Quando l’Amministrazione rinnova l’esercizio delle sue funzioni dopo l’annullamento di un atto operato dal giudice amministrativo

Consiglio di Stato, sezione quarta, Sentenza 10 luglio 2019, n. 4822.

La massima estrapolata:

Quando l’Amministrazione rinnova l’esercizio delle sue funzioni dopo l’annullamento di un atto operato dal giudice amministrativo, l’interessato che si duole anche delle nuove conclusioni raggiunte dall’amministrazione può proporre un unico giudizio davanti al giudice dell’ottemperanza lamentando la violazione o elusione del giudicato ovvero la presenza di nuovi vizi di legittimità nella rinnovata determinazione; il giudice dell’ottemperanza è quindi chiamato, in primo luogo, a qualificare le domande prospettate, distinguendo quelle attinenti propriamente all’ottemperanza da quelle che invece hanno a che fare con il prosieguo dell’azione amministrativa, traendone le necessarie conseguenze quanto al rito ed ai poteri decisori; nel caso in cui il giudice dell’ottemperanza ritenga che il nuovo provvedimento emanato dall’amministrazione costituisca violazione ovvero elusione del giudicato, ne dichiara la nullità, con la conseguente improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse della seconda domanda, quella cioè volta a sollecitare un giudizio sulla illegittimità dell’atto gravato. Viceversa, in caso di rigetto della domanda di nullità, il giudice dispone la conversione dell’azione per la riassunzione del giudizio innanzi al giudice competente per la cognizione, ai sensi dell’art. 32, comma 2, del c.p., ove ne sussistano i presupposti processuali.

Sentenza 10 luglio 2019, n. 4822

Data udienza 12 dicembre 2017

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Quarta
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 5349 del 2016, proposto dalla Signora An. Co., rappresentato e difeso dagli avvocati Pa. Pi., Al. Ro., Ra. Bi., domiciliata ex lege in Roma, (…);
contro
Comune di (omissis), in persona del legale rappresentante pro tempore rappresentato e difeso dagli avvocati Gi. Di Ma., El. Di Ma., domiciliato presso la Segreteria della Sezione del Consiglio di Stato in Roma, piazza (…);
nei confronti
Società Ma. Co. in persona del legale rappresentante pro tempore rappresentato e difeso dagli avvocati Ru. Tu., Lu. Fi. Lo., con domicilio eletto presso lo studio Lu. Lo. in Roma, piazza (…);
per la riforma della sentenza del T.A.R. per la LOMBARDIA – Sede di MILANO – SEZIONE II, n. 676/2016, resa tra le parti, concernente il ricorso per la ottemperanza alla sentenza n. 301/2010 del T.A.R. per la LOMBARDIA -Sede MILANO- SEZIONE II sezione confermata dal Consiglio di Stato, Sez. IV, con la sentenza n. 999/2014.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio del Comune di (omissis) e della società Ma. Co.;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 7 febbraio 2019 il consigliere Fabio Taormina e uditi per le parti gli avvocati Fe. Ma. su delega di Pa. Pi., El. su delega dichiarata di Gi. Di Ma. e Mu. su delega dichiarata di Ru. Tu.;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO

1. L’odierno giudizio trae origine dall’iniziativa giurisdizionale spiegata dinanzi al TAR per la Lombardia dalla Sig.ra An. Co., la quale ivi invocava:
a) l’ottemperanza della sentenza del TAR per la Lombardia di Milano n. 301/2010, confermata dalla sentenza del Consiglio di Stato n. 999/2014;
b) nonché con ricorso per motivi aggiunti e con ricorso autonomo, entrambi riuniti, l’annullamento del provvedimento prot. 9593/2014 comunicato il 5 gennaio 2015 con il quale il Comune di (omissis) aveva rilasciato alla Ma. Co. S.r.l. il permesso di costruire in sanatoria ex art. 38 TU edilizia confermando il permesso di costruire n. 3218/2007 annullato in sede giurisdizionale;
c) la condanna del Comune di (omissis) a ordinare la riduzione in pristino e la demolizione del citato fabbricato con diffida ad adempiere nei termini di legge della Ma. Co. s.r.l. alla riduzione in pristino e alla demolizione del citato fabbricato, nei limiti degli abusi accertati dal TAR.
2. Il primo giudice in relazione alla domanda di ottemperanza, prendeva atto che la citata sentenza n. 301/2010 del TAR per la Lombardia con l’annullare il permesso di costruire n. 3128/2007, rilasciato dal Comune resistente alla società Ma., non aveva altresì disposto la demolizione di quanto realizzato, ma aveva indicato al Comune l’esatto criterio di calcolo (dal marciapiede o dalla sede stradale + 0,15), con conseguente dovere del Comune stesso di procedere alla nuova misurazione dell’altezza. Lo stesso giudice di prime cure quanto al computo corretto della volumetria autorizzata, rilevava che la società aveva presentato una denuncia di inizio attività (DIA) – n. 31 del 23.6.2010 – di trasformazione del locale immondezzaio in un box (cfr. i documenti 6 e 7 della società ), allo scopo di escluderne la rilevanza volumetrica. Da ciò, pertanto, il TAR faceva discendere che la condotta del Comune non poteva considerarsi violativa od elusiva del giudicato. In definitiva, il titolo edilizio era stato caducato esclusivamente per l’errore del Comune nel calcolo di due parametri edilizi (altezza e volumetria), senza però né imporre espressamente la demolizione quale unica conseguenza dell’annullamento e senza rilevare motivi comunque ostativi alla costruzione, quali ad esempio la non edificabilità dell’area o l’insussistenza dei presupposti per il rilascio del titolo.
Dichiarato improcedibile il ricorso per ottemperanza ed il ricorso per motivi aggiunti proposto contro l’atto comunale prot. 9593/2014 – quest’ultimo in quanto il provvedimento impugnato era già stato gravato con autonomo ricorso – il primo giudice non procedeva ad esaminare le censure di legittimità ivi contenute, valutando fondata l’eccezione di improcedibilità spiegata dall’amministrazione. Al riguardo, infatti, il giudice di prime cure rilevava l’adozione del successivo provvedimento comunale prot. 1579/10/8 del 20 febbraio 2015 confermativo di quello impugnato a seguito di nuova istruttoria, impugnato dall’originaria ricorrente con ricorso straordinario al Capo dello Stato, sicché concludeva per l’improcedibilità anche di questo ricorso.
3. Avverso la pronuncia indicata in epigrafe propone appello l’originaria ricorrente, lamentando che:
a) il TAR avrebbe errato nel non rilevare che l’annullamento giurisdizionale del permesso di costruire n. 3128/2007 per motivi sostanziali, quali il corretto computo dell’altezza e della volumetria, impedirebbe l’applicazione dell’art. 38, d.P.R. n. 380/2001, se non in caso di emenda dei vizi riscontrati in sede giurisdizionale.
