mutato dal 1991 ad oggi.
Si tratta, in sostanza, di reati considerati espressivi – nella astratta valutazione, preventivamente operata dal legislatore – di accentuata pericolosita’ sociale del loro autore, la quale giustifica nel sistema legale la necessita’ di verificare, presso le competenti autorita’ di pubblica sicurezza, se sussistano collegamenti con la criminalita’ organizzata, terroristica o eversiva, la cui emersione soltanto opera, “in negativo”, come fattore preclusivo del beneficio penitenziario.
5.3. Il Decreto Legge n. 11 del 2009, conv. nella L. n. 38 del 2009, nel ridisegnare l’intera impalcatura della disposizione, ha poi, tra l’altro, istituito una “terza fascia”, solo contrassegnata dal condizionamento dei benefici all’espletamento di un periodo minimo di osservazione in istituto di pena.
5.4. Attualmente il sistema delineato dall’articolo 4-bis istituisce, pertanto, un ventaglio di presunzioni di pericolosita’ ostative, vincibili: per i delitti di “prima fascia”, oggi individuati nel comma 1, solo in forza della esigibile e prestata collaborazione con la giustizia, ferma la necessita’ dell’accertamento della insussistenza di collegamenti con il crimine organizzato; per i delitti di “seconda fascia”, oggi identificati con quelli di cui al comma 1-ter, dall’assenza di elementi deponenti per tali collegamenti; per i delitti di “terza fascia”, delineati nel quo comma 1-quater, sulla scorta di una complessa valutazione sull’evoluzione della personalita’ del condannato.
6. In tale tessuto ordinamentale si inserisce la disposizione della L. n. 354 del 1975, articolo 47-ter, comma 1-bis, la cui introduzione risale alla L. n. 165 del 1998, che, secondo l’inevitabile interpretazione sopra ricordata, introduce una presunzione assoluta di inidoneita’ contenitiva della detenzione domiciliare di tipo ordinario, rispetto ai condannati per certuni titoli di reato, ritenuti di per se’ espressivi di piu’ accentuata pericolosita’, in ragione del loro inserimento nel catalogo di cui all’articolo 4-bis della citata L. n. 354 del 1975.
Per costoro, la detenzione domiciliare di cui si discute e’, per definizione e in assoluto, ritenuta inadeguata ad evitare il pericolo di recidiva.
Siffatto assetto appare tuttavia al Collegio non coerente con l’articolo 3 Cost., comma 1, e articolo 27 Cost., commi 1 e 3, potendo dubitarsi della intrinseca ragionevolezza della preclusione assoluta cosi’ istituita, e della sua conformita’ ai principi di rieducazione e di personalita’ e proporzionalita’ che dovrebbero sorreggere la risposta punitiva in ogni momento della sua attuazione.
7. La giurisprudenza costituzionale sembra, invero, orientata in linea di principio ad escludere, anche nella materia dei benefici penitenziari, la legittimita’ di rigidi automatismi, e a richiedere invece che vi sia sempre una valutazione individualizzata, cosi’ da collegare la concessione o meno del beneficio a una prognosi ragionevole sulla sua utilita’ a far procedere il condannato sulla via dell’emenda e del reinserimento sociale (Corte cost., n. 291 del 2010, n. 189 del 2010, n. 255 del 2006, n. 436 del 1999; da ultimo, sentenza n. 149 del 2018).
Le presunzioni di pericolosita’ sono eccezionalmente ammesse, a patto che non siano arbitrarie ne’ irrazionali, in quanto rispondenti a dati di esperienza generalizzati, non suscettibili di agevole smentita, e che non siano neppure ad altro titolo lesive di valori costituzionali.
