In presenza di postumi permanenti anteriori all’infortunio

Corte di Cassazione, sezione terza civile, Sentenza 11 novembre 2019, n. 28986.

La massima estrapolata:

L’accertamento del danno alla salute, in presenza di postumi permanenti anteriori all’infortunio, i quali siano in rapporto di concorrenza con i danni permanenti causati da questo ultimo, richiede al medico legale di valutare innanzitutto il grado di invalidità permanente obiettivo e complessivo presentato dalla vittima, senza alcuna variazione in aumento o in diminuzione in misura standard suggerita dai baréme medico legali, e senza applicazione di alcuna formula proporzionale. Gli chiede, poi, di quantificare in punti percentuali il grado di invalidità permanente della vittima prima dell’infortunio, e fornire al giudice queste due indicazioni.

Sentenza 11 novembre 2019, n. 28986

Data udienza 2 luglio 2019

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente

Dott. SESTINI Danilo – Consigliere

Dott. OLIVIERI Stefano – Consigliere

Dott. SCARANO Luigi A. – Consigliere

Dott. ROSSETTI Marco – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 25975-2017 proposto da:
(OMISSIS) SPA in persona del Procuratore Speciale Dott. (OMISSIS), elettivamente domiciliata in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), che la rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
(OMISSIS), elettivamente domiciliato in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), rappresentato e difeso dall’avvocato (OMISSIS);
– controricorrente –
e contro
(OMISSIS);
– intimato –
avverso la sentenza n. 3829/2017 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 05/09/2017;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 02/07/2019 dal Consigliere Dott. MARCO ROSSETTI;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. PEPE ALESSANDRO che ha concluso per l’accoglimento del ricorso;
udito l’Avvocato (OMISSIS);
udito l’Avvocato (OMISSIS) per delega.