Diversamente opinando, si offrirebbe una lettura incostituzionale della norma, perché violativa del principio di separazione dei poteri, consentendosi all’amministrazione di invadere il campo riservato alla giurisdizione. Pertanto, nella fattispecie non sussistendo la cd. doppia conformità l’amministrazione comunale non avrebbe potuto adottare un provvedimento in sanatoria ex art. 38, d.P.R. n. 380/2001, ma avrebbe dovuto procedere alla demolizione del manufatto; b) il giudicato di cui viene invocata l’esecuzione non avrebbe accertato un mero errore tecnico o di calcolo nella misurazione dell’altezza, ma il criterio stesso con il quale effettuare la misurazione. Quindi, in ossequio alle previsione dell’art. 8 NTA si sarebbe dovuti partire nella misurazione dalla strada e dal tratto di strada su cui prospetta il fabbricato. Inoltre, anche la riduzione sarebbe avvenuta non considerando come prospetto più alto il superiore tra i punti di intersezione tra il piano di intradosso del piano di copertura ed i piani di tamponamento verticali, ma lo spigolo sud ovest dell’edificio preso da un punto rispetto al quale l’edificio in questione “non prospetta” e ad una quota superiore rispetto alla quota stradale fronte prospetto. Inoltre, l’amministrazione nonostante il vertice della misurazione non fosse il prospetto più alto avrebbe comunque applicato la riduzione di 1 mt. prevista dal citato art. 8. L’amministrazione, inoltre, per aggirare la questione dell’altezza, avrebbe decurtato altri 0,45 mt. in ragione della prestazione energetica dell’edificio. Infine, un’ulteriore riduzione pari a 3,15mt. sarebbe stata applicata in virtù dell’esistenza di una trincea d’accesso all’autorimessa. Del pari non corretta sarebbe la verifica delle aree di disimpegno. Pertanto, l’amministrazione avrebbe consentito di recuperare 6,95 mt., al fine di riportare ugualmente l’altezza dell’immobile al di sotto della quota limite dei 10,50 mt. consentiti. Ancora la conformità rispetto alla disciplina attuale è stata erroneamente ritenuta dall’amministrazione, che non ha considerato che al luglio 2009, tempo di adozione delle nuove NTA, i lavori di riempimento del terreno non sarebbero stati ancora realizzati. Pertanto, il riferimento per la misurazione sarebbe dovuto essere l’originario piano di calpestio e non il terreno riportato; c) la sentenza di primo grado sarebbe errata per non avere ritenuto elusivi del giudicato i provvedimenti comunali laddove non aggiungono alla volumetria dell’edificio anche quella relativa al locale immondezzaio, ai terrazzi al secondo piano e ai locali sottotetto; d) erronea sarebbe ancora la declaratoria di improcedibilità del primo giudice in ragione dell’adozione dell’atto del 20 febbraio 2015, impugnato solo tardivamente a mezzo di ricorso straordinario al Capo dello Stato, poiché quest’ultimo sarebbe una mera relazione tecnica e non avrebbe valenza di nuovo provvedimento, quanto piuttosto un atto processuale, poiché prodotto in seno al giudizio di ottemperanza e meramente confermativo del provvedimento prot. 9593/2014, che non vedrebbe alla base una nuova istruttoria o una nuova valutazione discrezionale. In ragione di ciò l’appellante ripropone i motivi non esaminati dal TAR.
In via istruttoria l’appellante ha chiesto l’esibizione: I) della tavola n. 3 del 17 dicembre 2013; II) del progetto presentato dall’appellata per ottenere la sanatoria; III) l’integrale copia della tavola 6 di verifica volumetrica dell’edificio prodotto con l’allegato n. 8 dell’appellata. Inoltre, avanza istanza di verificazione o di CTU, al fine di accertare seconde le vecchie e nuove norme di PRG la corretta altezza, la volumetria del fabbricato e la SLP effettivamente costruita, accertandone la doppia conformità alla disciplina vigente e previgente.
4. In vista della camera di consiglio del giorno 12 dicembre 2017 tutte le parti hanno depositato memorie difensive e repliche puntualizzando le rispettive eccezioni e deduzioni.
5. Alla camera di consiglio del giorno 12 dicembre 2017 la Sezione ha emesso l’ordinanza collegiale n. 1911 del 27 marzo 2018 (da intendersi integralmente richiamata e trascritta nel presente elaborato) nell’ambito della quale ha:
a) puntualizzato che la pronuncia di questo Consiglio n. 999/2014 – nel confermare la sentenza del TAR per la Lombardia n. 301/2010 – ha rilevato che il permesso di costruire n. 3194 del 2 luglio 2007, rilasciato alla Società Ma. Co. per la realizzazione di un edificio residenziale di n. (omissis) alloggi e 6 autorimesse in via (omissis) dell’anzidetto Comune, in zona urbanisticamente classificata come residenziale (omissis), avrebbe dovuto essere rilasciato solo previa verifica dell’eventuale osservanza dei seguenti parametri:
a) l’altezza massima consentita doveva essere calcolata secondo il criterio che prevede come punto di partenza per il computo de quo il marciapiede e/o la stessa sede strada in omaggio all’allora vigente art. 8 NTA del PRG; b) sempre secondo il citato art. 8 la verifica del calcolo della volumetria autorizzata andava operata computando nella volumetria assentibile il c.d. locale immondezzaio posto al piano interrato, i terrazzi al secondo piano e i locali del sottotetto;
b) affermato il convincimento per cui la causa non fosse matura per la decisione di merito, e che – al fine di accertare se i provvedimenti denunciati di essere elusivi del giudicato avessero rispettato i vincoli sanciti dal giudicato della cui ottemperanza si discute- fosse necessario disporre una verificazione;
c) affidato all’organismo verificatore la risoluzione del seguente quesito: “accerti l’organismo verificatore se, il provvedimento prot. 9593/2014 comunicato il 5.1.2015 con il quale il Comune di (omissis) ha rilasciato alla Ma. Co. S.r.l. permesso di costruire in sanatoria ex art. 38 d.P.R. n. 380/2001, rispetti le indicazioni contenute nella pronuncia del Consiglio di Stato n. 999/2014, indicate supra al punto n. 4” nominando il Direttore del Dipartimento di Ingegneria Civile del Politecnico di Torino o persona da questi responsabilmente delegata, stabilendo la tempistica delle operazioni di verificazione e rinviando per la trattazione all’udienza del 27 settembre 2018.
6. Con la ordinanza collegiale n. 3308/2018 resa alla camera di consiglio del giorno 31 maggio 2018 è stata accordata una proroga delle operazioni di verificazione e disposto il differimento del termine per poter presentare osservazioni alla relazione del verificatore.
7. Con la ordinanza collegiale n. 5687/2018 resa alla camera di consiglio del giorno 20 settembre 2018 è stata accordata una ulteriore proroga delle operazioni di verificazione e ribadita la sequenza dei termini intermedi di cui alla ordinanza collegiale n. 1911 del 27.3.2018 (aumentandosi però a giorni 15 i termini intermedi concessi alle difese al fine di controdedurre) e l’udienza di definizione del merito della causa è stata fissata per la data del 7 febbraio 2019.
8. In data 3 gennaio 2019 è stato depositato l’elaborato di verificazione, unitamente alle controdeduzioni elaborate dai consulenti tecnici di parte; all’elaborato di verificazione sono state altresì allegate le “deduzioni” del verificatore alle osservazioni depositate dai consulenti tecnici di parte.
9. In vista della odierna pubblica udienza del 7 febbraio 2019 tutte le parti processuali hanno depositato memorie e repliche, ribadendo le relative, contrapposte, deduzioni e conclusioni.
10. Alla odierna pubblica udienza del 7 febbraio 2019 la causa è stata trattenuta in decisione.

DIRITTO

1. L’appello è parzialmente fondato e va accolto, nei sensi di cui alla motivazione che segue, con conseguente declaratoria di nullità per violazione del giudicato del provvedimento prot. 9593/2014 con il quale il Comune di (omissis) aveva rilasciato alla Ma. Co. S.r.l. il permesso di costruire in sanatoria ex art. 38 TU edilizia confermando il permesso di costruire n. 3218/2007 annullato in sede giurisdizionale. Deve invece essere disattesa, nei sensi chiariti nella motivazione che segue, la ulteriore domanda articolata dall’appellante volta ad ottenere la immediata condanna del Comune di (omissis) alla emanazione della ordinanza di riduzione in pristino e di demolizione del fabbricato.
2. Seguendo la tassonomia propria delle questioni (secondo le coordinate ermeneutiche dettate dall’Adunanza plenaria n. 5 del 2015), si fa presente che a mente del combinato disposto degli artt. artt. 91, 92 e 101, co. 1, c.p.a., il Collegio farà esclusivo riferimento alle censure poste a sostegno del ricorso in appello e già proposte in primo grado (senza tenere conto di motivi “nuovi” e ulteriori censure sviluppate nelle memorie difensive successivamente depositate, in quanto intempestive, violative del principio di tassatività dei mezzi di impugnazione e della natura puramente illustrativa delle comparse conclusionali- cfr. ex plurimis Cons. Stato Sez. V, n. 5865 del 2015).