Incompatibili con tale opzione di fondo dovrebbero allora ritenersi previsioni, come quella oggetto di scrutinio, che precludano in modo assoluto l’accesso a un beneficio penitenziario in ragione soltanto della particolare gravita’ del titolo di reato commesso, riflessa dall’inclusione di quest’ultimo in un catalogo (quello L. n. 354 del 1975, ex articolo 4-bis) cui si ricollegano, a vari livelli, indici presuntivi di pericolosita’ che – a prescindere da ogni considerazione circa l’estrema eterogeneita’ dei titoli inclusi – parrebbero potersi ritenere legittimi solo nella misura in cui gli stessi risultino, in concreto, agevolmente vincibili: cosi’ in radice impedendo, la disposizione in esame, l’accesso alla misura alternativa anche ai condannati per i quali, per l’avverarsi dei presupposti risolutivi indicati dalla legge – la prestata utile collaborazione con la giustizia (ove richiesta), la rescissione o mancata instaurazione dei collegamenti con il crimine organizzato e gli eventuali progressi nel percorso di rieducazione – la presunzione di perdurante pericolosita’ sociale sarebbe invece da escludere proprio ai sensi dell’articolo 4-bis, in sintonia con l’impostazione di fondo del regime ivi delineato.
Anche in questo caso, in realta’, il legislatore parrebbe mosso solo “d(a)ll’esigenza di lanciare un robusto segnale di deterrenza nei confronti della generalita’ dei consociati” (Corte cost., n. 149 del 2018), che pero’, come non puo’ di per se’ giustificare presunzioni assolute nella fase di verifica del grado e dell’adeguatezza delle misure cautelari durante il processo (Corte cost. n. 331 del 2011), nemmeno parrebbe legittimare, nella fase di esecuzione della pena, operazioni “in chiave distonica rispetto all’imperativo costituzionale della funzione rieducativa della pena medesima, da intendersi come fondamentale orientamento di essa all’obiettivo ultimo del reinserimento del condannato nella societa’ (sentenza n. 450 del 1998), e da declinarsi nella fase esecutiva come necessita’ di costante valorizzazione, da parte del legislatore prima e del giudice poi, dei progressi compiuti dal singolo condannato durante l’intero arco dell’espiazione della pena” (Corte cost. n. 149 del 2018, cit.).
Si coglie appieno allora, sotto gli aspetti considerati, l’irragionevolezza intrinseca della disposizione censurata, in relazione al valore della responsabilita’ penale personale e alla necessaria finalita’ rieducativa della pena. Irragionevolezza intrinseca non sfuggita, peraltro, in sede di attuazione della delega contenuta nella L. 23 giugno 2017, n. 103, nella parte relativa alle modifiche all’ordinamento penitenziario, se e’ vero che, nello schema originario del conseguente decreto legislativo, era stata prevista la soppressione della disposizione censurata. E nonostante tale scelta non sia stata confermata nel testo definitivo, non puo’ omettersi in questa sede di rilevare come opportunamente nella relazione illustrativa governativa (pag. 37) si rimarcasse che comunque – venuta meno l’esclusione dell’applicabilita’ della detenzione domiciliare “comune” ai condannati per reati di cui all’articolo 4-bis, limite in grado di precludere l’accesso alla misura anche ai condannati che avessero collaborato con la giustizia – sarebbero rimaste ferme tutte le condizioni di accesso ordinariamente stabilite dalla normativa speciale a tutela della sicurezza pubblica.
8. Tale irragionevolezza intrinseca si accentua, se si pone specifica attenzione al delitto di rapina aggravata, per il quale la ricorrente deve ancora scontare parte di pena, incluso in “seconda fascia”.
Sicuramente estraneo, nella fattispecie strutturale e nelle piu’ frequenti manifestazioni empiriche, a contesti di crimine organizzato – elemento che, in senso contrario, connota, di massima, i reati della fascia antecedente – la rapina aggravata si trova indiscriminatamente, e illogicamente, ai medesimi reati accomunata nell’effetto di comprimere in modo irrimediabile lo spazio applicativo di una misura alternativa alla detenzione.
Con il paradosso che – se, per i reati della prima categoria, il risultato che si produce e’ la mera esasperazione della innegabile sfiducia ordinamentale verso il buon esito di percorsi rieducativi estranei al sistema carcerario – per la rapina aggravata non vige alcuna generale presunzione di immeritevolezza del relativo condannato rispetto al beneficio penitenziario, la cui concessione e’ solo circondata da maggiori cautele, temporali e istruttorie. Per essa, dunque, la disposizione censurata rappresenta una “rottura” della filosofia cui si ispira il sotto-sistema costituito dalla L. n. 354 del 1975, articolo 4-bis.
