Quando una pratica commerciale è scorretta

Consiglio di Stato, sezione sesta, Sentenza 23 maggio 2019, n. 3347.

La massima estrapolata:

Una pratica commerciale è scorretta se risulta idonea ad indurre ad una decisione di carattere commerciale che il consumatore “medio”, cioè quello “normalmente informato e ragionevolmente avveduto”, avrebbe altrimenti potuto non prendere; la fattispecie si concreta, in particolare, quando il contenuto del messaggio che pubblicizza il prodotto in offerta è idoneo a falsare le ordinarie scelte del consumatore con riguardo alle caratteristiche principali del prodotto nonché riguardo al suo prezzo per come è calcolato, all’omissione di informazioni rilevanti ovvero alla loro presentazione poco chiara o non esaustiva oppure alla incertezza sulla garanzia del prezzo offerto o alla descrizione del prodotto come gratuito pur gravando sul consumatore altri oneri.

Sentenza 23 maggio 2019, n. 3347

Data udienza 16 maggio 2019

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Sesta
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 6408 del 2014, proposto da
So. Eu. Li., Se. Se. It., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Pa. Be., Al. Va., con domicilio eletto presso lo studio Pa. Be. in Roma, via (…);
contro
Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliata ex lege in Roma, via (…);
Autorità per Le Garanzie Nelle Comunicazioni non costituito in giudizio;
per la riforma
della sentenza breve del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio Sezione Prima n. 04015/2014, resa tra le parti, concernente irrogazione sanzione amministrativa pecuniaria per pratica commerciale scorretta
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio di Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 16 maggio 2019 il Cons. Davide Ponte e uditi per le parti gli avvocati Pa. Be. e Se. Fi. dell’Avvocatura Generale dello Stato;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO

Con l’appello in esame la società appellante impugnava la sentenza n. 4015\2014 con cui il Tar Lazio aveva respinto l’originario gravame, proposto dalla stessa So. Eu. Li. Se. Se. It. (d’ora in avanti So.) aveva proposto avverso il provvedimento dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato (d’ora in avanti Autorità ), reso nell’adunanza del 20 dicembre 2013 all’esito del procedimento istruttorio n. PS8714. Tale atto aveva ad oggetto “pratica commerciale scorretta posta in essere dalla società So. Eu. Li., consistente nella diffusione di informazioni non veritiere in merito alla garanzia legale di conformità prestata dalla So. e nell’opporre difficoltà di varia natura agli acquirenti in relazione all’esercizio dei loro diritti in materia di garanzia legale di conformità, di cui agli artt. 128 e ss Codice del Consumo”, con conseguente irrogazione di una sanzione amministrativa pecuniaria pari a 500.000,00 Euro.
Nel ricostruire in fatto e nei documenti la vicenda, parte appellante formulava i seguenti motivi di appello:
– violazione e falsa applicazione degli artt. 128 – 132 d.lgs. 206\2005 relativi alla garanzia legale di conformità, dell’art. 133 sulla garanzia convenzionale, degli articoli da 20 a 25 sulle pratiche commerciali scorrette, di violazione delle direttive n. 1999/44/CE e n. 2005/29/CE, degli artt. 23 e 41 Cost., nonché di eccesso di potere per travisamento dei presupposti di fatto e di diritto, illogicità, incongruenza, sviamento, straripamento, sulla assenza dei presupposti di induzione in errore dei consumatori, sulla non obbligatorietà di descrivere in dettaglio la garanzia legale;
– violazione degli articoli 9, 13, 27 del medesimo d.lgs. 206 cit. e dell’art. 11 della legge n. 681 del 1981, nonché diversi profili di eccesso di potere per illogicità e violazione del principio di proporzionalità fra lesione e sanzione.
L’autorità si costituiva in giudizio chiedendo il rigetto dell’appello.
Alla pubblica udienza del 16\5\2019, in vista della quale le parti depositavano memorie, la causa passava in decisione.

DIRITTO

1. L’appello in esame ha ad oggetto la sentenza resa dal Tar Lazio in merito alla controversia concernente la sanzione irrogata dall’Autorità avverso So. It., a cagione della scorrettezza delle informazioni fornite dalla società circa l’applicazione della garanzia legale di conformità sul proprio sito internet e sulla documentazione a corredo dei prodotti, con particolare riguardo alla garanzia del prodotto da eventuali difetti di materiale o di fabbricazione per la durata di un solo anno a partire dalla data originale di acquisto, anche alla luce dei comportamenti non univoci tenuti in relazione all’esercizio dei diritti riconosciuti al consumatore in materia di garanzia legale di conformità, essendosi alcuni punti vendita rifiutati di ritirare i prodotti nonostante il difetto si fosse manifestato entro il termine di due anni dalla consegna del bene.
In particolare, sul sito internet www.So..it, nella pagina intitolata “Garanzie Termini e condizioni della garanzia So.” si leggeva: “So. garantisce il prodotto da eventuali difetti di materiale o di fabbricazione per la durata di un anno e a partire dalla data originale di acquisto (…) La presente garanzia non copre i costi ed i rischi associati al trasporto del vostro prodotto a So. o al laboratorio del centro di assistenza e viceversa”.
L’istruttoria, avviata sulla base di numerose segnalazioni, si svolgeva anche attraverso l’acquisizione del parere il parere dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, reso in data 29\11\2013, che ha ritenuto la pratica commerciale in esame scorretta ai sensi degli artt. 20, 21, comma 1 let. g, 22, commi 1 e 2, 24 e 25, comma 1, lettera d), del Codice del Consumo, in quanto idonea ad evitare il riconoscimento e la prestazione della garanzia legale biennale di conformità a favore del consumatore, con il semplice rinvio a quella convenzionale di un anno – con solo un generico e confuso richiamo alle permanenza dei diritti spettanti in base alle leggi nazionali applicabili – inducendolo e/o condizionandolo ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso, sulla base di una erronea rappresentazione dei diritti loro spettanti in merito alla garanzia.
2. Con il provvedimento definitivo, l’Autorità condivideva il parere acquisito e concludeva nel senso che la condotta contestata fosse da reputarsi lesiva ai sensi delle predette norme del c.d. codice del consumo, in quanto ambigua ed omissiva ed in grado di ostacolare indebitamente l’esercizio dei diritti del consumatore, creando confusione, con le proprie indicazioni, tra la garanzia del produttore e la garanzia legale di conformità in modo non conforme al livello di diligenza professionale ragionevolmente esigibile ai sensi della disciplina normativa richiamata.
All’esito del giudizio di prime cure, il Tar respingeva il gravame del respingendo le censure dedotte avverso sia le pratiche contestate sia il quantum della sanzione irrogata.
Nella presente sede la parte ricorrente ripropone le censure di prime cure, contestando le argomentazioni svolte sul punto dalla sentenza appellata.
3. In termini di inquadramento occorre riassumere la disciplina applicata dall’Autorità, nei termini già approfonditi dalla giurisprudenza anche della sezione.
3.1 L’espressione “pratiche commerciali scorrette” designa le condotte che formano oggetto del divieto generale sancito dall’art. 20 del d.lgs. 6 settembre 2005 n. 206 (Codice del consumo), in attuazione della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 11 maggio 2005, n. 2005/29/Ce. La finalità perseguita dalla direttiva europea consiste nel garantire, a termini del suo considerando 23, un elevato livello comune di tutela dei consumatori procedendo ad un’armonizzazione completa delle norme relative alle pratiche commerciali sleali delle imprese, ivi compresa la pubblicità sleale, nei confronti dei consumatori.
Per “pratiche commerciali” – assoggettate al titolo III della parte II del Codice del consumo – si intendono tutti i comportamenti tenuti da professionisti che siano oggettivamente “correlati” alla “-promozione, vendita o fornitura-” di beni o servizi a consumatori, e posti in essere anteriormente, contestualmente o anche posteriormente all’instaurazione dei rapporti contrattuali. La condotta tenuta dal professionista può consistere in dichiarazioni, atti materiali, o anche semplici omissioni.
Quanto ai criteri in applicazione dei quali deve stabilirsi se una determinata pratica commerciale sia o meno “scorretta”, il comma 2 dell’art. 20 del Codice del consumo stabilisce in termini generali che una pratica commerciale è scorretta se “è contraria alla diligenza professionale” ed “è falsa o idonea a falsare in misura apprezzabile il comportamento economico, in relazione al prodotto, del consumatore medio che raggiunge o al quale è diretta o del membro medio di un gruppo qualora la pratica commerciale sia diretta a un determinato gruppo di consumatori”.
Nella trama normativa, la definizione generale si scompone tuttavia in due diverse categorie di pratiche scorrette: le pratiche ingannevoli (di cui agli art. 21 e 22) e le pratiche aggressive (di cui agli art. 24 e 25).
Il legislatore ha inoltre analiticamente individuato una serie di specifiche tipologie di pratiche commerciali (le c.d. “liste nere”) da considerarsi sicuramente ingannevoli e aggressive (art. 23 e 26, cui si aggiungono le previsioni “speciali” di cui ai commi 3 e 4 dell’art. 21 e all’art. 22-bis), senza che si renda necessario accertare la sua contrarietà alla “diligenza professionale” nonché dalla sua concreta attitudine “a falsare il comportamento economico del consumatore”.
Il carattere ingannevole di una pratica commerciale dipende dalla circostanza che essa non sia veritiera in quanto contenente informazioni false o che, in linea di principio, inganni o possa ingannare il consumatore medio, in particolare, quanto alla natura o alle caratteristiche principali di un prodotto o di un servizio e che, in tal modo, sia idonea a indurre detto consumatore ad adottare una decisione di natura commerciale che non avrebbe adottato in assenza di tale pratica. Quando tali caratteristiche ricorrono cumulativamente, la pratica è considerata ingannevole e, pertanto, deve essere vietata.
Una pratica commerciale è scorretta se risulta idonea ad indurre ad una decisione di carattere commerciale che il consumatore “medio”, cioè quello “normalmente informato e ragionevolmente avveduto”, avrebbe altrimenti potuto non prendere, tenuto conto delle caratteristiche del mercato in cui opera le proprie scelte, risultando con ciò violato il prioritario onere di diligenza gravante sul professionista. La fattispecie si concreta, in particolare, quando il contenuto del messaggio che pubblicizza il prodotto in offerta è idoneo a falsare le ordinarie scelte del consumatore con riguardo alle caratteristiche principali del prodotto nonché riguardo al suo prezzo per come è calcolato, all’omissione di informazioni rilevanti ovvero alla loro presentazione poco chiara o non esaustiva oppure alla incertezza sulla garanzia del prezzo offerto o alla descrizione del prodotto come gratuito pur gravando sul consumatore altri oneri (cfr. ad es. Consiglio di Stato, sez. VI, 4/3/2013, n. 1259).
In definitiva, anche in termini di chiave di lettura delle diverse ipotesi, va ribadito che scopo della normativa è dunque quello di ricondurre l’attività commerciale in generale entro i binari della buona fede e della correttezza. Il fondamento dell’intervento è duplice: da un lato, esso si ispira ad una rinnovata lettura della garanzia costituzionale della libertà contrattuale, la cui piena esplicazione si ritiene presupponga un contesto di piena “bilateralità “, dall’altro, in termini analisi economica, la trasparenza del mercato è idonea ad innescare un controllo decentrato sulle condotte degli operatori economici inefficienti. Le politiche di tutela della concorrenza e del consumatore sono sinergicamente orientate a promuovere il benessere dell’intero sistema economico (cfr. ex multis Consiglio di Stato sez VI, n. 4110\2018).
3.2 Nel caso di specie le pratiche oggetto di contestazione hanno ad oggetto l’attività di produzione e commercio, anche a distanza, di prodotti elettronici, supporti ed accessori, strumenti ed attrezzature di precisione, computer e periferiche, apparecchi fotografici e televisivi, svolta dalla società appellante in qualità di professionista, ai sensi e per gli effetti del codice del consumo.
In particolare, alla luce dell’istruttoria compiuta in seguito al ricevimento di alcune segnalazioni e attraverso proprie rilevazioni d’ufficio, l’Autorità accertava che le informazioni fornite dall’odierna appellante, sul proprio sito internet e sulla documentazione data a corredo dei prodotti, riferendosi quasi esclusivamente alla garanzia del prodotto da eventuali difetti di materiale o di fabbricazione per la durata di un solo anno a partire dalla data originale di acquisto e con diverse limitazioni, con solo un generico e confuso richiamo alle permanenza dei diritti spettanti in base alle leggi nazionali applicabili, erano idonee a creare confusione tra la garanzia convenzionale, eventualmente offerta dal produttore, e la garanzia legale di conformità della durata di due anni che il produttore è tenuto a prestare al consumatore per legge, così evitando il riconoscimento e la prestazione di quest’ultima a
favore del consumatore. Pertanto, l’Autorità riteneva che tale condotta, in quanto ambigua e omissiva e in grado di ostacolare indebitamente l’esercizio dei diritti del consumatore in modo non conforme al livello di diligenza professionale ragionevolmente esigibile, fosse lesiva delle sopra indicate disposizioni del Codice del Consumo e irrogava la sanzione amministrativa pecuniaria impugnata.
3.3 A fronte di tale inquadramento, l’appello è infondato: le prospettazioni della difesa erariale trovano rilevanti elementi di sostegno, sia in relazione alla difesa della sentenza appellata che in merito alla sussistenza degli elementi di confusione.
4. Con il primo ordine di motivi, parte appellante contesta la presunzione generica circa la capacità di indurre in errore, l’assenza dell’obbligatorietà di descrivere dettagliatamente i contenuti della garanzia legale e la chiara distinzione fra garanzia legale e convenzionale, nonché la violazione delle norme di principio rilevanti in materia.
La prospettazione è infondata, sia in relazione alla corretta ricostruzione delle contestazioni addebitate all’impresa, sia in relazione alla disciplina vigente, come sopra riassunta in generale e come applicata dall’Autorità nel caso de quo.
4.1 Dall’analisi della documentazione versata in atti emerge come le informazioni veicolate con il materiale contrattuale e pubblicitario utilizzato anche attraverso le confezioni dei prodotti, prospettando solo rispettivamente, garanzia So. e garanzia VAIO, pubblicizzata come fruibile entro un anno dalla data di acquisto del prodotto, risultassero idonee a ingenerare confusione nel consumatore, in quanto non specificavano in alcun modo quale fosse la natura di tale garanzia, non consentendo di comprendere se le indicazioni si riferivano alla garanzia legale e/o convenzionale.
Inoltre, le indicazioni con cui si avvertiva che “Le leggi nazionali applicabili concedono agli acquirenti diritti legali (statutari) relativamente alla vendita di prodotti di consumo. La presente garanzia non pregiudica i diritti dell’acquirente stabiliti dalle leggi vigenti, né i diritti che non possono essere esclusi o limitati, né i diritti del cliente nei confronti del rivenditore. Il cliente potrà decidere di far valere i diritti spettanti a propria esclusiva discrezione”, sono state motivatamente ritenute dall’Autorità – e poi dal Tar – non sufficienti a chiarire ai consumatori che la garanzia pubblicizzata era una garanzia aggiuntiva rispetto a quella già operante ex lege.
In proposito, assumeva specifico rilievo il richiamo al sito internet www.So..it che, nella pagina titolata “Garanzia Termini e condizioni della garanzia So.” riportava: “So. garantisce il prodotto da eventuali difetti di materiale o di fabbricazione per la durata di un anno e partire dalla data originale di acquisto (…) La presente garanzia non copre i costi ed i rischi associati al trasporto del vostro prodotto a So. o al laboratorio del centro di assistenza e viceversa”, senza indicare, chiarie e specificare se si trattasse di garanzia convenzionale o garanzia legale.
Orbene, le formulazioni riportate appaiono, sia in sé sia nel loro combinato disposto, prima facie pienamente idonee a trarre in inganno e creare confusione in un consumatore medio, individuato nei termini di principio sopra richiamati, in specie in merito alla consistenza ai tempi ed alle modalità di esercizio della garanzia, senza precisare la concorrenza delle due tipologia di garanzia, legale e convenzionale.
Il ruolo preminente della garanzia fa sì che, come correttamente evidenziato anche dalla sentenza appellata, si sia in presenza di una violazione “tipica” delle norme poste a tutela del consumatore: il professionista, infatti, tramite messaggi incompleti e prassi non univoche circa le condizioni di garanzia offerte, induceva in confusione il consumatore in ordine alla sussistenza e alla durata della garanzia spettante per legge, rispetto a quella autonomamente offerta dal venditore. Anche a cagione del periodo ben inferiore della garanzia convenzionale (12 mesi, cioè la metà ), non a caso in seguito elevata alla soglia legale di due anni (24 mesi). La confusione appare evidente anche in termini logici, laddove generalmente le garanzie convenzionali mirano ad estendere quelle legali, proprio per il fatto che queste ultime costituiscono una base ineludibile a tutela del consumatore.
È pertanto pienamente condivisibile l’applicazione in materia dei principi richiesti in termini di necessaria chiarezza informativa del consumatore.
4.2 In linea di continuità con la giurisprudenza anche della sezione (cfr. ad es. sentenza n. 5250\2015 e Corte di Cassazione, Sezioni Unite, n. 794 del 2009), va ricordato come sia lo stesso Codice del Consumo (art. 2, comma 2) ad includere, tra i principi fondamentali della disciplina codicistica, il diritto dei consumatori ad essere correttamente informati, stabilendo espressamente la citata disposizione che i consumatori hanno diritto ad “un’adeguata informazione e ad una corretta pubblicità ” ed ancora al punto e) “alla correttezza, alla trasparenza ed all’equità nei rapporti contrattuali”.
Inoltre, più nel dettaglio l’art. 5, comma 3, prevede che “le informazioni al consumatore, da chiunque provengano, devono essere adeguate alla tecnica di comunicazione impiegata ed espresse in modo chiaro e comprensibile, tenuto conto anche delle modalità di conclusione del contratto o delle caratteristiche del settore, tali da assicurare la consapevolezza del consumatore”.
Pertanto, l’ingannevolezza di una pratica, riguardata sotto lo specifico profilo dell’omissione informativa, non discende solo dalla mancata allegazione di informazioni rilevanti, ma anche dalle modalità grafiche ed espressive con cui gli elementi del prodotto vengono rappresentati, dalle espressioni testuali, dalle stesse modalità di presentazione del prodotto e dalle scelte in ordine all’enfatizzazione di alcuni degli elementi.
Ai fini del riscontro di eventuali profili di scorrettezza delle informazioni, il contenuto e le modalità di rappresentazione del prodotto vanno quindi rapportate agli standard di chiarezza, completezza e percepibilità degli elementi rilevanti del bene oggetto di vendita, la cui conoscenza appaia indispensabile per una scelta commerciale consapevole. Al fine di evitare che i consumatori siano indotti in errore nella formulazione dell’offerta di vendita devono quindi essere messe in atto tutte quelle accortezze utili al predetto scopo, nella considerazione che la rappresentazione grafica e testuale dei messaggi, laddove non renda di agevole percezione talune informazioni (in quanto rese con scarsa evidenza grafica a fronte della enfatizzazione di altri elementi), ben può essere ricondotta al paradigma normativo delle pratiche commerciali scorrette, finalizzato alla tutela della libertà del consumatore di autodeterminarsi al riparo da ogni possibile influenza, anche indiretta, positiva o negativa, che possa incidere sulle sue scelte economiche.
L’onere di completezza e chiarezza informativa imposto dalla normativa di settore ai professionisti richiede, in sostanza, alla stregua del canone di diligenza, che ogni comunicazione ai consumatori rappresenti i caratteri essenziali di quanto la stessa mira a reclamizzare. Sotto tal profilo, ad integrare una pratica commerciale scorretta ai sensi del Codice del Consumo può rilevare ogni omissione informativa che, se del caso combinandosi con la enfatizzazione di taluni elementi del servizio offerto, renda non chiaramente percepibile il reale contenuto ed i termini dell’offerta o del prodotto, inducendo in tal modo in errore il consumatore e condizionandolo nell’assunzione di comportamenti economici che altrimenti non avrebbe adottato.
4.3 Risultano così prive di fondamento ed inidonee ad attenuare la portata dell’onere di diligenza gravante sul professionista, nella specie non ottemperato, i richiami di parte appellante alla disciplina dettata dal legislatore europeo e nazionale (in specie anche in relazione all’art. 133 del Codice del Consumo relativa alla garanzia convenzionale ed all’art. 6, par. 2, della Direttiva 1999/44/CE), in base alla quale sarebbe richiesto un mero riferimento alla garanzia legale, senza che la stessa debba essere illustrata nei suoi contenuti.
In proposito, va ribadito che la descrizione dei contenuti della garanzia legale nella specie, pur non essendo imposta da una specifica disposizione normativa, dovesse discendere quale corollario dal principio di completezza informativa una volta che il professionista si sia determinato ad offrire al consumatore una forma di garanzia che si sovrappone parzialmente, sul piano contenutistico, alla garanzia legale.
Sul punto il Collegio ritiene che debbano essere confermate le conclusioni cui è pervenuto il giudice di primo grado. In particolare, i giudici di prime cure hanno correttamente rilevato come costituisca una violazione tipica delle norme poste a tutela del consumatore il comportamento del professionista che, tramite messaggi incompleti e prassi non univoche e prive della necessaria chiarezza informativa, sia in grado di indurre in errore il consumatore in ordine alla sussistenza, alla durata della garanzia, inducendolo ad acquisire servizi di garanzia convenzionale corrispondenti o addirittura inferiori a quella spettante già ex lege.
Pertanto, il contestato obbligo di diligenza, in termini di chiarezza informativa sulle garanzie spettanti, non si traduce comunque nell’imposizione al professionista di un “indebito onere informativo ulteriore”, alla luce del complessivo contesto informativo, in base al quale ai consumatori devono essere fornite informazioni adeguate per poter apprezzare la convenienza dei servizi aggiuntivi rispetto alla garanzia legale. Pertanto i professionisti devono esporre in modo chiaro, comprensibile e tempestivo le informazioni rilevanti di cui i consumatori hanno bisogno per fare una scelta informata e non possono indurli in errore sull’assistenza post-vendita, sul diritto di sostituzione o riparazione ai sensi della direttiva 1999/44/CE e sui diritti aggiuntivi offerti a un costo aggiuntivo
Tali considerazioni si basano sul dettato della stessa direttiva appena citata che, al considerando 21, impone la dichiarazione che la garanzia convenzionale lascia impregiudicati i diritti del consumatore previsti dalla legge al fine di evitare che lo stesso sia indotto in errore.
4.4 Nel caso di specie, l’oggetto di contestazione, la cui sussistenza trova piena conferma dall’analisi degli atti, è la confusione che la formulazione ambigua delle condizioni applicate dal professionista è in grado di ingenerare su di un consumatore medio, sia per la commistione che le stesse creano (e non il provvedimento, come erroneamente dedotto da parte appellante) fra garanzia legale e convenzionale, sia per il conseguente ostacolo che tale comportamento oppone all’esercizio delle tutele spettanti agli acquirenti.
Sul punto è parimenti irrilevante l’invocata limitazione numerica dei casi di lesione accertati o rilevati, trattandosi di un illecito di pericolo, che non richiede per la sua configurazione l’attualità di una lesione agli interessi dei consumatori, quanto, piuttosto, che una pratica sia idonea a produrla. Il bene giuridico tutelato, infatti, è soltanto indirettamente la sfera patrimoniale del consumatore: in via immediata, attraverso la libertà di scelta si vuole salvaguardare il corretto funzionamento del mercato concorrenziale
In linea generale la giurisprudenza della sezione ha già avuto più volte modo di ricordare come il carattere ingannevole della pratica commerciale deve essere valutato a prescindere dall’esito concretamente lesivo prodotto dalla condotta del professionista. La ratio della disciplina in materia è infatti quella di salvaguardare la libertà di autodeterminazione del destinatario di un messaggio promozionale da ogni erronea interferenza che possa, anche solo in via teorica, incidere sulle sue scelte e sui riflessi economici delle stesse fin dal primo contatto pubblicitario, imponendo, dunque, all’operatore un preciso onere di chiarezza nella redazione della propria comunicazione d’impresa.
Né l’idoneità ingannatoria di un messaggio può essere esclusa neppure dalla circostanza secondo la quale il pubblico è posto nella condizione di apprendere ulteriori informazioni in un momento successivo alla lettura del messaggio, posto che il fine promozionale si realizza esclusivamente attraverso il messaggio, il quale esaurisce la sua funzione nell’indurre il destinatario a rivolgersi all’operatore.
5. Parimenti infondato è il secondo ordine di rilievi, dedotti avverso la quantificazione della sanzione.
5.1 In linea generale, i parametri di riferimento individuati dall’art. 11 legge n. 689 del 1981, in virtù del richiamo previsto all’articolo 27, comma 13, d.lgs. n. 206 del 2005, sono: la gravità della violazione, l’opera svolta dall’impresa per eliminare o attenuare l’infrazione, la personalità dell’agente nonché le condizioni economiche dell’impresa stessa, ovvero la dimensione economica del professionista (al duplice fine di garantire l’adeguatezza e la proporzionalità della sanzione e di apprezzare compiutamente la valenza potenzialmente lesiva della condotta per i consumatori).
Avuto riguardo poi alla cornice edittale l’art. 27, comma 9, del codice del consumo, prevede che: “con il provvedimento che vieta la pratica commerciale scorretta, l’Autorità dispone, inoltre, l’applicazione di una sanzione amministrativa pecuniaria da 5.000,00 euro a 5.000.000 euro, tenuto conto della gravità e della durata della violazione”.
5.2 Nel caso di specie, se per un verso risulta assente qualsiasi elemento di travisamento o manifesta irrazionalità, in merito al corretto utilizzo dei parametri normativi, per un altro verso le sanzioni ingiunte appaiono proporzionate.
A quest’ultimo riguardo va evidenziato il fatto che la misura applicata, pari ad un decimo del massimo edittale, appare del tutto proporzionata e non viziata negli invocati termini di eccesso, non tanto e non solo rispetto al fatturato dell’impresa quanto, in termini preminenti e dirimenti, alla gravità della condotta contestata in relazione ad un oggetto di primaria rilevanza per il consumatore, acquirente di beni elettronici di consumo, la garanzia.
Gli importi appaiono altresì congruenti alla luce dei parametri di quantificazione individuati: nella gravità della violazione, tenuto conto dell’ampia diffusione dei messaggi pubblicitari e della elevata capacità di raggiungere un numero elevato di consumatori, nonché della rilevanza della garanzia a tutela del consumatore; nell’importanza del professionista, trattandosi di uno dei principali operatori del settore; nella pluralità dei profili di ambiguità rilevati; nell’ampia diffusione dei messaggi contestati, anche tramite internet. Corretto appare altresì, alla stregua dell’art. 15 della legge n. 287 del 1990, il riferimento ai ricavi anziché agli utili (cfr. in termini Consiglio di Stato sez. VI n. 4110\2018).
6. Le spese di lite, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
Sezione Sesta, definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge.
Condanna parte appellante al pagamento delle spese di lite in favore di parte appellata, liquidate in complessivi euro 3.000,00 (tremila\00), oltre accessori dovuti per legge.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 16 maggio 2019 con l’intervento dei magistrati:
Sergio Santoro – Presidente
Vincenzo Lopilato – Consigliere
Francesco Mele – Consigliere
Oreste Mario Caputo – Consigliere
Davide Ponte – Consigliere, Estensore

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