2.1. Al fine di definire il thema decidendi, va premesso che, in chiave di risoluzione di una serie di eccezioni preliminari prospettate dalle parti, la ricostruzione fattuale ed anche cronologica -e giuridica- della vicenda processuale, necessita di alcune puntualizzazioni:
a) nel giudizio di merito, in primo grado, la odierna appellante aveva dapprima impugnato il primo permesso di costruire a favore della Società Ma. Co. rilasciato, nel corso del 2007, n. 3194/2007, (ricorso n. 2577/2007) e poi aveva impugnato il permesso di costruire n. 3218 del 3.1.2008 rilasciato dopo la presentazione da parte della appellata società di una variante essenziale (ricorso n. 932 del 2008);
b) il ricorso n. 2577/2007 è stato dichiarato perento (decreto n. 1694/2013), mentre sul ricorso n. 932 del 2008 è intervenuta la sentenza del Ta.r. n. 301/2010;
c) detta sentenza n. 301/2010 (resa a seguito di verificazione) ha annullato il permesso di costruire n. 3218/07 del 3 gennaio 2008;
d) l’appello proposto dalla società Ma. Co. s.r.l. (r.g.n. 1297/2010) avverso la sentenza del Ta.r. n. 301/2010 è stato respinto con la sentenza di questa Sezione n. 999/2014: detta decisione ha altresì respinto l’appello “incidentale” proposto dal Comune di (omissis).
2.2. Per ottenere la conformazione al giudicato formatosi, la odierna appellante aveva proposto un primo ricorso al T.a.r. (n 1897 del 2014) censurando l’inerzia del comune di (omissis) nell’adottare i provvedimenti consequenziali alle sentenze suindicate; nel corso del predetto giudizio il comune ha adottato le proprie determinazioni, ed ha quindi reso il provvedimento prot. 9593/2014 a firma del Responsabile del Servizio Urbanistica, adottato ai sensi dell’art. 38 del dPR 380/2001, che ha “confermato” il permesso di costruire n. 3218/2007: il provvedimento prot. 9593/2014 è stato impugnato dalla odierna appellante, sia con motivi aggiunti depositati il 3.3.2015 che con autonomo ricorso n. 607 del 2015 chiedendo altresì la condanna del Comune di (omissis) ad ordinare la riduzione in pristino e la demolizione del citato fabbricato con diffida ad adempiere nei termini di legge e della Società Ma. Co. ad effettuare la demolizione dell’immobile.
2.3. Con la sentenza impugnata il T.a.r ha riunito detti giudizi ed ha sostenuto che:
a) il giudicato formatosi, sulla sentenza del Ta.r. n. 301/2010 confermato dalla sentenza di questa Sezione del Consiglio di Stato n. 999/2014 né ordinava la demolizione, né poteva essere inteso implicitamente come dispositivo di tale obbligata conseguenza: ciò in quanto il titolo edilizio era stato annullato esclusivamente per l’errore del Comune nel calcolo di due parametri edilizi (altezza e volumetria), senza però né imporre espressamente la demolizione quale unica conseguenza dell’annullamento e senza rilevare motivi comunque ostativi alla costruzione, quali ad esempio la non edificabilità dell’area o l’insussistenza dei presupposti per il rilascio del titolo;
b) l’originario ricorso per ottemperanza dovesse reputarsi improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse all’impugnazione, giacché dopo la sua proposizione era intervenuto il provvedimento comunale e perché il giudicato formatosi non precludeva l’adozione di iniziative diverse dall’emanazione di un ordine di demolizione, giusta la previsione dell’art. 38 del dPR 380/2001;
c) anche il riunito ricorso r.g.n. 607 del 2015 ed i motivi aggiunti afferenti al ricorso r.g.n. 1897/2014 dovevano dichiararsi improcedibili: ciò in quanto il provvedimento ivi impugnato prot. 9593/2014 a firma del Responsabile del Servizio Urbanistica, adottato ai sensi dell’art. 38 del DPR 380/2001, che aveva “confermato” il permesso di costruire n. 3218/2007 era stato successivamente “superato” dal provvedimento comunale prot. 1579/10/8 del 20.2.2015;
d) detto provvedimento comunale prot. 1579/10/8 del 20.2.2015 non era stato impugnato con motivi aggiunti, costituiva un atto amministrativo confermativo di quello già impugnato, redatto al termine di una rinnovata istruttoria, (era stato adottato a seguito della relazione tecnica presentata per conto della originaria ricorrente dal tecnico di quest’ultima, ing. Ma.) e la stessa originaria ricorrente, forse consapevole della lesività del citato provvedimento comunale, lo aveva impugnato con ricorso straordinario al Presidente della Repubblica.
3. Ciò premesso, al fine di sgombrare il campo da alcune eccezioni palesemente infondate e tenuto conto della circostanza che tutte le parti hanno proceduto ad una prolissa reiterazione di argomenti critici introducendo elementi in grado di produrre effetti confusori, vanno innanzi tutto chiariti taluni profili in punto di ammissibilità dell’appello.
3.1. Ritiene il Collegio di dovere ribadire che:
a) il potere della qualificazione delle censure pertiene al giudice (Consiglio di Stato, sez. V, 20/12/2013, n. 6114 “il giudice, nell’offrire risposta alle richieste sottoposte alla sua attenzione, non può andare oltre rispetto ai fatti che le parti introducono nel giudizio, ma può e deve procedere ad una loro corretta qualificazione giuridica in omaggio al principio statuito dall’art. 113 c.p.c.; in particolare, nel caso di domanda di annullamento, è tenuto a valutare la legittimità degli atti secondo le censure proposte in fatto dal ricorrente, ma secondo la ricostruzione giuridica ritenuta rispondente all’ordinamento giuridico e, in questo senso, non è tenuto ad una puntuale confutazione delle argomentazioni giuridiche portate dal ricorrente laddove le stesse vengano superate dalla diversa qualificazione giuridica assegnata ai dati fattuali confluiti in giudizio.”);
b) tenuto conto del superiore principio, l’atto di appello risulta integralmente ammissibile, in quanto a più riprese l’appellante si è doluta della circostanza che il Tar avesse sostenuto che il provvedimento comunale prot. 1579/10/8 del 20.2.2015 integrasse atto confermativo necessitante di autonoma impugnazione;
c) non ritiene quindi il Collegio che vi siano capi della sentenza del T.a.r. n. 676/2016 rimasti inimpugnati, e men che meno che vi siano profili preclusivi ad una declaratoria di piena ammissibilità dell’atto di appello nel suo complesso (il che non esclude, naturalmente che verrà valutata singolarmente l’ammissibilità delle singole censure proposte).
3.1.1. L’appello – che, per quanto si è chiarito, considerato nel suo complesso, è ammissibile – censura anzitutto la declaratoria di improcedibilità del ricorso di primo grado n. r.g. 1897/2014.
3.2. La statuizione del T.a.r., sul punto non è perspicua (probabilmente per un eccesso di sintesi).
Infatti, tenuto conto che il detto ricorso introduttivo censurava l’inerzia nel provvedere, e che medio tempore era stato comunque emanato un provvedimento (il che aveva fatto cessare l’inerzia) avverso il quale sono state veicolate ulteriori censure, il Tar si sarebbe dovuto limitare a dichiarare improcedibile il ricorso introduttivo del giudizio di ottemperanza unicamente per tale ragione.
Il Tar, invece, ha ritenuto di dovere aggiungere il seguente inciso:” il provvedimento del Comune conclusivo del procedimento di esecuzione della sentenza, ovviamente censurabile per vizi propri, non può però reputarsi di per sé elusivo del giudicato amministrativo” che introduce un elemento distonico, con una affermazione/anticipazione del giudizio che correttamente è stata censurata dall’appellante.
Il principio di diritto è infatti quello per cui, laddove si lamenti l’inerzia nell’ottemperare al giudicato, e a detta inerzia sopravvenga un provvedimento adempitivo, il “fuoco” della contestazione si sposta su quest’ultimo, (sia che se ne deduca la nullità per elusività /violazione del giudicato, che la “semplice” illegittimità ) mentre il ricorso avverso l’inerzia diviene improcedibile.
In questi limiti, la statuizione della sentenza di prime cure è corretta, e va confermata: ma soltanto in questi limiti; non si può invece ritenere che, a cagione della circostanza che un provvedimento sia comunque sopravvenuto, quest’ultimo non possa essere a sua volta censurato per intrinseca elusività .
E tenuto conto della circostanza che avverso detto provvedimento sopravvenuto la parte odierna appellante aveva proposto due ricorsi (la parte odierna appellante aveva proposto avverso il sopravvenuto provvedimento di sanatoria, sia un ricorso per motivi aggiunti depositato il 3.3.2015, accessivo al ricorso principale n. 1897 del 2014 -nell’ambito del quale venivano sollevati profili di censura prospettati in chiave di nullità per violazione/elusione del giudicato – sia un autonomo ricorso n. 607 del 2015, -riunito a quello n. 1897 del 2014- nell’ambito del quale le stesse censure venivano prospettate in chiave di “semplice” illegittimità ) tale inciso della motivazione si appalesa errato e va rimosso.
La motivazione della sentenza di prime cure va pertanto corretta in questi termini, quanto alla dichiarata improcedibilità del ricorso introduttivo del giudizio 1897 del 2014 (statuizione, questa, che va comunque confermata, seppure con differente motivazione).
3.2.1. Anche la statuizione di improcedibilità dei motivi aggiunti veicolati all’interno del ricorso n. r.g. 1897/2014 si sorregge e giustifica da parte del T.a.r. con una doppia motivazione (“in quanto il provvedimento comunale con gli stessi gravato, è stato oggetto di un rituale ricorso principale, non potendo, infatti, reputarsi il provvedimento stesso in contrasto con il giudicato amministrativo,”): essa appare al Collegio integralmente non condivisibile.
Effettivamente l’atto comunale prot. 9593/2014 impugnato con i motivi aggiunti veicolati all’interno del ricorso r.g.n. 1897/2014 era stato impugnato con l’autonomo ricorso r.g.n. 607/2015, rivolto contro il succitato atto comunale prot. 9593/2014, a sua volta riunito al ricorso n. r.g. 1897/2014; ma ciò che il T.a.r. ha trascurato di tenere in debito conto è che:
a) i motivi aggiunti accessivi al ricorso r.g.n. 1897/2014 prospettavano, soprattutto, il vizio di nullità dell’atto per violazione/elusione del giudicato;
b) l’autonomo ricorso r.g.n. 607/2015 muoveva dagli stessi “fatti storici”, ma prospettati in chiave di (meno grave) vizio di illegittimità ;
c) l’originaria ricorrente, quindi avrebbe avuto interesse a che prioritariamente venissero vagliati i motivi aggiunti, e che (ma soltanto in ipotesi di reiezione degli stessi) venisse vagliato l’autonomo ricorso r.g.n. 607/2015: l’improcedibilità dei motivi aggiunti, da qualsiasi angolo prospettico la si voglia valutare, comunque non trova giustificazione.
3.2.2. Venendo infine alla disamina della statuizione di improcedibilità del ricorso r.g.n. 607/2015 rivolto contro il succitato atto comunale prot. 9593/2014 essa è sorretta dal convincimento del T.a.r secondo cui:
a) detto atto comunale prot. 9593/2014 fosse stato “doppiato” da un atto confermativo (successivo provvedimento comunale prot. 1579/10/8 del 20.2.2015) fondato da una rinnovata istruttoria ed in quanto tale autonomamente lesivo;
b) la omessa impugnazione di tale atto all’interno del processo r.g.n. 607/2015 (con motivi aggiunti) ovvero con un autonomo ricorso, determinasse l’improcedibilità della impugnazione avverso l’atto comunale prot. 9593/2014: peraltro, ad avviso del T.a.r., la lesività (ed autonomia) di tale successivo provvedimento comunale prot. 1579/10/8 del 20 febbraio 2015 era testimoniata dalla circostanza che la parte odierna appellante aveva provveduto ad impugnarlo con ricorso straordinario.
3.3. Il Collegio ritiene anche tale capo di sentenza non persuasivo, e quindi meritevole di riforma, per più ragioni:
a) la parte odierna appellante aveva già introdotto il ricorso in ottemperanza, in cui sostanzialmente si doleva della rilasciata sanatoria, ed esso era da ritenersi esteso alle successive determinazioni conseguenziali a quest’ultimo: la peculiarità del giudizio di ottemperanza non consente di ritenere che il ricorrente sia onerato ad impugnare tutte le successive determinazioni dell’Ente volte alla conformazione del giudicato, ma al ricorrente è sufficiente introdurre una simile iniziativa, che ove accolta spiega efficacia caducante sulle successive determinazioni;
b) per altro verso, si osserva che se anche non si volesse convenire con tale tesi, tenuto conto che la proposizione dell’actio iudicati è soggetta a termine di prescrizione e non di decadenza, vi sarebbe anche da dubitare sull’interesse delle parti intimate in primo grado a sollevare detta eccezione: la parte ricorrente avrebbe potuto impugnare il “provvedimento” (in tesi non meramente confermativo) in oggetto, deducendo i vizi di violazione/elusione del giudicato nel termine decennale di prescrizione;
c) nel merito – più radicalmente, e con portata troncante- si osserva che il “provvedimento” comunale prot. 1579/10/8 del 20.2.2015, non era altro, nella sostanza, che una risposta ad osservazioni proposte dal ctp di parte (questa la intestazione: “Replica alle Osservazioni del Tecnico Ing. Ma. prot. 4602 del 11/02/2015”) e non si può ad esso attribuire portata innovativa; la circostanza che la parte odierna ricorrente in ottemperanza abbia ritenuto di impugnarlo autonomamente (e tuzioristicamente) mercè ricorso straordinario, non rileva al fine di attribuire al medesimo un effetto innovativo in realtà non posseduto (come è noto, il Giudice è l’unico soggetto deputato alla qualificazione della natura dell’atto ammnistrativo);
d) si osserva infine che la impugnazione del medesimo con ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, per quanto chiarito, non assume rilevanza preclusiva, né la avrebbe assunta di per sé, neanche ove – il che, si ribadisce, non è – il “provvedimento” ivi gravato potesse essere reputato “provvedimento innovativo autonomamente lesivo”, in quanto:
I) ai sensi degli artt. 112-114 del c.p.a. l’unico giudice competente sull’ottemperanza era, in prima battuta, il Ta.r. in sede giurisdizionale (la decisione del Consiglio di Stato, sez. IV, del 2014, n. 999 aveva integralmente confermato la sentenza di primo grado);
b) la circostanza che fosse stato presentato ricorso straordinario avverso l’atto suddetto, comunque non avrebbe potuto condizionare lo svolgimento del giudizio di ottemperanza, in quanto:
I) ove ivi fossero stati lamentati gli stessi vizi di nullità /elusività proposti in questa sede, quel ricorso straordinario sarebbe inammissibile;
II) ove ivi invece l’odierno ricorrente in ottemperanza avesse inteso prospettare – in chiave di deficit di legittimità – le medesime doglianze prospettate qual vizio di nullità, ciò comunque non avrebbe potuto determinare la inammissibilità od improponibilità del ricorso di ottemperanza: secondo l’insegnamento dell’Adunanza Plenaria, con la decisione n. 2 del 15 gennaio 2013, quando l’Amministrazione rinnova l’esercizio delle sue funzioni dopo l’annullamento di un atto operato dal giudice amministrativo, l’interessato che si duole (anche) delle nuove conclusioni raggiunte dall’amministrazione può proporre un unico giudizio davanti al giudice dell’ottemperanza lamentando la violazione o elusione del giudicato ovvero la presenza di nuovi vizi di legittimità nella rinnovata determinazione; il giudice dell’ottemperanza è quindi chiamato, in primo luogo, a qualificare le domande prospettate, distinguendo quelle attinenti propriamente all’ottemperanza da quelle che invece hanno a che fare con il prosieguo dell’azione amministrativa, traendone le necessarie conseguenze quanto al rito ed ai poteri decisori; nel caso in cui il giudice dell’ottemperanza ritenga che il nuovo provvedimento emanato dall’amministrazione costituisca violazione ovvero elusione del giudicato, ne dichiara la nullità, con la conseguente improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse della seconda domanda (quella cioè volta a sollecitare un giudizio sulla illegittimità dell’atto gravato).Viceversa, in caso di rigetto della domanda di nullità, il giudice dispone “la conversione dell’azione per la riassunzione del giudizio innanzi al giudice competente per la cognizione, ai sensi dell’art. 32, comma 2, del c.p.”. ove ne sussistano i presupposti processuali (“tale azione sia proposta non già entro il termine proprio dell’actio iudicati (dieci anni, ex art. 114, co. 1, cui rinvia l’art. 31, co. 4, cpa), bensì entro il termine di decadenza previsto dall’art. 41 cpa”);
sebbene auspicabile, la proposizione di un’unica azione non costituisce un obbligo e non produce alcuna forma di inammissibilità di alcun gravame (semmai si potrebbe fare riferimento ad una temporanea improcedibilità dell’azione intentata innanzi al T.a.r. in quanto volta a denunciare vizi di minore spessore): l’unica conseguenza che tale circostanza avrebbe potuto produrre sul giudizio di ottemperanza sarebbe stata quella per cui, ove ritenuti insussistenti i vizi di nullità denunciati, il T.a.r. – quando sia stato proposto un autonomo ricorso in sede di cognizione – non ha l’onere di disporre la conversione dell’azione per la riassunzione del giudizio innanzi al giudice competente per lo scrutinio dei -meno- gravi vizi di illegittimità denunciati.