La rapina aggravata, del resto, puo’ assumere in concreto, e in base a dati di comune esperienza giudiziaria moltissime volte assume, una dimensione di ridotta offensivita’ oggettiva e puo’ non essere affatto sintomatica di una pericolosita’ contenibile solo con misure carcerarie: come e’ a dirsi con riferimento al caso di specie, ove con essa non concorsero delitti piu’ gravi; le “armi” usate erano un coltello e una pistola giocattolo; la somma sottratta era esigua ed ebbe luogo il risarcimento del danno; la pena patteggiata e’ modesta ed e’ stata gia’ in parte espiata in regime cautelare attenuato (arresti domiciliari); non e’ stato rilevato collegamento alcuno della condannata con la criminalita’ organizzata; risulta dalla relazione dell’Ufficio di esecuzione penale esterna la possibilita’ di reinserimento familiare.
Sicche’ la constatazione che la possibile ricorrenza di analoghi indicatori non e’ affatto inusuale, o eccezionale, “carica” la disposizione anzidetta di contraddizioni interne ulteriori.
9. Non potrebbe neppure sostenersi che il divieto assoluto della detenzione domiciliare ordinaria, rispetto al condannato per uno dei delitti ex articolo 4-bis, e comunque rispetto alla rapina aggravata, trovi la sua ragion d’essere nell’estraneita’ della detenzione domiciliare al circuito rieducativo e trattamentale.
La detenzione domiciliare, inserita tra le misure alternative alla detenzione di cui al Titolo 1, Capo 6 dell’ordinamento penitenziario, realizza, come sottolineato dalla giurisprudenza costituzionale (sentenza n. 165 del 1996; v. altresi’ le successive nn. 532 del 2002 e 350 del 2003), una modalita’ meno afflittiva di esecuzione della pena.
L’istituto, dopo l’ampia riforma realizzata con la L. n. 165 del 1998 (cui si deve, come gia’ si ricordava, l’introduzione, nel corpo dell’articolo 47-ter Ord. pen., del comma 1-bis), ha assunto aspetti piu’ vicini e congrui alla ordinaria finalita’ rieducativa e di reinserimento sociale della pena, non essendo esso piu’ limitato alla protezione dei “soggetti deboli” prima previsti come destinatari esclusivi della misura, ed essendo applicabile in tutti i casi di condanna a pena non superiore a due anni (anche se residuo di maggior pena), purche’ risulti in concreto idoneo ad evitare il pericolo di recidiva (v. Corte cost. n. 422 del 1999, la quale ha ritenuto che la concessione d’ufficio del beneficio, al condannato che ne abbia titolo, non soltanto non e’ in contrasto, ma piuttosto realizza lo scopo rieducativo di cui all’articolo 27 Cost.).
E, secondo Corte cost. n. 239 del 2014, la detenzione domiciliare non solo non prescinde da contenuti trattamentali ma e’ partecipe a pieno titolo della finalita’ di reinserimento sociale del condannato, costituente l’obiettivo comune di tutte le misure alternative alla detenzione; il che e’ comprovato tanto dal requisito negativo di fruibilita’, rappresentato dalla insussistenza del pericolo di commissione di ulteriori delitti, quanto dalla disciplina delle modalita’ di svolgimento della misura e delle ipotesi di revoca.
D’altronde, in linea ancora piu’ generale, gia’ Corte cost. n. 173 del 1997 osservava che, se e’ vero che la misura alternativa della detenzione domiciliare “e’ indubbiamente caratterizzata da una finalita’ umanitaria ed assistenziale (…) non puo’ negarsi che essa ha in comune con le altre misure alternative – come avverte anche la giurisprudenza della Corte di cassazione (e prima ancora – sia pure incidentalmente – la ordinanza n. 327 del 1989 di questa Corte) – la finalita’ della rieducazione e del reinserimento sociale del condannato”. E alla possibilita’ del raggiungimento di tale finalita’, ben puo’ – e percio’ deve anche – guardarsi nel momento della concessione del beneficio.