FATTI DI CAUSA

1. Nel 2013 (OMISSIS) convenne dinanzi al Tribunale di Lecco la societa’ (OMISSIS) s.p.a. e (OMISSIS), esponendo che:
-) nel (OMISSIS) era rimasto vittima di un sinistro stradale, causato dal convenuto (OMISSIS), del cui operato doveva rispondere il suo assicuratore della r.c.a., cioe’ la societa’ (OMISSIS);
-) in conseguenza di tale sinistro, consistito in un violento urto antero-posteriore tra il veicolo condotto dal convenuto ed il proprio, aveva patito un valido trauma contusivo all’anca destra;
-) l’arto attinto dal trauma era stato gia’ fratturato nel (OMISSIS), in conseguenza di un altro sinistro stradale;
-) il sinistro del (OMISSIS), aggravando i postumi residuati a quello del (OMISSIS), lo aveva obbligato a sottoporsi ad un intervento di protesi d’anca;
-) sostenne che l’infortunio del (OMISSIS) gli aveva provocato una invalidita’ permanente pari al 60%, e che quello del (OMISSIS) aveva elevato tale misura al 70%.
Chiese pertanto la condanna dei convenuti al risarcimento del danno.
2. La (OMISSIS) si costitui’ negando che l’infortunio del (OMISSIS) avesse causato le conseguenze dannose descritte dall’attore, e comunque contestando il criterio in base al quale l’attore pretendeva che il suo danno alla salute fosse stimato; allego’ di avere gia’ versato all’attore la somma di Euro 12.000, che doveva ritenersi satisfattiva.
3. Con sentenza 9 aprile 2015 n. 289 il Tribunale di Lecco accolse la
domanda.
Il Tribunale ritenne che:
-) l’intervento di protesizzazione d’anca cui l’attore dovette sottoporsi non era causalmente riconducibile all’infortunio oggetto del giudizio;
-) l’infortunio del (OMISSIS) aveva causato una invalidita’ permanente del 6,5%;
-) tale invalidita’ aveva tuttavia attinto una persona dalla salute gia’ compromessa;
-) pertanto il risarcimento dovuto dall’attore andava liquidato non gia’ monetizzando una invalidita’ di grado pari al 6,5%, ma calcolando la differenza tra il valore monetario del grado di invalidita’ permanente di cui la vittima era gia’ portatrice prima dell’infortunio (60%), ed il grado di invalidita’ permanente complessivamente residuato all’infortunio (66,5%).
Quantifico’ il relativo danno in Euro 79.373,50, oltre accessori.
La sentenza venne appellata dalla (OMISSIS).
4. La Corte d’appello di Milano, con sentenza 5 settembre 2017 n. 3829 rigetto’ il gravame.
Per quanto in questa sede ancora rileva, la Corte d’appello ritenne corretto il criterio di stima del danno alla salute adottato dal Tribunale.
Affermo’ che la liquidazione del danno alla salute deve avvenire tenendo conto dell’effettiva incidenza della menomazione sulla vita quotidiana della vittima; e che di conseguenza se la vittima sia gia’ portatrice di postumi invalidanti pregressi, “la sottrazione (ai fini del calcolo del danno deve) essere operata non gia’ tra i diversi gradi di invalidita’ permanente, bensi’ tra i valori monetari previsti in corrispondenza degli stessi”.
Concluse osservando che solo con questo criterio la monetizzazione del danno poteva essere rispondente alla effettiva entita’ di questo; se, per contro, in casi come quello di specie si procedesse a sottrarre il grado di invalidita’ residuato al sinistro da quello preesistente, ed a convertire in denaro la differenza, il risarcimento ne risulterebbe iniquo per difetto.
5. La sentenza d’appello e’ stata impugnata per cassazione dalla (OMISSIS), con ricorso fondato su tre motivi.
Ha resistito con controricorso (OMISSIS).
6. La causa venne avviata alla trattazione camerale, ai sensi dell’articolo 380 bis c.p.c., e discussa nell’adunanza del 13.3.2019.
All’esito della camera di consiglio la Sesta Sezione di questa Corte, con ordinanza interlocutoria 1.4.2019 n. 9003, ha ritenuto che le questioni di diritto sollevate dalla societa’ ricorrente avessero particolare rilevanza, e che di conseguenza andassero trattate in pubblica udienza.
La causa e’ stata di conseguenza chiamata alla pubblica udienza del 2 luglio 2019, ed ivi discussa.
Le parti hanno depositato memoria sia prima della trattazione camerale, sia prima della pubblica udienza.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il primo motivo di ricorso.
1.1. Col primo motivo la ricorrente lamenta, ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., n. 3, la violazione degli articoli 1223 e 2056 c.c. e articolo 139 cod. ass..
Il motivo contiene una articolata censura riassumibile nei termini che seguono.
La societa’ ricorrente muove dal presupposto che i postumi dei quali puo’ rimanere vittima una persona gia’ invalida vanno distinti in due categorie: le lesioni “concorrenti” e quelle “coesistenti”: le prime aggravano l’invalidita’ preesistente, le seconde no.
Da questa premessa la societa’ ricorrente deduce che, in presenza di lesioni concorrenti, il risarcimento del danno deve essere aumentato, mentre cio’ non va fatto in presenza di lesioni coesistenti.
Cio’ posto in teoria, la ricorrente prosegue osservando in concreto che non fu il sinistro provocato dal proprio assicurato a costringere (OMISSIS) a sottoporsi ad un intervento di protesi d’anca; che tale circostanza era pacifica; che pertanto le lesioni patite dalla vittima in conseguenza del sinistro del (OMISSIS) dovevano qualificarsi come “coesistenti”; che la sentenza d’appello, dopo avere qualificato come “coesistenti” i postumi residuati al sinistro del (OMISSIS), rispetto a quelli di cui la vittima era gia’ portatrice, ha nondimeno liquidato un risarcimento maggiorato rispetto a quello che sarebbe spettato ad una persona sana, la quale avesse patito una microinvalidita’ del 6,5%.
Cosi’ decidendo, conclude la ricorrente, la Corte d’appello avrebbe violato l’articolo 1223 c.c., perche’ ha addossato al responsabile ed al suo assicuratore della r.c.a. conseguenze dannose che essi non avevano provocato.
Sostiene la ricorrente che la Corte d’appello avrebbe dovuto invece liquidare il danno alla salute monetizzando, coi criteri di legge, una invalidita’ del 6,5%, quale era stata effettivamente causata dal proprio assicurato; e poi, se del caso, incrementare in via equitativa il risultato, per tenere conto dell’eventuale maggiore afflittivita’ dei postumi, rispetto al caso in cui avessero attinto una persona sana.
Soggiunge la ricorrente che erroneamente la Corte d’appello ha ritenuto che il sinistro del (OMISSIS) avesse “aggravato le precarie condizioni di salute” della vittima. Deduce, in contrario, che qualunque lesione “aggrava lo stato di salute”, anche quella che dovesse colpire una persona sana. Sostiene che ai fini della liquidazione del danno si dovrebbe distinguere tra lesioni che aggravano lo “stato di salute”, e lesioni che aggravano una determinata funzione gia’ menomata, e che solo le seconde meritano un trattamento risarcitorio differenziato e maggiorato rispetto a quello standard.
Infine, osserva la ricorrente che il criterio di liquidazione del danno alla salute avallato dalla Corte d’appello sarebbe irragionevole, perche’ nel caso in cui una lesione dovesse attingere una persona gia’ affetta da un elevatissimo grado di invalidita’, quel criterio condurrebbe a liquidare postumi superiori al 100%.
1.2. Ammissibilita’ del motivo.
Il primo problema posto dal ricorso e’ stabilire se quella prospettata dalla societa’ (OMISSIS) sia una questione di diritto, come tale sindacabile da questa Corte, oppure una questione di mero fatto, come tale riservata alle valutazioni insindacabili del giudice di merito.
1.3. Quella prospettata dalla (OMISSIS) col primo motivo di ricorso e’ una questione di diritto.
Il danno permanente alla salute scaturisce infatti da una lesione dell’integrita’ psicofisica, la quale pero’ non e’ essa il danno, ma solo il presupposto del danno.