3.4. Anche tale capo di sentenza deve essere, quindi, riformato.
4. Può a questo punto essere esaminato il merito della causa.
4.1. Per le già chiarite ragioni, occorre tenere conto di una duplice circostanza:
a) la parte odierna appellante aveva proposto avverso il sopravvenuto provvedimento di sanatoria, sia un ricorso per motivi aggiunti depositato il 3.3.2015, accessivo al ricorso principale n. 1897 del 2014 (nell’ambito del quale venivano sollevati profili di censura prospettati in chiave di nullità per violazione/elusione del giudicato) sia un autonomo ricorso n. 607 del 2015, (riunito a quello n. 1897 del 2014) nell’ambito del quale le stesse censure venivano prospettate in chiave di “semplice” illegittimità ;
b) la riforma delle statuizioni di improcedibilità contenute nella suindicata decisione implica che il Collegio debba rivisitare l’intera causa e che ciò debba avvenire seguendo l’insegnamento della fondamentale decisione dell’Adunanza Plenaria prima menzionata (id est: partendo dalla disamina dei più radicali vizi di nullità denunciati e successivamente, in ipotesi di reiezione di questi ultimi, scrutinare le censure prospettanti i – meno gravi- vizi di “semplice” illegittmiità ).
4.1.1. Ciò premesso, armonicamente con le superiori considerazioni, il primo versante di scrutinio riposa nella conformità al giudicato formatosi, del provvedimento prot. 9593/2014 a firma del Responsabile del Servizio Urbanistica, adottato ai sensi dell’art. 38 del DPR 380/2001, che ha “confermato” il permesso di costruire n. 3218/2007 annullato in sede di giudizio cognitorio.
4.1.2. A tale proposito, sempre in via preliminare, si osserva che:
a) l’elaborato di verificazione è compiuto e completo, la causa appare interamente istruita e non necessita alcun ulteriore incombente istruttorio;
b) detto elaborato è integralmente utilizzabile: per completezza, infatti, il verificatore -lodevolmente ad avviso del Collegio – ha effettuato l’indagine demandatagli anche alla luce della vigente disciplina del PGT: spetterà poi al Collegio verificare se le indicazioni ivi contenute siano tutte, ed integralmente, necessarie per la risoluzione della controversia (si tenga conto che il thema decidendi riposa nella conformità di una sanatoria ad un giudicato) ma non può essere accolta la richiesta dei consulenti della parte odierna appellante ed originaria ricorrente in ottemperanza volta ad ottenere la “espunzione” di porzioni della relazione di verificazione dal materiale cognitivo acquisito al processo;
c) tutte le insistite censure ed eccezioni concernenti l’asserita “nullità ” dell’elaborato di verificazione sono inaccoglibili, in quanto:
I) non v’è alcun difetto di contraddittorio se il verificatore compia attività (nel caso di specie, misurazioni) per proprio conto: ciò che rileva è che tali dati vengano ostesi alle parti ed ai loro consulenti, così mettendo questi ultimi in grado di confutarli (il che è regolarmente avvenuto), non potendosi intendere il concetto di “contraddittorio tra le parti” nel senso meccanicistico ed assoluto di necessità di contemporanea presente delle parti ad ogni attività posta in essere dal verificatore medesimo;
II) ove anche (il che si contesta sia giammai avvenuto) il verificatore debordi rispetto ai quesiti formulati, ovvero esprima propri convincimenti soggettivi, la “sanzione” non è certamente quella della “nullità ” dell’intera verificazione, ma, semmai, quella della inutilizzabilità di specifiche porzioni dell’elaborato.
4.2. Il “compito” affidato all’odierno giudizio (in prima battuta) è quindi, unicamente, quello di chiarire se il provvedimento conclusivo del percorso ottemperativo intrapreso dall’amministrazione, sia esatto, o meno, tenuto conto delle prescrizioni conformative contenute nella statuizioni cognitorie in precedenza citate: null’altro.
In particolare, esulano del tutto dall’odierno giudizio valutazioni su possibili ed ipotetiche, future iniziative dell’amministrazione, anticipazioni di giudizio in ordine a poteri non (ancora) esercitati (art. 34 cpa) etc; è questa infatti la natura del giudizio di ottemperanza, e tale è il sindacato affidato a questo Collegio, che, peraltro, violerebbe il principio ex art. 112 cpc ove indulgesse in considerazioni difformi dalle censure prospettate; per quanto si è prima detto, a cagione del fatto che l’appellante ha prospettato anche quale “semplice” vizio di illegittimità gli stessi fatti indicati quali manifestazioni elusive o violative del giudicato, ove venisse respinta la censura di nullità il Collegio dovrebbe poi vagliare quelle volte a sostenere la “semplice” illegittimità del provvedimento comunale prot. 9593/2014.
4.2.1.Si osserva peraltro che quanto sinora affermato, costituisce esplicitazione di quanto già condivisibilmente desumibile dalla ordinanza collegiale n. 1911 del 27 marzo 2018 n. 5687/2018 in punto di formulazione dei quesiti; ivi infatti, è rimasto già chiarito che la disposta verificazione sarebbe servita ad accertare “se i provvedimenti denunciati di essere elusivi del giudicato hanno rispettato i vincoli sanciti dal giudicato della cui ottemperanza”… (così testualmente: “accerti l’organismo verificatore se, il provvedimento prot. 9593/2014 comunicato il 5.1.2015 con il quale il Comune di (omissis) ha rilasciato alla Ma. Co. S.r.l. permesso di costruire in sanatoria ex art. 38 d.P.R. n. 380/2001, rispetti le indicazioni contenute nella pronuncia del Consiglio di Stato n. 999/2014, indicate supra al punto n. 4”).
4.3. Ciò premesso, l’elaborato di verificazione ha consentito di accertare che le indicazioni contenute nella pronuncia del Consiglio di Stato n. 999/2014 (“osservanza dei seguenti parametri: a) l’altezza massima consentita doveva essere calcolata secondo il criterio che prevede come punto di partenza per il computo de quo il marciapiede e/o la stessa sede strada in omaggio all’allora vigente art. 8 NTA del PRG; b) sempre secondo il citato art. 8 la verifica del calcolo della volumetria autorizzata andava operata computando nella volumetria assentibile il c.d. locale immondezzaio posto al piano interrato, i terrazzi al secondo piano e i locali del sottotetto.”) – con riguardo al calcolo dell’altezza massima consentita – non sono state, in realtà, rispettate dal comune di (omissis), allorchè quest’ultimo ha rilasciato alla società Ma. Co. s.r.l.il provvedimento prot. 9593/2014 comunicato il 5.1.2015 recante permesso di costruire in sanatoria ex art. 38 d.P.R. n. 380/2001.
4.3.1. Invero, risulta dall’elaborato di verificazione, che, quanto all’altezza:
a) il punto di riferimento sulla via (omissis) (tratto privato, ove non c’è il marciapiede) per verificare l’altezza massima del fabbricato, sia stato individuato assumendo quale punto di partenza per la misurazione dell’altezza massima dell’edificio il punto segnato a + 0,084 (Stazione 200) del c.d. rilievo (omissis), coincidente con la mezzeria dell’ingresso carraio (su rampa in salita, in corrispondenza della griglia di raccolta delle acque superficiali);
b) è rimasto però chiarito, che la scelta di individuare in tale modo il punto di partenza, non fosse condivisibile, in quanto il medesimo non rappresentava un punto rispetto al quale si confrontava il prospetto principale, (quello verso via (omissis));
c) è stato quindi individuato dal verificatore un diverso punto come punto di riferimento di partenza (quello indicato nel rilievo (omissis), su via (omissis) privata, a quota – 2,29 -piede);
d) le misurazioni eseguite aventi quale punto di riferimento di partenza quello individuato dal verificatore, hanno consentito la individuazione di una altezza massima del fabbricato pari a metri 16, 06 e quindi superiore a quella di cui al Provvedimento comunale Prot. 9593/2014 (inferiore a m 10,50) e non consentita.
4.4. Tutte le considerazioni e le osservazioni dei consulenti di parte – cui il verificatore ha puntualmente risposto nell’appendice alla relazione di verificazione- non sembrano al Collegio intrinsecamente persuasive, ma soprattutto, introducono nella controversia elementi che non possono invece farvi ingresso, tenuto conto che ci si trova nella fase di ottemperanza al giudicato.
4.4.1. Invero, deve essere considerato che la parte originaria resistente non ha né impugnato né altrimenti contestato le N.t.a. del comune che prevedevano le modalità di effettuazione del computo dell’altezza.
Invero, la sentenza cognitoria di primo grado (“Quanto all’altezza, il criterio di calcolo è posto nell’art 8 delle NTA del Piano delle Regole del Comune di (omissis), in cui si stabilisce che l’altezza massima dei fabbricati si misura dal piano esistente del marciapiede o dove il marciapiede non sia previsto, da quota 0,15 rispetto alla sede stradale.
Una differente regola viene invece introdotta per la nuova edificazione in zona non urbanizzata o comunque in assenza di una sede stradale di riferimento: in tale ipotesi l’altezza viene misurata a partire dalla quota di piano di edificazione, nelle immediate adiacenze della parte inferiore dell’edificio o dallo stacco dell’edificio dal suolo nella parte inferiore.
L’Amministrazione ha ritenuto di applicare quest’ultimo criterio: nella verificazione della Regione si afferma che “sulla base della scelta così operata i calcoli illustrati nelle tavole 4 ed 8 possono considerarsi complessivamente corretti anche se non sono state sufficientemente esplicitate le modalità di inclusione od esclusione dei volumi tecnici e delle rampe di accesso”.
Tuttavia il tecnico incaricato della verificazione evidenzia che rimane l’incertezza nell’applicazione della norma, sulla “valutazione della effettiva esistenza o meno di una sede stradale di riferimento”, la cui presenza determina una diversa quota di impostazione.
Ad avviso del Collegio l’esistenza della Via (omissis) doveva portare ad applicare il differente criterio di calcolo, cioè dalla sede stradale.
L’art 8 delle NTA del Piano delle Regole presuppone infatti l’esistenza di una strada, senza differenziare la tipologia di strada: la circostanza che la stessa sia a fondo cieco non autorizza ad applicare il differente criterio stabilito per le zone non urbanizzate.”) e la sentenza di appello che ha confermato la decisione del T.a.r. per la Lombardia (“La norma di precipuo riferimento è quella recata dall’art. 8 delle NTA del Piano delle Regole -di cui all’art. 10 della legge Regione Lombardia n. 12/2005- del Comune di (omissis), applicabile ratione temporis al rapporto giuridico qui in rilievo, secondo cui l’altezza massima dei fabbricati “…si misura dal piano esistente, stabilito dall’Ufficio tecnico comunale, del marciapiede o dove il marciapiede non sia previsto da quota + 0,15 rispetto alla sede stradale…” e che così prosegue:… “per la nuova edificazione in zona non urbanizzata o comunque in assenza di una sede stradale di riferimento, l’altezza verrà misurata a partire dalla quota di piano di edificazione, nelle immediate adiacenze della parte inferiore di edificio o dallo stacco dell’edificio dal suolo nella parte inferiore”……”la norma de qua prevede ai fini del parametro di calcolo unicamente l’esistenza di una sede stradale, senza aggiungere altro in ordine alla qualificazione della stessa sicchè non assume rilevanza ai fini dell’applicazione del diverso parametro di calcolo auspicato dalle parti appellanti il fatto che l’erigendo fabbricato prospetterebbe su una strada privata che si diparte da via (omissis): quel che rileva ai fini in esame è che in ogni caso, nella situazione in rilievo vi è un tratto stradale (o se si vuole due strade) ed inoltre ci si trova, pacificamente, in zona urbanizzata (omissis) e se questo è lo stato dei luoghi in esso si concretizza il presupposto di fatto e di diritto perché il criterio da utilizzare per calcolo dell’altezza del fabbricato in questione deve essere quello che prevede come punto di partenza per il computo de quo il marciapiede e/o la stessa sede strada.
Così non è stato fatto dall’amministrazione, con la conseguenza che l’altezza massima consentita non risulta sia stata calcolata in conformità al parametro fissato dalla disciplina regolamentare vigente per l’area di che trattasi.””nel caso di specie è accaduto che, fermo restando che l’area interessata è inclusa in zona urbanizzata, residenziale (omissis) il Comune ha utilizzato per il computo dell’autorizzato fabbricato, il secondo dei criteri previsti, trascurando il fatto che l’edificio di che trattasi fronteggia via (omissis), mentre stante il tenore letterale della norma surriportata l’Amministrazione avrebbe dovuto fare riferimento al primo dei suddetti criteri di calcolo e cioè l’altezza avrebbe dovuto essere calcolata partendo dal marciapiede di tale sede stradale.”) hanno specificamente vagliato tale profilo, ed esso non può essere più posto in discussione; il verificatore si è strettamente tenuto a tale parametro, e pertanto non può che concludersi per la non conformità del titolo abilitativo in sanatoria rilasciato rispetto alle indicazioni conformative contenute nelle sentenze cognitorie.
4.5. Il vizio che si riscontra nel provvedimento di sanatoria rilasciato dal comune è quello della nullità per due ordini di ragioni:
I) la misurazione dalla sede stradale, non tiene conto che il punto dal quale occorreva partire secondo quanto chiaramente esposto nella sentenza d’appello “deve essere quello che prevede come punto di partenza per il computo de quo il marciapiede e/o la stessa sede strada” e che con esso deve logicamente intendersi il fronte del fabbricato prospiciente la detta via;
è incontestabile che, inspiegabilmente, e violando il giudicato formatosi, invece, la misurazione muova da un punto di partenza che è rappresentato dall’accesso laterale alla proprietà (mezzeria dell’ingresso laterale della proprietà via (omissis) privata); ma ciò risulta incongruo, in quanto, visto che il riferimento della intera disposizione è quello rappresentato dalla sede stradale, tale indicazione non può che imporre che la misurazione parta dal fronte del fabbricato prospiciente la detta via “di riferimento”;
II) al contempo, la norma di cui all’art. 8 delle N.t.a. nella parte non applicata dal comune in sede di rilascio del primo permesso di costruire poi annullato (e della quale era stata prescritta l’applicazione dalle richiamate sentenze cognitorie) prevedeva quale vertice della misurazione il “prospetto più alto”, ovvero “il superiore tra i punti di intersezione tra il piano di intradosso del piano di copertura ed i piani di tompanamento verticali”: certamente, non essendosi il comune attenuto a tale criterio non avrebbe potuto procedersi alla sottrazione equitativa di un metro contemplata dalla disposizione predetta; invero il vertice della misurazione è stato considerato, nel provvedimento comunale di “sanatoria” impugnato, muovendo da un punto (mezzeria dell’ingresso laterale, ovvero del passo carrabile) senza rispettare il requisito della “prospicienza” e muovendo da una quota superiore rispetto alla quota stradale del fronte prospettante, con la conseguenza che, a cagione dell’andamento ascendente della strada, ed essendo tale andamento ascendente “diretto” verso il detto spigolo, ovviamente si è pervenuti ad una diminuzione del valore dell’altezza che non sarebbe stata consentita nel caso concreto (secondo la difesa dell’appellante, pari addirittura a mt. 2,21).
4.5. Ciò depone per la nullità dell’impugnata sanatoria
4.6. E’ bene, per completezza, dare atto, tuttavia, di una rilevante circostanza.
Sia la ditta appellata che il Comune di (omissis), hanno molto insistito – nelle loro difese- nel fare presente che a cagione della supposta “genericità ” delle affermazioni contenute nelle sentenze cognitorie prima richiamate, ed a cagione della circostanza che, comunque, il comune effettuò le misurazioni e computò l’altezza del fabbricato muovendo dalla “sede stradale”, siccome prescritto dalla norma di cui all’art. 8 delle N.t.a. comunali, nel testo vigente al momento del rilascio del primo permesso di costruire, non sarebbe ravvisabile alcuna nullità per violazione del giudicato.
4.6.1. La giustificazione di tali insistite difese, ovviamente, riposa nel punto di partenza – rappresentato dalle statuizioni contenute nella sentenza del T.a.r. – secondo cui la “ordinaria” azione impugnatoria volta comunque a fare dichiarare la “semplice” illegittimità del provvedimento in sanatoria, sarebbe divenuta inammissibile a cagione della omessa impugnazione dell’atto successivo, non meramente confermativo.
Una volta, però, che tale statuizione sia stata riformata, e che sia rimasto accertato che anche la impugnazione “ordinaria” di legittimità era ammissibile, sembra al Collegio che la pregnanza dell’interesse a fare valere il superiore argomento critico, comunque decolori, in quanto questo Collegio, in questo processo, dovrebbe comunque vagliare le censure prospettate in chiave di (meno grave) patologia di illegittimità e, si anticipa, le stesse sarebbero certamente fondate.
4.7. Ad ogni buon conto, osserva e ribadisce il Collegio, sul punto, che:
a) l’errore del comune nel computare l’altezza dell’edificio presciegliendo, quale punto di partenza la mezzeria, comporta la nullità del provvedimento, in quanto collide/elude con il giudicato;
b) infatti, i riferimenti contenuti nelle sentenze cognitorie a più riprese citati, ricomprendevano l’intera prima parte dell’art. 8 delle N.t.a.;
c) soltanto una visione eccessivamente riduttiva delle affermazioni contenute nelle dette sentenze cognitorie (e dell’art. 8 delle N.t.a. ivi richiamato), può portare ad affermare che il “fuoco” del giudicato potesse considerarsi esaustivamente rispettato prescrivendo una misurazione ed un computo dell’altezza, che partisse dalla sede stradale purchessia;
d) la norma suddetta va interpretata nel senso che uno ed uno soltanto è il punto corretto di misurazione, ed in tal senso soccorreva l’utilizzo dell’avverbio “prospiciente”, contenuto nelle citate decisioni;
e) per altro verso, dalla documentazione fotografica versata in atti, non sembra al Collegio che il punto di misurazione prescelto dal comune soddisfacesse detta condizione: e comunque, certamente, non è quello prescelto dal comune il prospetto più alto.
4.7.1. Ferma e assorbente tale statuizione di nullità per violazione del giudicato, per completezza va, in ogni caso, osservato che il provvedimento in esame, ove in via di speculazione teorica si potesse passare all’esame dell’azione di annullamento, dovrebbe comunque essere annullato in quanto illegittimo.
La ratio e la lettera dell’art. 8 imponevano, infatti, che uno, ed uno soltanto, fosse il punto dal quale misurare l’altezza della costruzione; è logico e congruente con la lettera della norma che si facesse riferimento al prospetto “principale” ed al tratto di strada prospiciente: certamente tali caratteristiche non sono ravvisabili con riferimento al punto di partenza prescelto dal comune, ed altrettanto certamente, se mai lo fossero state, comunque non poteva sottrarsi equitativamente la misura “fino ad un metro”.
4.7.2. Ciò comporta che, comunque, il provvedimento impugnato sarebbe stato da annullarsi in quanto affetto da illegittimità .
4.8. Quanto sinora rilevato, condurrebbe (e conduce) all’accoglimento del ricorso in ottemperanza ed alla declaratoria di nullità del provvedimento asseritamente adempitivo al giudicato consistente nell’avversato permesso di costruire in sanatoria.
4.8.1.Una volta accertato che il detto provvedimento non si conforma al giudicato per ciò che concerne il profilo dell’altezza, non vi è ragione di esplorare gli ulteriori profili oggetto della verificazione (tutti concernenti la volumetria) in quanto, comunque, l’amministrazione dovrebbe riprovvedere a conformarsi al giudicato, ex art. 38, ed attraverso la riduzione delle altezze (ove possibile) si potrebbe determinare un ricalcolo – e decremento della volumetria – tale da rendere verosimilmente superflua ed inattuale la disamina di tale versante critico; e ad analoghe considerazioni si perverrebbe, laddove il detto provvedimento fosse stato “semplicemente” annullato, in quanto affetto dal (meno grave) vizio di illegittimità .
4.8.2. Ove necessario, comunque, si osserva che in sede di rieffusione del potere l’Amministrazione dovrebbe tenere in considerazione le indicazioni cristallizzate nell’elaborato di verificazione, rapportandole alle osservazioni dei consulenti di parte, sempre tenendo in considerazione che, comunque, colliderebbe con il giudicato formatosi escludere integralmente dal computo della volumetria assentibile il c.d. locale immondezzaio posto al piano interrato, i terrazzi al secondo piano e i locali del sottotetto
5. Quanto sinora affermato e rilevato “anticipa” la reiezione dell’ultima domanda articolata dalla originaria ricorrente in ottemperanza e volta ad ottenere la immediata condanna del Comune di (omissis) a ordinare la riduzione in pristino e la demolizione del citato fabbricato.
5.1. Invero l’amministrazione si è posta il problema di come ottemperare alla sentenza, ed ha ritenuto di potere applicare l’art. 38 del dPR n. 380/2001 (“1. In caso di annullamento del permesso di costruire, qualora non sia possibile, in base a motivata valutazione, la rimozione dei vizi delle procedure amministrative o la restituzione in pristino, il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale applica una sanzione pecuniaria pari al valore venale delle opere o loro parti abusivamente eseguite, valutato dall’agenzia del territorio, anche sulla base di accordi stipulati tra quest’ultima e l’amministrazione comunale. La valutazione dell’agenzia è notificata all’interessato dal dirigente o dal responsabile dell’ufficio e diviene definitiva decorsi i termini di impugnativa.
2. L’integrale corresponsione della sanzione pecuniaria irrogata produce i medesimi effetti del permesso di costruire in sanatoria di cui all’articolo 36.
2-bis. Le disposizioni del presente articolo si applicano anche agli interventi edilizi di cui all’articolo 23, comma 1, in caso di accertamento dell’inesistenza dei presupposti per la formazione del titolo.”).
5.1.2.L’art. 38 citato, trova la propria ratio in due considerazioni:
a) di regola, v’è una differenza ontologica tra la posizione di chi costruisce in forza di un permesso di costruire successivamente annullato, e chi costruisce in assenza di quest’ultimo, ovvero difformemente dal titolo rilasciato;
b) nel primo caso, quantomeno nella stragrande maggioranza dei casi, v’è un affidamento da tutelare in capo al soggetto richiedente (salve ipotesi -limite, neppure adombrate nel caso di specie, laddove il permesso di costruire sia stato rilasciato in forza di un pactum sceleris tra amministrazione e beneficiario, ovvero che la illegittimità sia dipesa da una falsa rappresentazione della realtà da parte del beneficiario);
c) detto affidamento, non sussiste nell’ipotesi di assenza del titolo abilitativo, ovvero di difformità essenziale dell’opera eseguita rispetto al titolo rilasciato.
5.1.3. La tutela dell’affidamento del privato che costruisca sulla scorta di un permesso di costruire successivamente annullato in via giurisdizionale (si veda Consiglio di Stato, sez. VI, 27/04/2015, n. 2137 “la finalità dell’art. 38 del d.p.r. n. 380 del 2001 che prevede l’annullamento del permesso di costruire è quella di dettare una disciplina che tenga in adeguata considerazione, in ragione degli interessi implicati, la circostanza che l’intervento edilizio è stato realizzato in presenza di un titolo abilitativo che, solo successivamente, è stato dichiarato illegittimo. L’amministrazione deve, pertanto, valutare, con specifica motivazione, in ragione soprattutto di eventuali sopravvenienze di fatto o di diritto e della effettiva situazione contenutistica del vincolo, se sia possibile convalidare l’atto annullato. In altri termini, l’annullamento del permesso di costruire non comporta affatto per il Comune l’obbligo sempre e comunque di disporre la demolizione di quanto realizzato sulla base del titolo annullato, ma è circoscritto al divieto, in caso di adozione di un nuovo titolo edilizio, di riprodurre i medesimi vizi (formali o sostanziali che siano) che detto titolo avevano connotato.”) non è tuttavia assoluta.
5.1.4. Considerato che l’interesse tutelato dalle disposizioni urbanistiche ed edilizie non è un interesse che coincide in toto con quello del privato che vuole edificare, ma ha natura pubblicistica, e riposa nel corretto assetto del territorio (e/o, ove l’area o il plesso sia vincolato, con i connessi specifici interessi di natura ambientale, culturale, storica, archeologia, etc), può darsi l’ipotesi che effettivamente il manufatto non sia in alcun modo suscettibile (in tutto, od in parte) di “regolarizzazione” postuma: in simile ipotesi, torna a prevalere l’interesse pubblicistico, diviene recessivo l’affidamento del privato, e l’interesse del privato potrebbe se del caso trovare tutela nei confronti dell’amministrazione in via risarcitoria (fattispecie, questa, sulla quale si è ancora di recente pronunciata la Suprema Corte di Cassazione e non appartenente alla giurisdizione di questo Plesso: cfr. Corte di cassazione, sezioni unite civili, ordinanza, 24 settembre 2018, n. 22435).
5.1.5. Non v’era pertanto alcuna radicale preclusione all’applicazione dell’art. 38 citato, ed anche a seguito della declaratoria di nullità del primo provvedimento asseritamente ottemperativo al giudicato da parte della presente sentenza, l’amministrazione procedente potrà reiterare l’attività ottemperativa procedendo, ove ne ricorrano i presupposti ovviamente, ad applicare il ventaglio delle opzioni previste dall’art. 38 suddetto, eventualmente disponendo le idonee prescrizioni (ad esempio, qualora accerti che ne ricorrano le condizioni, ordinando la demolizione parziale del fabbricato) per assicurare l’osservanza del giudicato ed il contemporaneo rispetto della prescrizioni urbanistiche lese e dell’interesse del privato originario ricorrente.
6. Conclusivamente, il Collegio accoglie parzialmente e nei sensi della motivazione che precede l’appello ed in parziale riforma della impugnata sentenza, accoglie il ricorso in ottemperanza e dichiara nullo l’impugnato provvedimento prot. 9593/2014 comunicato il 5 gennaio 2015 con il quale il Comune di (omissis) ha rilasciato alla Ma. Co. S.r.l. il permesso di costruire in sanatoria ex art. 38 TU edilizia confermando il permesso di costruire n. 3218/2007 annullato in sede giurisdizionale; respinge invece, allo stato, la domanda volta ad ottenere la condanna del Comune di (omissis) alla emanazione della ordinanza di riduzione in pristino e di demolizione del fabbricato, salvi i necessari ulteriori provvedimenti dell’Amministrazione comunale.
7. Le spese della verificazione, che saranno liquidate a seguito di apposita istanza presentata dall’organismo verificatore, sono poste a carico solidalmente delle parti appellate: queste ultime provvederanno a rifondere l’appellante dell’anticipo di euro 2.000,00 (duemila/00), posto a carico dell’appellante medesima dall’ordinanza della Sezione n. 1911 del 27 marzo 2018.
8. Le spese processuali del doppio grado di giudizio seguono la soccombenza, e pertanto il Comune di (omissis) e la società Ma. Co. vanno condannate al pagamento delle medesime in favore dell’appellante, nella misura che appare congruo determinare in Euro tremila (Euro 3000//00) per ciascuna, oltre oneri accessori, se dovuti.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
Sezione Quarta, definitivamente pronunciando sull’appello in epigrafe, lo accoglie parzialmente e nei sensi della motivazione che precede, ed in parziale riforma della impugnata sentenza, accoglie il ricorso in ottemperanza e dichiara nullo l’impugnato provvedimento prot. 9593/2014 comunicato il 5 gennaio 2015 con il quale il Comune di (omissis) ha rilasciato alla Ma. Co. S.r.l. il permesso di costruire in sanatoria ex art. 38 TU edilizia confermando il permesso di costruire n. 3218/2007 annullato in sede giurisdizionale; respinge allo stato, la domanda volta ad ottenere la condanna del Comune di (omissis) alla emanazione della ordinanza di riduzione in pristino e di demolizione del fabbricato, salvi i necessari ulteriori provvedimenti dell’Amministrazione comunale.
Pone solidalmente a carico delle parti appellate le spese della verificazione, che saranno liquidate a seguito di apposita istanza presentata dall’organismo verificatore; le parti appellate provvederanno altresì a rifondere l’appellante dell’anticipo di euro 2.000,00 (duemila/00), da questa corrisposto come prescritto dall’ordinanza della Sezione n. 1911 del 27 marzo 2018.
Condanna il Comune di (omissis) e la società Ma. Co. al pagamento delle spese processuali del doppio grado di giudizio in favore dell’appellante, nella misura di Euro tremila (Euro 3000//00) per ciascuna, oltre oneri accessori, se dovuti
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 7 febbraio 2019 con l’intervento dei magistrati:
Paolo Troiano – Presidente
Fabio Taormina – Consigliere, Estensore
Giuseppe Castiglia – Consigliere
Daniela Di Carlo – Consigliere
Roberto Caponigro – Consigliere

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