Ne’ la misura e’ priva di prescrizioni a contenuto risocializzante, alla cui formulazione e al cui controllo concorrono gli Uffici di esecuzione penale esterna previsti dalla L. n. 354 del 1975, articolo 72.
Considerazioni, queste, che paiono ulteriormente confortare il dubbio circa l’irragionevolezza intrinseca di una previsione che, nel precludere ai condannati per i reati di cui all’articolo 4-bis (e, comunque, ai condannati per rapina aggravata) l’accesso alla particolare forma di detenzione domiciliare prevista per le pene detentive inferiori a due anni di reclusione, non riserva alcun rilievo alla concreta pericolosita’ del soggetto, desumibile dalla sua condotta o dalla sussistenza di collegamenti con la criminalita’ organizzata, cosi’ violando altresi’ i principi della personalita’ e finalita’ rieducativa della pena e il principio della progressivita’ del trattamento, quali affermati dalla costante giurisprudenza costituzionale.
10. Proprio in relazione a quest’ultimo principio, quello della progressivita’ del trattamento, non puo’, d’altra parte, non evidenziarsi che il condannato per un delitto ricompreso tra quelli elencati dalla L. n. 354 del 1975, articolo 4-bis potrebbe essere ammesso all’affidamento in prova al servizio sociale, ove sussistano le condizioni previste in tale norma, mentre gli e’ inibito l’accesso alla detenzione domiciliare prevista dal comma 1-bis del successivo articolo 47-ter, nonostante quest’ultima misura abbia carattere maggiormente contenitivo e sia percio’ semmai maggiormente idonea a fronteggiarne la pericolosita’ sociale eventualmente residua.
Vero e’ che la Corte costituzionale, giudicando di analoga denunciata contraddizione, ha rilevato (sentenza n. 338 del 2008) che l’affidamento in prova e’ misura non “omogenea” rispetto alle misure gradate, quanto a requisiti soggettivi di ammissione.
Per la concessione dell’affidamento in prova e’ necessaria, infatti, una prognosi di rieducazione del reo, opportunamente assistito, e di ragionevole assenza del rischio di recidiva. Se questa e’ la valutazione effettuata sulla personalita’ del condannato, nel caso concreto ed alla luce di tutti i parametri indicati dalla legge, rispetto all’affidamento si giustifica – per il giudice delle leggi – la parificazione tra coloro che hanno commesso reati in astratto valutati con particolare severita’, come quelli previsti dall’articolo 4-bis citato, e tutti gli altri condannati, sempre che la pena da espiare non superi i tre (ora quattro) anni; parificazione che invece non sarebbe imposta allorche’ il rischio di recidiva esista e abbia bisogno di contenimento (come era, nel caso sottoposto allora a giudizio, per il condannato ritenuto meritevole della sola semiliberta’, accessibile a condizioni piu’ gravose).
Lo schema di ragionamento potrebbe essere mutuato a proposito della detenzione domiciliare, concessa in via gradata rispetto al pur richiesto affidamento in prova. Anche qui il condannato non presenta le caratteristiche personali e comportamentali di piena affidabilita’, sufficienti a far ritenere che sia del tutto assente il rischio di reiterazione. Il legislatore potrebbe dunque ritenersi legittimato a conformare, mediante piu’ severe regole di accesso, una misura alternativa siffatta, che presuppone debba fronteggiarsi un certo grado di pericolosita’.
Tuttavia tale aggravamento di disciplina – se rende “non (…) manifestamente irragionevole la scelta del legislatore di pretendere una congrua espiazione della pena inflitta, prima di far acquistare (al condannato) una condizione che, comunque, implica un atto di fiducia dello Stato nei confronti di chi si sia reso responsabile di reati di particolare gravita’” (sentenza 338 del 2008, citata) – non sembra invece altrettanto giustificabile allorche’ arriva ad escludere, in maniera categorica, l’accesso alla misura alternativa piu’ contenitiva, e quindi anche alla forma di detenzione domiciliare “comune”, parte integrante, come sopra evidenziato, di un ordinamento penitenziario partecipe dei valori della risocializzazione.