Perche’ possa predicarsi l’esistenza d’un danno permanente alla salute, sara’ infatti necessario che da quella lesione sia derivata una menomazione suscettibile di accertamento medico-legale, e che questa a sua volta abbia prodotto una forzosa rinuncia: la perdita, cioe’, della capacita’ di continuare a svolgere anche una soltanto delle attivita’ svolte dalla vittima prima dell’infortunio (cosi’, da ultimo, Sez. 3, Ordinanza n. 18056 del 05/07/2019, Rv. 654378 – 01; il principio comunque e’ pacifico e risalente: nel medesimo senso si vedano, ex multis, Sez. U, Sentenza n. 26972 del 11/11/2008, in motivazione; Sez. L, Sentenza n. 7101 del 06/07/1990, Rv. 468146 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 2761 del 03/04/1990, Rv. 466383 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 357 del 13/01/1993 (in motivazione); e cosi’ via sino alla sentenza capostipite, ovvero Sez. 3, Sentenza n. 3675 del 06/06/1981, Rv. 414308 – 01).
La compromissione dell’integrita’ psicofisica rappresenta dunque la lesione dell’interesse protetto; le rinunce concrete che ne conseguono costituiscono il danno risarcibile (per l’affermazione secondo cui la lesione d’un qualsiasi diritto non si identifica col danno, ma ne costituisce solo il presupposto, si veda in particolare Sez. 3, Sentenza n. 8827 del 31/05/2003, e Sez. U, Sentenza n. 26972 del 11/11/2008). La prima e’ la lesione d’un diritto, ma non necessariamente un danno; sono la menomazione e le forzose rinunce da essa indotte a rappresentare il vero e proprio danno in senso giuridico.
Perche’ quest’ultimo possa essere risarcito, dovranno dunque accertarsi due nessi di causa: il primo, tra condotta lesiva e lesione; il secondo, tra lesione e conseguenze dannose.
Il primo nesso andra’ accertato secondo le regole della causalita’ materiale, e dunque applicando i criteri dettati dagli articoli 40 e 41 c.p..
Una volta accertata l’esistenza del nesso di causalita’ materiale tra la condotta illecita e le lesioni, dovra’ poi accertarsi un valido nesso di causalita’ giuridica tra la lesione e la menomazione (e le conseguenti rinunce), secondo i principi ripetutamente affermati da questa Corte: per tutti, Sez. 3, Sentenza n. 15991 del 21/07/2011, Rv. 618882 – 01, e che giovera’ in questa sede brevemente richiamare, poiche’ su essi si fondera’ il giudizio di ammissibilita’ del motivo e la decisione nel merito della controversia.
1.4. L’accoglimento d’una domanda di risarcimento del danno richiede l’accertamento di due nessi di causalita’:
a) il nesso tra la condotta e l’evento di danno – inteso come lesione di un interesse giuridicamente tutelato -, o nesso di causalita’ materiale;
b) il nesso tra l’evento di danno e le conseguenze dannose risarcibili, o nesso di causalita’ giuridica.
1.4.1. L’accertamento del primo dei due nessi suddetti e’ necessario per stabilire se vi sia responsabilita’ ed a chi vada imputata; l’accertamento del secondo nesso serve a stabilire la misura del risarcimento.
Il nesso di causalita’ materiale e’ dunque un criterio oggettivo di imputazione della responsabilita’; il nesso di causalita’ giuridica consente di individuare e selezionare le conseguenze dannose risarcibili dell’evento.
La distinzione tra causalita’ materiale e giuridica, contestata dalle teorie c.d. unitarie della causalita’, ad avviso di questa Corte merita di essere in questa sede condivisa e confermata: sia perche’ e’ l’unica in grado di offrire un’appagante soluzione al delicato problema del concorso tra cause umane e cause naturali alla produzione dell’evento dannoso; sia perche’ conforme all’orientamento assolutamente prevalente di questa Corte; sia perche’ l’unico precedente di segno contrario (Sez. 3, Sentenza n. 975 del 16/01/2009, Rv. 606131 – 01) mosse da presupposti, e pervenne a conclusioni, non condivisibili per le ragioni gia’ esposte da questa Corte nella sentenza pronunciata da Sez. 3, Sentenza n. 15991 del 21/07/2011, Rv. 618882 – 01, che qui converra’ brevemente riassumere:
(a) e’ contraria al dettato normativo l’affermazione secondo cui, nel concorso tra fatto umano e fatto naturale, l’aliquota di danno imputabile all’uno ed all’altro andrebbe stabilita dal giudice “in via equitativa”, dal momento che il giudizio equitativo concerne la liquidazione del danno (articolo 1226 c.c.), non l’accertamento delle sue cause;
(b) l’accertamento del nesso di causa non puo’ che avere per esito l’accertamento della sua sussistenza o della sua insussistenza, sicche’ e’ inconcepibile un suo “frazionamento”;
(c) l’infrazionabilita’ del nesso di causalita’ materiale tra condotta ed evento di danno e’ confermata indirettamente dall’articolo 1227 c.c.: tale norma, infatti, prevedendo la riduzione della responsabilita’ nel solo caso di concorso causale fornito dalla vittima, implicitamente esclude la frazionabilita’ del nesso nel caso di concorso di cause naturali con la condotta del responsabile. L’accertamento del nesso di causalita’ materiale, in definitiva, va compiuto in base all’articolo 41 c.p., il quale non consente la seguente alternativa:
a) se viene processualmente accertato che la causa naturale sia tale da escludere il nesso di causa tra condotta ed evento, la domanda sara’ rigettata;
b) se la causa naturale abbia rivestito efficacia eziologica non esclusiva, ma soltanto concorrente rispetto all’evento, la responsabilita’ dell’evento sara’ per intero ascritta all’autore della condotta illecita.
Con il che resta esclusa la possibilita’ di qualsiasi riduzione proporzionale della responsabilita’ in ragione della minore incidenza dell’apporto causale del danneggiante, in quanto una comparazione del grado di incidenza eziologica di piu’ cause concorrenti puo’ instaurarsi soltanto tra una pluralita’ di comportamenti umani colpevoli, ma non tra una causa umana imputabile ed una concausa naturale non imputabile.
1.4.2. L’accertamento del nesso di causalita’ giuridica ha una funzione ben diversa: delimitare l’area del danno risarcibile.
Sotto questo aspetto spettera’ al giudice, dopo avere accertato la causalita’ materiale e la colpa dell’offensore, stabilire quali, tra le teoricamente infinite conseguenze dannose provocate dall’evento di danno (la lesione del diritto) costituiscano conseguenza “immediata e diretta” di quello, e quali no, comparando le condizioni del danneggiato precedenti l’illecito, quelle successive all’evento imputabile, e quelle che si sarebbero determinate a prescindere da questo.
In definitiva, il sistema della legge (gli articoli 40 e 41 c.p. da un lato, l’articolo 1223 c.c. dall’altro) impone la distinzione tra l’imputazione causale dell’evento di danno e la successiva indagine volta all’individuazione e quantificazione delle singole conseguenze pregiudizievoli.
1.5. Posta dunque la suddetta distinzione tra causalita’ materiale e giuridica, la preesistenza di malattie o menomazioni in capo alla vittima del fatto illecito puo’ astrattamente incidere tanto sul primo, quanto sul secondo dei suddetti nessi. L’invalidita’ o la malattia pregressa, infatti, possono teoricamente costituire tanto una concausa di lesione (ad es., il responsabile infligge un lieve urto, altrimenti innocuo, a persona affetta da osteogenesi imperfetta o sindrome di Lobstein, provocandole gravi fratture), quanto una concausa di menomazione (ad es., il responsabile provoca l’amputazione della mano destra a chi’ aveva gia’ perduto l’uso della sinistra).
Le preesistenze, dunque, sono una circostanza che pone all’interprete un problema di causalita’: materiale, se dovessero rappresentare una concausa di lesione; e giuridica, se dovessero rappresentare una concausa di menomazione.
Ma i principi in base ai quali accertare il nesso di causalita’ (principi cui la legge rinvia e da’ per noti, dal momento che alcuna norma contiene una definizione del concetto di “nesso causale”), tanto materiale quanto giuridica, sono stabiliti dalla legge (articoli 40 e 41 c.p. nel primo caso; articolo 1223 c.c. nel secondo caso). Ed e’ soltanto alla luce di questi principi che deve darsi soluzione al problema qui in esame.
Ne consegue che quella prospettata dalla societa’ ricorrente e’ una questione di diritto, e non di mero fatto, giacche’ chiede a questa Corte di stabilire con quale criterio giuridico debbano sceverarsi, dal novero delle conseguenze dannose provocate dalla lesione d’una salute, quelle che, sole, possano dirsi risarcibili ai sensi dell’articolo 1223 c.c..
Nel merito, tuttavia, il primo motivo di ricorso e’ infondato, in quanto corretto e’ stato, sub specie iuris, il criterio di determinazione del danno risarcibile adottato dalla Corte d’appello di Milano, e la conseguente liquidazione.
1.5. Le concause di lesione.
Come accennato, la preesistenza di malattie o menomazioni in capo alla persona vittima di lesioni personali puo’ rappresentare una concausa tanto della lesione della salute, quanto della menomazione che ne e’ derivata.
Se la preesistenza ha concausato la lesione iniziale dell’integrita’ psicofisica (come nel caso di scuola dell’emofiliaco cui venga inflitta una minuscola ferita), di essa non dovra’ tenersi conto nella liquidazione del danno, e tanto meno nella determinazione del grado di invalidita’ permanente.
In questo caso infatti la preesistenza della patologia costituisce una concausa naturale dell’evento di danno, ed il concorso del fatto dell’uomo con la concausa naturale rende quest’ultima giuridicamente irrilevante in virtu’ del precetto dell’equivalenza causale dettato dall’articolo 41 c.p. (come ripetutamente affermato da questa Corte: Sez. 3 -, Ordinanza n. 30922 del 22/12/2017, Rv. 647123 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 24204 del 13/11/2014, Rv. 633497 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 9528 del 12/06/2012, Rv. 622956 – 01; oltre che la gia’ ricordata Sez. 3, Sentenza n. 15991 del 21/07/2011, Rv. 618882 – 01).
1.6. Le menomazioni policrone coesistenti.
Se la preesistenza di malattie o menomazioni non ha concausato la lesione, ne’ ha aggravato o e’ stata aggravata dalla menomazione sopravvenuta (c.d. menomazioni “coesistenti”), anche in questo caso di essa non dovra’ teneri conto nella liquidazione del danno, e tanto meno nella determinazione del grado di invalidita’ permanente.
La preesistenza di menomazioni, infatti, quando queste non abbiano concorso a causare la lesione iniziale, puo’ teoricamente rilevare solo sul piano della causalita’ giuridica (articolo 1223 c.c.), vale a dire della delimitazione dei danni imputabili eziologicamente al responsabile.
Ma la causalita’ giuridica va accertata col criterio controfattuale: vale a dire stabilendo cosa sarebbe accaduto se l’infortunio non si fosse verificato.
Applicando il criterio controfattuale, non potranno darsi che due eventualita’: o le forzose rinunce patite dalla vittima in conseguenza del fatto illecito sarebbero state identiche, quand’anche la vittima fosse stata sana prima dell’infortunio; oppure quelle conseguenze dannose sono state amplificate dalla menomazione preesistente.
Nel primo caso la menomazione preesistente sara’ giuridicamente irrilevante.
Infatti l’articolo 1223 c.c. esclude dalla risarcibilita’ i danni che non siano conseguenza “immediata e diretta” del fatto illecito. Pertanto se i postumi permanenti causati dall’illecito non sono stati punto aggravati dalle menomazioni preesistenti, cio’ vuol dire che essi nella loro interezza sono conseguenza esclusiva del fatto illecito. Le preesistenze non li hanno amplificati, e se non li hanno amplificati quei postumi vanno ritenuti sono una conseguenza immediata dell’illecito, perche’ a produrli non ha concorso alcun fattore esterno.
Non possono, quindi, essere condivise le teorie che pretendono di ridurre il risarcimento del danno alla salute anche in presenza di preesistenze che non interferiscono con i postumi dell’illecito (cioe’ le c.d. lesioni policrone coesistenti). Tali teorie sono epigone dell’arcaica opinione medico-legale secondo cui costituirebbe “inoppugnabile principio di diritto” quello secondo cui “se la cosa danneggiata era fin da prima difettosa, di questo difetto si de(ve) tener conto”.
Tale preteso principio non solo non e’ infatti “inoppugnabile”, ma non e’ nemmeno esistente, dal momento che il danno alla salute consiste in una perdita, e la perdita va ascritta per intero al responsabile se, in assenza dell’illecito, essa non si sarebbe affatto verificata.
Pertanto non solo la liquidazione del risarcimento, ma anche, prima ancora, la determinazione del grado percentuale di invalidita’ permanente sofferto da persona gia’ menomata, quando lo stato anteriore della vittima non abbia inciso in alcun modo sui postumi concretamente prodotti dal secondo infortunio, va determinato come se a patire le conseguenze fosse stata una persona sana, in virtu’ della inesistenza di causalita’ giuridica tra stato anteriore e postumi.
Resta solo da aggiungere che il concetto di “coesistenza” va valutato a posteriori ed in concreto, non a priori ed in astratto.
Non si puo’, infatti, escludere aprioristicamente che successive menomazioni riguardanti lo stesso organo possano non aggravarsi le une a causa delle altre (si pensi a chi, avendo una ridotta capacita’ uditiva, patisca un trauma che provochi la sordita’, che pero’ sarebbe stata inevitabile anche se la lesione avesse attinto una persona sana; oppure all’ipotesi dell’amputazione d’un arto, gia’ anchilosato in posizione sfavorevole, la quale renda possibile una vantaggiosa protesizzazione).
Allo stesso modo, non puo’ proclamarsi a priori che menomazioni riguardanti organi diversi mai interferiscano tra loro (si pensi all’ipotesi della perdita del tatto in una persona non vedente).
Quel che dunque rileva, al fine della stima percentuale dell’invalidita’ permanente, non sono ne’ formule definitorie astratte (“concorrenza” o “coesistenza” delle menomazioni), ne’ il mero riscontro della medesimezza o diversita’ degli organi o delle funzioni menomati. Poiche’ si tratta di accertare un nesso di causalita’ giuridica, quel che rileva e’ il giudizio controfattuale, e dunque lo stabilire col metodo c.d. della “prognosi postuma” quali sarebbero state le conseguenze dell’illecito, in assenza della patologia preesistente. Se tali conseguenze possano teoricamente ritenersi pari sia per la vittima reale, sia per una ipotetica vittima perfettamente sana prima dell’infortunio, dovra’ concludersi che non vi e’ alcun nesso di causa tra preesistenze e postumi, i quali andranno percio’ valutati e quantificati come se a patirli fosse stata una persona sana.
In tal caso, pertanto, sul piano medico-legale il grado di invalidita’ permanente sofferto dalla vittima andra’ determinato senza aprioristiche riduzioni, ma appezzando l’effettiva incidenza dei postumi sulle capacita’, idoneita’ ed abilita’ possedute dalla vittima prima dell’infortunio.
1.7. Le menomazioni policrone concorrenti.
Veniamo ora all’ipotesi in cui lo stato anteriore della vittima non abbia concausato la lesione, ma abbia concausato il consolidarsi di postumi piu’ gravi, rispetto a quelli che avrebbe patito la vittima se fosse stata sana al momento dell’illecito.
Si e’ gia’ detto che, ricorrendo tale ipotesi, sorge per l’interprete il problema di accertare un nesso di causalita’ giuridica: stabilire, cioe’, se e quali, tra i postumi derivati dalla lesione, possano dirsi una “conseguenza immediata e diretta” dell’infortunio, ai sensi e per gli effetti dell’articolo 1223 c.c..
L’accertamento di tale nesso pone all’interprete due problemi:
-) il primo riguarda i criteri di accertamento del danno, e consiste nello stabilire se delle preesistenze si debba tenere conto nella determinazione del grado percentuale di invalidita’ permanente, attraverso calcoli o formule ad hoc; oppure se ne debba tenere conto nella aestimatio del risarcimento;
-) il secondo riguarda la liquidazione del danno, e consiste nell’individuare la regola giuridica che consenta di “sterilizzare” il risarcimento dai pregiudizi non causalmente imputabili al responsabile, ma senza violare il criterio di progressivita’ del quantum del danno biologico (secondo cui, a lesioni doppie, debbono corrispondere risarcimenti piu’ che doppi).
Ritiene questa Corte che i suddetti problemi debbano trovare le seguenti soluzioni:
(a) di eventuali preesistenze si deve tenere conto nella liquidazione del risarcimento, non nella determinazione del grado percentuale di invalidita’ permanente, il quale va determinato sempre e comunque in base all’invalidita’ concreta e complessiva riscontrata in corpore, senza innalzamenti o riduzioni, i quali si tradurrebbero in una attivita’ liquidativa esulante dai compiti dell’ausiliario medico-legale;
(b) di eventuali preesistenze si deve tenere conto, al momento della liquidazione, monetizzando l’invalidita’ accertata e quella ipotizzabile in caso di assenza dell’illecito, e sottraendo l’una dall’altra entita’.
Nei §§ che seguono si dara’ conto delle ragioni di tali affermazioni.
1.8. (A) L’accertamento del danno.
1.8.1. Nella dottrina medico-legale e nell’opinione di molti pratici e’ pressoche’ unanime e risalente la convinzione che, quando un infortunio vulneri una persona gia’ invalida, di tale circostanza sara’ il medico-legale a dovere tenere conto, nella determinazione del grado percentuale di invalidita’ permanente.
Niente affatto unanime, pero’, e’ il criterio che dovrebbe presiedere a tale valutazione.
Secondo una impostazione “classica”, in simili casi il grado percentuale di invalidita’ permanente andrebbe determinato in misura maggiore di quella tabellarmente prevista per analoghe invalidita’, in virtu’ del principio matematico per cui una riduzione percentuale identica, applicata su quantita’ diverse, incide maggiormente sulla quantita’ minore, coeteris paribus.
Una diversa opinione ritiene per contro che il grado di invalidita’ permanete concretamente accertato in corpore debba essere comunque ridotto quando la vittima fosse stata invalida gia’ prima dell’infortunio, giacche’ lo stato anteriore di validita’ in questo caso non potrebbe mai dirsi pari a “100”.
Molte, e molto diverse, sono state poi le indicazioni concrete circa il quomodo di aumento o riduzione – a seconda della scuola di pensiero – del grado di invalidita’ permanente: taluni hanno proposto di estendere alla materia della responsabilita’ civile regole dettate per l’infortunistica del lavoro; altri hanno ritenuto doversi applicare un criterio rigidamente proporzionalistico; altri ancora hanno elaborato formule ad hoc, il cui unico limite e’ stato la fantasia degli autori.
Ne’ sono mancati, infine, di quegli autori i quali hanno ritenuto che non possano dettarsi criteri generali ed astratti per la stima del grado percentuale di invalidita’ permanente patito da soggetto gia’ menomato, ma che il medico-legale dovrebbe in tal caso compiere le sue valutazioni caso per caso, ricorrendo “all’equita’”.
1.8.1. In argomento va subito sgombrato il campo da tale ultima opinione, siccome manifestamente erronea.
All’accertamento concreto del grado percentuale di invalidita’ permanente sono infatti estranei i concetti di equita’ e di iniquita’. L’equita’ e’ una regola di liquidazione del danno (articolo 1226 c.c.), ed insieme alle altre regole di liquidazione del danno (il principio di indifferenza e quello di integralita’) non viene in rilievo quando si tratta di accertare fatti, quale e’ il grado di invalidita’ permanente.
L’accertamento in facto della validita’ residuata all’infortunio e’ un accertamento concreto: e’ la descrizione di una condizione personale, che non puo’ essere compiuta preoccupandosi se la percentuale espressa dal criterio adottato per la relativa quantificazione sia equa od iniqua. Spettera’ all’organo giudicante, quando verra’ il momento di convertire in denaro la stima compiuta dal medico-legale, fare ricorso se del caso all’equita’ correttiva od a quella integrativa, ex articoli 1226 e 2056 c.c..
1.8.2. Non meno erronee, pero’, sono le opinioni secondo cui delle “preesistenze concorrenti” debba tenersi conto variando, attraverso calcoli e conteggi piu’ o meno sofisticati, il grado di invalidita’ permanente obiettivamente accertato in corpore, e che al giudice non resti altro da fare che convertire in denaro tale percentuale.
Questa opinione e’ erronea per due ragioni:
-) in facto, perche’ poggia su un presupposto ormai divenuto obsoleto;
-) in iure, perche’ non e’ coerente con la nozione di “danno biologico” adottata dal legislatore negli articoli 138 e 130 cod. ass. nel testo attualmente vigente e, in precedenza, gia’ divenuta diritto vivente nella giurisprudenza.
1.8.3. La stima del danno alla salute avviene, per convenzione, immaginando che sia pari a “100” la “validita’” (o “efficienza sociale”, o “salute” tout court che dir si voglia) d’una persona sana, e misurando rispetto a questo “benchmark” la perdita causata dai postumi residuati al sinistro.
Il grado di invalidita’ permanente dunque – e’ bene sottolinearlo sin d’ora – non e’ il danno, ma e’ solo l’unita’ di misura del danno. E’ la mensura, non il mensuratum.
La tecnica di misurare in percentuale le conseguenze d’una lesione della salute sorse molto tempo prima della nozione di danno alla salute.
Essa nacque alla fine del XIX sec., allorche’ i Paesi Europei economicamente piu’ avanzati iniziarono ad introdurre l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro.
Il nostro Paese vi provvide con la L. 17 marzo 1898, n. 80, il cui articolo 9, comma 1, secondo alinea, stabili’ che, in caso di infortunio produttivo di inabilita’ permanente al lavoro, l’indennizzo spettante alla vittima fosse “eguale a cinque volte la parte di cui e’ stato o puo’ essere ridotto il salario annuo”. In quell’epoca, infatti, non si concepiva l’autonoma risarcibilita’ della lesione della salute in se’ e per se’ considerata, e persino quella del danno non patrimoniale era fortemente contrastata (secondo Cass. Firenze 26.7.1915, in Foro ven., 1915, 548, ad esempio, “non e’ risarcibile il danno consistente nella perdita di un membro del corpo umano (…), se non si dimostri quale diminuzione patrimoniale certa ne sia per conseguire”).
Pertanto l’unico danno concepibile e misurabile, in quell’epoca, non poteva che essere la riduzione del salario: e si suppose, per praticita’ di calcolo, che tale riduzione potesse misurarsi in misura percentuale, facendo pari a “100” non gia’ l’efficienza sociale della vittima, ma la sua efficienza lavorativa.
Il principio venne ribadito dal Regio Decreto 31 gennaio 1904, n. 51, il cui regolamento di attuazione (Regio Decreto 13 marzo 1904, n. 141), agli articoli 94 e 96, dispose:
-) deve ritenersi come invalidita’ permanente parziale la conseguenza di un infortunio, “la quale diminuisca in parte ma essenzialmente e per tutta la vita, l’attitudine al lavoro” (Regio Decreto cit., articolo 94, comma 2);
-) “agli effetti della liquidazione dell’indennita’, il salario si considera ridotto nelle proporzioni seguenti” (articolo 95 Regio Decreto cit.; seguiva una “tabella” delle varie invalidita’, con la corrispondente indicazione della percentuale presunta di riduzione del salario: ad es., l’80% per la perdita d’un braccio; il 35% per la perdita d’un occhio, e cosi’ via).
Tale criterio venne recepito dalle leggi successive in tema di infortuni sul lavoro: il Regio Decreto 17 agosto 1935, n. 1765, ed il relativo regolamento attuativo (Regio Decreto 25 gennaio 1937, n. 200).
Dunque il calcolo percentuale delle conseguenze d’una lesione della salute, quando apparve nel mondo del diritto, vi apparve perche’ concepito per misurare la perdita del reddito e della capacita’ di produrlo, non certo la perdita della salute.
La capacita’ di lavoro e’ tuttavia una energia esauribile. E’ infatti ben concepibile che possa esistere un individuo vivente e capace di assolvere almeno le fondamentali funzioni vitali, ma totalmente inabile al lavoro.
Era pertanto logico e coerente con quel sistema che, dovendo misurarsi in punti percentuali la perduta capacita’ di lavoro, delle preesistenze si tenesse conto nella determinazione del grado di inabilita’. Sarebbe, stato, infatti, iniquo addossare al responsabile (o all’assicuratore contro gli infortuni) il pagamento d’una indennita’ corrispondente alla perdita dell’intero salario, quando la vittima gia’ prima dell’infortunio non era in grado di ottenere un salario di quel livello, od addirittura un qualsiasi salario.
Sicche’, essendo anche allora demandata al medico-legale la determinazione del grado percentuale di inabilita’ permanente, fu giocoforza che l’incidenza delle preesistenze fosse a lui demandata, e rifluisse nella determinazione (non del risarcimento, ma) della suddetta percentuale di inabilita’. Calcolo sempre possibile, perche’ avendo ogni lavoratore un salario, ed essendo esauribile la capacita’ di produrlo, ben poteva concepirsi un parametro di riferimento per la liquidazione del danno (l’inabilita’ assoluta totale, o 100% di inabilita’) uguale per tutti.
Le cose vanno ben diversamente, pero’, quando si tratta di stimare un danno alla salute.
La salute, infatti, al contrario della capacita’ di lavoro, e’ un bene inesauribile. Chiunque viva per cio’ solo ne possiede un’aliquota, ne’ sarebbe concepibile l’esistenza in vita d’una persona “senza salute”. Persino colui il quale fosse affetto da patologie gravissime conserverebbe pur sempre un suo stato di salute ed una sua validita’ biologica, per quanto compromesse (ragione per cui si e’ affermato rettamente che la misurazione della compromissione della salute “non consente scale centesimali finite”).
Questa ontologica differenza tra il danno da riduzione della capacita’ di lavoro ed il danno alla salute rende inutilizzabili i criteri concepiti per stimare l’incidenza delle preesistenze su una lesione della capacita’ di lavoro, quando si tratti di stimare l’incidenza delle preesistenze su una lesione della salute.
Rapporti, calcoli proporzionali ed equazioni – anche a prescindere dalla loro maggiore o minore condivisibilita’ scientifica – in questo secondo caso non restituiscono valori attendibili, perche’ non e’ concepibile un benchmark (il “100%” di validita’ biologica) uguale per tutti i danneggiati.
Chi, dopo aver perso meta’ dello stipendio per causa di inabilita’, patisca un secondo infortunio che lo obbliga a rinunciare ad un ulteriore quarto del suo reddito, ha patito un danno oggettivamente misurabile, quale che sia l’entita’ del suo reddito.
Chi, invece, avendo gia’ un ginocchio anchilosato in posizione sfavorevole, subisca l’anchilosi anche dell’altro, potra’ patire conseguenze ben diverse a seconda che sia giovane od anziano, dinamico o sedentario, ipocondriaco od esuberante; se vive solo od in compagnia, se ha parenti o no; se ha dovuto rinunciare ad attivita’ realizzatrici della sua personalita’, oppure no. Egli avra’ dunque una validita’ antesinistro (il “suo” 100%) non comparabile con quella degli altri individui, ed e’ rispetto a tale concreta validita’, e non a calcoli astratti, che andra’ determinata l’effettiva incidenza del danno alla salute.
E’, infatti, l’entita’ delle concrete rinunce indotte dalla menomazione che determina l’entita’ del danno, e tale entita’ puo’ rivelarsi nei singoli casi assai cospicua anche per una persona gia’ affetta da gravi invalidita’ se, nonostante queste, il danneggiato riusciva comunque a dedicarsi ad attivita’ per lui gratificanti, ed alle quali abbia dovuto rinunciare a causa del secondo infortunio.
E’ vero, poi, anche l’opposto: e cioe’ che invalidita’ anche gravi possano essere prive di conseguenze, se insuscettibili di modificare in pejus la qualita’ della vita della vittima (come nel caso di scuola del tetraplegico che patisca una frattura calcaneare).
1.8.4. L’opinione secondo cui le invalidita’ preesistenti all’infortunio impongano una variazione del grado percentuale di invalidita’ permanente obiettivamente accertato in corpore, e di esse debba tenere conto il medico-legale e non il giudice, oltre che fondata su un presupposto divenuto erroneo, e’ altresi’ non coerente col sistema della legge.
Come gia’ accennato, la liquidazione del danno alla salute deve essere rispettosa dei criteri dettati dall’articolo 1223 c.c. e l’articolo 1223 c.c. esclude dal novero dei danni risarcibili le conseguenze mediate ed indirette della condotta illecita od inadempiente.
La delimitazione del perimetro dei danni risarcibili, come si e’ gia’ illustrato in precedenza, e’ questione di causalita’ giuridica, e l’accertamento della causalita’ giuridica e’ compito eminente del giudice.
Nella stima del danno alla salute al medico-legale si demanda il prezioso compito di misurare l’incidenza della menomazione sulla vita della vittima, misurazione che come detto avviene, per risalente tradizione (oggi recepita dalla legge), in punti percentuali. Ma non va mai dimenticato che il grado percentuale di invalidita’ permanente non e’ che una unita’ di misura del danno, non la sua liquidazione. Quella misurazione non puo’ dunque che avvenire al netto di qualsiasi valutazione giuridica circa l’area della risarcibilita’, onde evitare che delle preesistenze si finisca per tenere conto due volte: dapprima dal medico-legale, quando determina il grado percentuale di invalidita’ permanente; e poi dal giudice, quando determina il criterio di monetizzazione dell’invalidita’.
Le osservazioni che precedono sono indirettamente confermate dalle “Istruzioni” contenute nell’allegato I al Decreto Ministeriale 3 luglio 2003 (in Gazz. Uff. 11.9.2003 n. 211), del quale fanno parte integrante per espressa previsione dell’articolo 1, col quale e’ stata approvata la tabella delle invalidita’ in base alla quale liquidare il danno permanente alla salute causato da sinistro stradali e consistito in postumi di lieve entita’, ex articolo 139 cod. ass..
Ivi infatti si stabilisce che “nel caso in cui la menomazione interessi organi od apparati gia’ sede di patologie od esiti di patologie, le indicazioni date dalla tabella andranno modificate a seconda della effettiva incidenza delle preesistenze rispetto ai valori medi”. Regola che, se rettamente intesa – come e’ doveroso – alla luce dei principi generali del diritto civile, null’altro significa se non che, quando si deve stimare il grado percentuale di invalidita’ permanente sofferto da persona gia’ invalida prima del sinistro, deve tenersi conto delle rinunce complessive cui questa sara’ soggetta, senza pretendere di dividere l’essere umano in porzioni anteriori e posteriori al sinistro.
1.8.5. In conclusione, l’accertamento del danno alla salute in presenza di postumi permanenti anteriori all’infortunio, i quali siano in rapporto di concorrenza con i danni permanenti causati da quest’ultimo, richiede al medico-legale di valutare innanzitutto il grado di invalidita’ permanente obiettivo e complessivo presentato dalla vittima, senza alcuna variazione in aumento od in diminuzione della misura standard suggerita dai bare’me medico-legali, e senza applicazione di alcuna formula proporzionale. Gli richiedera’ poi, come si dira’ tra breve, di quantificare in punti percentuali, il grado di invalidita’ permanente della vittima prima dell’infortunio, e fornire al giudice queste due indicazioni.
1.9. (B) La liquidazione del danno.
1.9.1. Detto come debba accertarsi il danno alla salute patito dalla persona gia’ invalida, resta da dire della sua liquidazione, ovviamente nei limiti in cui il relativo sindacato e’ consentito a questa Corte: e cioe’ stabilire quali siano i criteri liquidativi rispettosi dei principi di integralita’ e proporzionalita’ del risarcimento del danno alla salute.
Il danno permanente alla salute, come qualsiasi altro pregiudizio, consiste concettualmente in una differenza: quella tra le attivita’ che lo stato di salute della vittima le consentiva di svolgere prima dell’infortunio, e le attivita’ residue che invece le sono consentite dallo stato di salute consolidatosi dopo l’infortunio.
Anche il danno biologico patito da persona gia’ portatrice di postumi preesistenti consistera’ dunque in una differenza: per l’esattezza, esso e’ pari allo scarto tra le conseguenze complessivamente patite dalla vittima dell’infortunio (i postumi complessivi), e le piu’ lievi conseguenze dannose che la vittima avrebbe invece teoricamente dovuto tollerare a causa della sua patologia pregressa, se l’infortunio non si fosse verificato.
1.9.2. Si e’ detto tuttavia che il principio di causalita’ giuridica (articolo 1223 c.c.) impone di espungere dal novero delle conseguenze dannose risarcibili quelle preesistenti all’infortunio, e che il nesso di causalita’ giuridica tra evento lesivo e conseguenze dannose risarcibili va accertato:
-) sul piano del criterio di giudizio, con l’accertamento controfattuale: e cioe’ ipotizzando quale sarebbe potuta essere la condizione di salute della vittima, al momento della liquidazione, se l’illecito non ci fosse stato (ex multis, Sez. 3, Ordinanza n. 23197 del 27/09/2018, Rv. 650602 – 01; Sez. L, Sentenza n. 47 del 03/01/2017, Rv. 642263 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 2085 del 14/02/2012, Rv. 621799 – 01);
-) sul piano della prova, con la regola c.d. della “preponderanza dell’evidenza”, e cioe’ valutando se tra l’evento lesivo e le conseguenze dannose da esso causate sussista un legame probabilistico “relativo”: se, cioe’, tra tutte le cause astrattamente idonee a produrre il danno, l’evento lesivo rappresenti la meno improbabile nel caso specifico (ex multis, Sez. 3, Sentenza n. 25112 del 24/10/2017, Rv. 646451 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 25113 del 24/10/2017, Rv. 646452 – 02; Sez. 3, Sentenza n. 3390 del 20/02/2015, Rv. 634481 – 01).
1.9.3. Applicando il criterio controfattuale alla fattispecie qui in esame, non potranno darsi che due eventualita’: o le forzose rinunce patite dalla vittima in conseguenza del fatto illecito sarebbero state identiche, anche se la vittima fosse stata sana prima dell’infortunio; oppure quelle conseguenze dannose sono state amplificate dalla menomazione preesistente.
Nel primo caso la menomazione preesistente sara’ giuridicamente irrilevante, come gia’ detto.
Se, invece, in applicazione del giudizio controfattuale, dovesse concludersi che le conseguenze del fatto illecito, a causa della menomazione pregressa, sono state piu’ penose di quelle che si sarebbero verificate se la vittima fosse stata sana, la preesistenza diviene giuridicamente rilevante. Senza di essa, infatti, il danno ingiusto finale patito dalla vittima sarebbe stato minore.
Se dunque la preesistenza ha aggravato il danno patito dalla vittima, cio’ vuol dire che questo danno non e’ nella sua interezza una conseguenza immediata e diretta del fatto illecito, ma lo e’ soltanto per la parte che si sarebbe ugualmente verificata, anche se la vittima fosse stata sana. Per la parte restante, il danno e’ una conseguenza mediata, perche’ alla produzione di essa hanno concorso sia l’illecito, sia le preesistenze; per questa parte, dunque, il danno, benche’ in toto imputabile sul piano della causalita’ materiale, non e’ integralmente risarcibile, ai sensi dell’articolo 1223 c.c. (Sez. 3, Sentenza n. 15991 del 21/07/2011, Rv. 618882 – 01).
1.9.4. Ne consegue che la stima del danno alla salute patito da chi fosse portatore di patologie pregresse richiede innanzitutto che il medico legale fornisca al giudicante una doppia valutazione:
-) l’una, reale e concreta, indicativa dell’effettivo grado percentuale di invalidita’ permanente di cui la vittima sia complessivamente portatrice all’esito dell’infortunio, valutato sommando tutti i postumi riscontrati in vivo e non in vitro, di qualunque tipo e da qualunque causa provocati;
-) l’altra, astratta ed ipotetica, pari all’ideale grado di invalidita’ permanente di cui la vittima era portatrice prima dell’infortunio.
Ovviamente – non sara’ superfluo ricordarlo – nel formulare tali valutazioni il medico-legale resta sempre obbligato ad indicare il criterio adottato per pervenire alla determinazione del grado di invalidita’ permanente e il bare’me cui ha fatto riferimento. In assenza di tali precisazioni, infatti, sarebbe preclusa al giudice la possibilita’ di ripercorrere l’iter logico seguito dal medico-legale, e quindi di valutare la correttezza del suo operato.
1.9.5. Una volta stabilito il grado di invalidita’ permanente effettivo patito della vittima, e quello presumibile se il sinistro non si fosse verificato, la liquidazione del danno non puo’ certo avvenire sottraendo brutalmente il secondo dal primo, applicando (erroneamente) il criterio del frazionamento della causalita’ materiale.
Il risarcimento del danno alla salute, infatti, sia quando e’ disciplinato dalla legge, sia quando avvenga coi criteri introdotti dalla giurisprudenza, avviene comunque con modalita’ tali che il quantum debeatur cresce in modo piu’ che proporzionale rispetto alla gravita’ dei postumi: ad invalidita’ doppie corrispondono percio’ risarcimenti piu’ che doppi.
Ne consegue che tale principio ne resterebbe vulnerato se, nella stima del danno alla salute patito da persona gia’ invalida, si avesse riguardo solo al “delta”, ovvero all’incremento del grado percentuale di invalidita’ permanente ascrivibile alla condotta del responsabile.
Sono infatti, le funzioni vitali perdute dalla vittima e le conseguenti privazioni a costituire il danno risarcibile, non certo il grado di invalidita’, che ne e’ solo la misura convenzionale: e poiche’ le suddette sofferenze progrediscono con intensita’ geometricamente crescente rispetto al crescere dell’invalidita’, l’adozione del criterio sostenuto dalla societa’ ricorrente condurrebbe ad una sottostima del danno, e dunque ad una violazione dell’articolo 1223 c.c..
D’una persona invalida al 60%, che in conseguenza d’un fatto illecito divenga invalida al 70%, non si dira’ che ha patito una invalidita’ del 10%, da liquidare con criteri piu’ o meno modificati rispetto a quelli standard.
Si dira’, al contrario, che, sul piano della causalita’ materiale, ha patito una invalidita’ del 70%, perche’ questa e’ la misura del suo stato attuale di salute, e tale invalidita’ occorrera’ innanzitutto trasformare in denaro.
Dopodiche’, essendo una parte del suddetto pregiudizio slegata eziologicamente dall’evento illecito, per una stima del danno rispettosa dell’articolo 1223 c.c. non dovra’ farsi altro che trasformare in denaro il grado preesistente di invalidita’, e sottrarlo dal valore monetario dell’invalidita’ complessivamente accertata in corpore.
Il diverso criterio invocato dalla societa’ ricorrente, per contro, finirebbe per confondere il danno con la sua misura, perche’ lo identifica con la percentuale di invalidita’ permanente; e confonderebbe altresi’ la parte con il tutto, perche’ trascura di considerare che ogni individuo costituisce un unicum irripetibile, rispetto al quale le conseguenze dannose del fatto illecito vanno dapprima considerate e stimate nella loro globalita’, e poi depurate della quota non causalmente riconducibile alla condotta del responsabile.
Ma il danno alla salute consiste nelle rinunce forzose indotte dalla menomazione, non nel punteggio di invalidita’ permanente. Pertanto chi e’ invalido al 70% ha perduto – teoricamente – la possibilita’ di svolgere il 70% delle attivita’ precedentemente svolte, e la stima di questo danno non puo’ che avvenire ponendo a base del calcolo il valore monetario previsto per una invalidita’ del 70%.
Cosi’, ad esempio, il soggetto monocolo che abbia perso l’occhio sano in conseguenza della condotta illecita altrui, non potra’ vedersi risarcire, sic et simpliciter, il valore monetario della percentuale di invalidita’ prevista per la perdita di un occhio, dovendosi viceversa procedere alla quantificazione del risarcimento sulla base delle capacita’ perdute, e dunque sulla base della perdita dell’intero senso della vista, e non di quella dell’organo materialmente leso.
Ne’ ha pregio il rilievo secondo cui l’applicazione rigida di tale criterio potrebbe condurre ad esiti iniqui o paradossali. Infatti, dal momento che si versa pur sempre in tema di liquidazioni equitative ex articolo 1226 c.c., sara’ sempre possibile per il giudice di merito aumentare o ridurre il risultato finale del calcolo liquidatorio, ove le lo impongano le circostanze del caso concreto.
1.10. I principi di diritto sin qui esposti possono ora riassumersi come segue:
1) lo stato anteriore di salute della vittima di lesioni personali puo’ concausare la lesione, oppure la menomazione che da quella derivata;
2) la concausa di lesioni e’ giuridicamente irrilevante;
3) la menomazione preesistente puo’ essere concorrente o coesistente col maggior danno causato dall’illecito;
4) saranno “coesistenti” le menomazioni i cui effetti invalidanti non mutano per il fatto che si presentino sole od associate ad altre menomazioni, anche se afferenti i medesimi organi; saranno, invece, “concorrenti” le menomazioni i cui effetti invalidanti sono meno gravi se isolate, e piu’ gravi se associate ad altre menomazioni, anche se afferenti ad organi diversi;
5) le menomazioni coesistenti sono di norma irrilevanti ai fini della liquidazione; ne’ puo’ valere in ambito di responsabilita’ civile la regola sorta nell’ambito dell’infortunistica sul lavoro, che abbassa il risarcimento sempre e comunque per i portatori di patologie pregresse;
6) le menomazioni concorrenti vanno di norma tenute in considerazione:
a) stimando in punti percentuali l’invalidita’ complessiva dell’individuo (risultante, cioe’, dalla menomazione preesistente piu’ quella causata dall’illecito), e convertendola in denaro;
b) stimando in punti percentuali l’invalidita’ teoricamente preesistente all’illecito, e convertendola in denaro; lo stato di validita’ anteriore al sinistro dovra’ essere pero’ considerato pari al 100% in tutti quei casi in cui le patologie pregresse di cui il danneggiato era portatore non gli impedivano di condurre una vita normale;
c) sottraendo l’importo (b) dall’importo (a).
7) resta imprescindibile il potere-dovere del giudice di ricorrere all’equita’ correttiva ove l’applicazione rigida del calcolo che precede conduca, per effetto della progressivita’ delle tabelle, a risultati manifestamente iniqui per eccesso o per difetto.
1.11. La sentenza impugnata ha fatto corretta applicazione di questi principi.
Essa infatti ha accertato in fatto che, a causa del sinistro avvenuto nel (OMISSIS), (OMISSIS) ha patito conseguenze dannose che hanno reso piu’ penosa la menomazione di cui era gia’ portatore.
Ha accertato, dunque, l’esistenza di preesistenze “concorrenti” con quelle provocate dal sinistro, e le ha liquidate esattamente col criterio sopra indicato.
Ne’ rileva che la Corte d’appello abbia formalmente definito “coesistenti”, forse per un lapsus calami, i postumi di cui l’attore era portatore prima del secondo infortunio.
Quel che, rileva, infatti, e’ l’accertamento contenuto nella sentenza, non le formule definitorie da questa adottate: e la sentenza impugnata ha per l’appunto ritenuto che i postumi preesistenti di cui la vittima era portatrice fossero stati aggravati da quelli sopravvenuti. E, per quanto detto, se una menomazione gia’ preesistente e’ resa piu’ penosa da una seconda menomazione sopravvenuta, ci troviamo in presenza di postumi concorrenti, non coesistenti, la cui liquidazione dovra’ avvenire col criterio sopra indicato, e puntualmente applicato dalla Corte d’appello.
2. Il secondo motivo di ricorso.
2.1. Col secondo motivo la ricorrente lamenta la violazione dell’articolo 1226 c.c..
Sostiene che tale norma sarebbe stata violata perche’ la Corte d’appello, dinanzi ad una invalidita’ causata dal sinistro e consistente in una micropermanente (stimata in misura pari al 6,5% della totale validita’ dell’individuo), adottando il criterio sopra indicato avrebbe finito per liquidare alla vittima un risarcimento di 84.000 Euro, spropositato rispetto alla reale entita’ del danno.
2.2. Il motivo resta assorbito dal rigetto del primo motivo nella parte in cui lamenta la violazione dell’articolo 1226 c.c.. Lo stabilire, poi, se la misura del risarcimento liquidata dal giudice di merito dovesse o potesse essere ridotta in applicazione di equita’ correttiva e’ questione di puro merito, non sindacabile in questa sede.
3. Il terzo motivo di ricorso.
3.1. Col terzo motivo la ricorrente lamenta sia il vizio di nullita’ della sentenza, sia quello di omesso esame d’un fatto decisivo.
Deduce che la motivazione della sentenza sarebbe contraddittoria perche’ dapprima ha accertato l’insussistenza di un valido nesso di causa tra il sinistro e l’aggravamento delle patologie di cui la vittima era gia’ portatrice; nondimeno, pur avendo accertato tale nesso di causa, ha liquidato il danno col criterio differenziale sopra ricordato, affermando che l’infortunio aveva comunque provocato “un aggravamento delle precarie condizioni di salute della persona danneggiata”.
3.2. La censura e’ infondata.
La Corte d’appello, infatti, non ha mai affermato quel che la ricorrente pretende di farle dire: e cioe’ l’avere da un lato negato che l’infortunio del (OMISSIS) avesse aggravato quello del (OMISSIS); e dall’altro avere contraddittoriamente liquidato il danno ritenendo che le lesioni avessero provocato “un aggravamento delle condizioni di salute preesistenti”.
Il ragionamento seguito dalla Corte d’appello e’ stato ben diverso.
La Corte d’appello doveva stabilire in primo luogo se fosse vero quanto dedotto dall’attore, e cioe’ che fu l’infortunio del (OMISSIS) a rendere necessaria la protesi d’anca. Doveva, poi, liquidare il danno concretamente accertato.
La Corte d’appello, quanto al primo problema, ha escluso che fu il sinistro (OMISSIS) a rendere necessaria la protesi d’anca.
Avere escluso tale nesso di causa, tuttavia, non significava di per se’ escludere anche che l’infortunio del (OMISSIS) avesse reso piu’ penose le conseguenze dell’infortunio del (OMISSIS).
Infatti e’ perfettamente concepibile che i postumi di un secondo infortunio, pur non avendo determinato l’evoluzione peggiorativa di postumi pregressi, nondimeno li abbiano resi piu’ penosi.
Nel caso di specie, il secondo infortunio aveva per l’appunto attinto l’arto inferiore destro, cioe’ proprio quello gia’ interessato dai postumi precedenti.
Fu, percio’, corretta in punto di diritto l’affermazione compiuta dalla Corte d’appello, secondo cui anche quando una seconda lesione incida su organi diversi rispetto a quelli interessati dalla prima lesione, “e’ comunque necessario valutare il concreto impatto che il secondo infortunio ha prodotto sulla persona e, quindi, la concreta menomazione subita anche alla luce dell’inabilita’ pregressa”.
Questo principio, per quanto detto, e’ corretto dal punto di vista giuridico e medico-legale; lo stabilire poi in concreto se ed in che misura il secondo infortunio abbia inciso sulle conseguenze del primo e’ circostanza di fatto riservata al giudice di merito, non sindacabile in sede di legittimita’.
4. Le spese.
4.1. Le spese del presente grado di giudizio vanno compensate integralmente tra le parti, in considerazione della delicatezza e novita’ del tema trattato.
4.2. Il rigetto del ricorso costituisce il presupposto, del quale si da’ atto con la presente sentenza, per il pagamento a carico della parte ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione, ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, articolo 13, comma 1 quater, (nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, articolo 1, comma 17).

P.Q.M.

la Corte di cassazione:
(-) rigetta il ricorso;
(-) compensa integralmente tra le parti le spese del presente giudizio di legittimita’.

 

In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.

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