Una diversificazione dei requisiti di ammissione alle misure, congegnata in termini cosi’ estremi, parrebbe eccedere i margini della pur ampia discrezionalita’ di cui gode il legislatore nella conformazione degli istituti di diritto penitenziario nella pur sempre necessaria prospettiva della risocializzazione del condannato. Ne’ sembra coerente con l’assunto che tale prospettiva, come “chiama in causa la responsabilita’ individuale del condannato nell’intraprendere un cammino di revisione critica del proprio passato e di ricostruzione della propria personalita’, in linea con le esigenze minime di rispetto dei valori fondamentali su cui si fonda la convivenza civile”, parimenti “non puo’ non chiamare in causa – assieme – la correlativa responsabilita’ della societa’ nello stimolare il condannato ad intraprendere tale cammino, anche attraverso la previsione da parte del legislatore – e la concreta concessione da parte del giudice – di benefici che gradualmente e prudentemente attenuino, in risposta al percorso di cambiamento gia’ avviato, il giusto rigore della sanzione inflitta per il reato commesso, favorendo il progressivo reinserimento del condannato nella societa’” (Corte cost. n. 149 del 2018, cit.).
11. Appare dunque non manifestamente infondata, in riferimento all’articolo 3, comma 1, e articolo 27 Cost., commi 1 e 3, la questione di legittimita’ costituzionale della L. n. 354 del 1975, articolo 47-ter, comma 1-bis, nella parte in cui prevede che tale disposizione non si applica ai condannati per i reati di cui all’articolo 4-bis della medesima legge, avuto riguardo all’irragionevolezza intrinseca di tale disposizione, in relazione ai principi della personalizzazione e finalita’ rieducativa della pena, da cui consegue l’esigenza di trattamenti penitenziari non legati esclusivamente a catalogazioni per tipi d’autore e non sbarrati da presunzioni invincibili, ma misurati in base alla concreta gravita’ dei fatti-reato commessi e alla effettiva pericolosita’ del condannato, nonche’ l’esigenza di percorsi di responsabilizzazione ispirati al principio di progressione e gradualita’.
12. La questione appare, quindi, certamente rilevante nel presente giudizio.
Soltanto il suo accoglimento consentirebbe infatti, in accoglimento del petitum sostanziale oggetto del terzo motivo di ricorso, l’annullamento dell’ordinanza impugnata con rinvio al Tribunale di sorveglianza perche’ valuti nel merito l’esistenza delle condizioni per l’accesso della condannata alla detenzione domiciliare da lei richiesta.
13. Alla stregua di tutte le argomentazioni sin qui svolte, deve conclusivamente dichiararsi rilevante e non manifestamente infondata, in riferimento all’articolo 3 Cost., comma 1, e articolo 27 Cost., comma 1 e 3, la questione di legittimita’ costituzionale dell’articolo 47-ter, comma 1-bis, della L. 26 luglio 1975, n. 354 (recante norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della liberta’) nella parte in cui prevede che tale disposizione non si applica ai condannati per i reati di cui all’articolo 4-bis della medesima legge.
A norma della L. 11 marzo 1953, n. 87, articolo 23, deve dichiararsi la sospensione del procedimento e deve disporsi l’immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale.
La Cancelleria provvedera’ alla notifica di copia della presente ordinanza alle parti e al Presidente del Consiglio dei Ministri e alla comunicazione della stessa ai Presidenti della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica.

P.Q.M.

Visto la L. 11 marzo 1953, n. 87, articolo 23, dichiara rilevante e non manifestamente infondata, in riferimento agli articolo 3 Cost., comma 1, e articolo 27 Cost., commi 1 e 3, la questione di legittimita’ costituzionale della L. 26 luglio 1975, n. 354, articolo 47-ter, comma 1-bis, (recante norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della liberta’) nella parte in cui prevede che tale disposizione non si applica ai condannati per i reati di cui all’articolo 4-bis della medesima legge.
Sospende il giudizio in corso e dispone l’immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale.
Dispone altresi’ che, a cura della Cancelleria, la presente ordinanza sia notificata alla ricorrente, al Procuratore Generale presso questa Corte e al Presidente del Consiglio dei Ministri, e sia comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento.

Per aprire la mia pagina facebook @avvrenatodisa
Cliccare qui

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *