La personalizzazione del danno

Corte di Cassazione, sezione terza civile, Sentenza 27 maggio 2019, n. 14364.

La massima estrapolata:

La personalizzazione del danno non si basa su di un automatismo legato al punto di invalidità, ma postula l’individuazione di circostanze di danno “ulteriori” rispetto a quelle “ordinarie” che sono già compensate dalla liquidazione forfettizzata tabellare.

Sentenza 27 maggio 2019, n. 14364

Data udienza 7 novembre 2018

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. AMENDOLA Adelaide – Presidente

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere

Dott. GRAZIOSI Chiara – Consigliere

Dott. GIANNITI Pasquale – Consigliere

Dott. GUIZZI Stefano Giaime – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
sul ricorso 1049/2017 proposto da:
(OMISSIS), elettivamente domiciliata in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), rappresentata e difesa dagli avvocati (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS) giusta procura speciale in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
(OMISSIS) SPA, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), che la rappresenta e difende giusta procura speciale in calce al controricorso;
– controricorrente –
e contro
(OMISSIS), (OMISSIS);
– intimati –
avverso la sentenza n. 6365/2016 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 21/11/2016;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 07/11/2018 dal Consigliere Dott. STEFANO GIAIME GUIZZI;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CARDINO Alberto, che ha concluso per l’accoglimento parziale del 1 motivo di ricorso;
udito l’Avvocato (OMISSIS);
udito l’Avvocato (OMISSIS).

FATTI DI CAUSA

1. (OMISSIS) ricorre, sulla base di sei motivi, per la cassazione della sentenza n. 6365/16, del 21 novembre 2016, della Corte di Appello di Roma, che – accogliendo solo parzialmente il gravame dalla stessa esperito contro la sentenza n. 120/11, del 4 febbraio 2011, del Tribunale di Frosinone – ha condannato, in solido, (OMISSIS) e la societa’ (OMISSIS) S.p.a., poi divenuta, all’esito di diverse vicende societarie, (OMISSIS) S.p.a. (d’ora in poi, ” (OMISSIS)”) a risarcire, all’odierna ricorrente, i danni alla persona conseguenti al sinistro stradale occorsole in data (OMISSIS), sulla strada provinciale (OMISSIS).
2. Riferisce, in punto di fatto, la ricorrente di aver convenuto in giudizio la societa’ (OMISSIS) S.p.a., (OMISSIS) e (OMISSIS), per conseguire da costoro il risarcimento del danno, nelle rispettive qualita’ di assicuratore, proprietario e conducente della vettura a bordo della quale ella viaggiava, in qualita’ di terza trasportata, in occasione del sinistro occorsole nelle circostanze di tempo e luogo sopra meglio indicate.
Costituitasi in giudizio la societa’ assicuratrice, la stessa, non senza proporre eccezioni pregiudiziali, deduceva, nel merito, il concorso colposo dell’ente proprietario della strada, nonche’ quello della stessa vittima del sinistro, ex articolo 172 C.d.S..
Si costituiva in giudizio anche il (OMISSIS), contestando la domanda attorea.
Il Tribunale di Frosinone, accogliendo solo parzialmente la domanda risarcitoria, condannava il (OMISSIS), in solido con la societa’ (OMISSIS) S.p.a., al risarcimento dei danni, liquidati, all’attualita’ e al netto degli acconti versati, in Euro 512.628,19, oltre interessi legali dalla data della sentenza o il saldo, compensando, nella misura della meta’, le spese di lite.
La (OMISSIS) proponeva appello avverso la predetta sentenza, sulla base di quattro motivi, attinenti all’errata liquidazione del risarcimento del danno biologico, temporaneo e permanente, alla esigua personalizzazione a titolo di danno morale, all’omesso riconoscimento del danno patrimoniale da lucro cessante e, per quanto qui ancora di interesse, all’ingiusta compensazione parziale delle spese giudiziali.
Costituitisi nel giudizio di appello sia la societa’ assicuratrice che il (OMISSIS), disposto il mutamento del rito e, quindi, integrate le difese a norma dell’articolo 426 c.p.c., la Corte di Appello decideva il giudizio accogliendo solo parte del primo motivo di gravame, liquidando, cosi’, una somma aggiuntiva a titolo di risarcimento del danno da invalidita’ temporanea parziale, rigettandolo per la restante parte.
3. Avverso tale decisione ricorre per cassazione la (OMISSIS), sulla base di sei motivi.
3.1. Con il primo motivo – proposto ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., comma 1, nn. 3) e 4) – si deduce violazione degli articoli 2056, 1226 e 1223 c.c. e dell’articolo 3 Cost., oltre che degli articoli 2727 e 2729 c.c., nonche’ difetto assoluto di motivazione e conseguente violazione dell’articolo 132 c.p.c., comma 1, n. 4) e articolo 111 Cost., comma 6.
Ci si duole, nella sostanza, del rigetto, da parte della Corte capitolina, dei primi due motivi di gravame, relativi alla liquidazione sia del danno da invalidita’ permanente che del danno morale, in quanto avvenuta in modo non conforme al criterio tabellare adottato dal primo giudice.
In particolare, si contesta l’affermazione del giudice di appello quanto alla doglianza relativa alla utilizzazione di un valore tabellare non corrispondente all’eta’ della danneggiata – secondo cui l’eta’ costituirebbe solo uno dei parametri per la liquidazione del danno biologico.
Si censura, inoltre, la decisione della Corte capitolina di confermare la liquidazione del danno morale in misura del 30% del danno biologico (in luogo del valore medio, risultante dalle tabelle romane, pari ad almeno il 45%), giacche basata sul rilievo che, nel caso di specie, la (OMISSIS), in quanto coniuge del conducente dell’auto, avrebbe dovuto attivarsi per indurre il vettore a moderare la velocita’.
Orbene, sul presupposto che si sarebbe formato un giudicato interno sul criterio liquidativo adottato dal primo giudice, ovvero il ricorso alle cosiddette “tabelle” del Tribunale di Roma, si lamenta che tale criterio doveva essere correttamente applicato, richiamando, al riguardo, quanto affermato da questa Corte, seppur relativamente all’applicazione delle “tabelle” milanesi (e’ citata Cass. Sez. 3, sent. 7 giugno 2011, n. 12408).
In particolare, si evidenzia come le “tabelle” romane diano rilievo, nella determinazione del valore del punto, a due soli parametri: l’eta’ del soggetto danneggiato e la gravita’ delle lesioni, di talche’, a parita’ di lesioni, la corretta applicazione del criterio equitativo, in difetto di elementi tali da indurre a discostarsene, imponeva di applicare il valore tabellare corrispondente all’effettiva eta’ della danneggiata. Di qui, pertanto, la violazione non solo degli articoli 2056, 1226, 1223 c.c., ma anche dell’articolo 3 Cost., comma 1, essendosi violato il principio dell’uniformita’ di trattamento dei soggetti che versino in identiche condizioni.
Quanto, invece, al danno morale, si premette come esso debba essere oggetto di autonoma liquidazione, da compiersi sulla base di un criterio oggettivo che assuma a riferimento il corrispondente danno subito, presuntivamente, dalla vittima dell’illecito, in ragione dell’entita’ degli effetti meramente biologici della lesione della sua persona. Si tratta di operazione che nulla ha a che vedere con quella cosiddetta di “personalizzazione” del danno biologico, proprio perche’ ha fondamento presuntivo e carattere oggettivo, prendendo a riferimento una situazione media. Orbene, in base alle “tabelle” romane, tale danno viene mediamente, ed in via presuntiva, liquidato – per lesioni comportanti postumi di invalidita’ permanente (come nella specie) compresi tra il 60 ed il 70 % – nella misura del 45% del danno biologico, di talche’ il giudice di appello, nel disporre una liquidazione nella misura inferiore del 30%, senza indicare le ragioni che giustificavano il discostamento dalla percentuale normalmente applicata, sarebbe incorso, nuovamente, in una violazione delle norme sopra richiamate, nonche’ degli articoli 2727 e 2729 c.c.. Difatti, in carenza di elementi di segno diverso, proprio le norme codicistiche in tema di presunzioni imponevano di ritenere, in applicazione di regole di comune esperienza, quale liquidazione equitativa piu’ corretta, quella facente applicazione del criterio tabellare adottato. Infine, si evidenzia come il riferimento, contenuto nella sentenza impugnata, alla necessita’ di contenere il danno morale nella misura del 30% del biologico, quale conseguenza dello stesso comportamento della vittima del sinistro, violi il giudicato formatosi sulla esclusiva responsabilita’ del conducente nella causazione dello stesso, integrando quell’ipotesi di motivazione illogica e gravemente contraddittoria, suscettibile di assumere rilevanza come carenza assoluta della stessa.
3.2. Con il secondo motivo – proposto ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 4) – si deduce violazione dell’articolo 112 c.p.c..
Si censura, in questo caso, la sentenza impugnata perche’ la Corte territoriale non avrebbe minimamente esaminato una specifica articolazione del secondo motivo di gravame, ed esattamente quella con cui l’odierna ricorrente aveva chiesto procedersi alla personalizzazione del risarcimento, al fine di tenere conto delle effettive sofferenze morali subite anche in relazione al periodo di invalidita’ temporanea.
Sul rilievo, in particolare, che le “tabelle” romane – a differenza di quelle milanesi, che prevedono una liquidazione omnicomprensiva del danno non patrimoniale da lesione dell’integrita’ psicofisica contemplano un’autonoma liquidazione del danno morale soggettivo, la ricorrente evidenzia che la corretta applicazione di tale criterio imponeva di liquidare il risarcimento del danno morale anche in relazione all’invalidita’ temporanea.
3.3. Il terzo motivo – proposto ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 4) – assume il difetto assoluto di motivazione e la conseguente violazione dell’articolo 132 c.p.c., comma 1, n. 4) e articolo 111 Cost., comma 6.
La doglianza investe, in questo caso, il rigetto della domanda di risarcimento del danno da lucro cessante.
Si deduce, al riguardo, come la circostanza relativa allo svolgimento di attivita’ lavorativa, da parte di essa (OMISSIS), prima del sinistro occorsole, dovesse ritenersi pacifica. Parimenti, anche il fatto della cessazione della stessa, all’esito delle lesioni riportate, risulterebbe provato dalle dichiarazioni della teste (OMISSIS) e dalla risposta all’interpello del convenuto (OMISSIS), nonche’, almeno presuntivamente, dalle risultanze della espletata CTU.
Di conseguenza, la motivazione con cui la Corte di Appello ha rigettato, sul punto, la domanda risarcitoria – ovvero la tardivita’ delle produzioni documentali effettuate da parte attrice a supporto della stessa – non sarebbe affatto idonea a dare risposta alle critiche svolte con il motivo di gravame, attinenti sia all’omessa considerazione della prova testimoniale (motivata in forza di un aprioristico giudizio di inattendibilita’ della teste, in quanto figlia della ricorrente), sia alla mancata valutazione della confessione del convenuto (OMISSIS), ex articolo 2733 c.c..
3.4. Il quarto motivo – proposto, come i restanti due, subordinatamente al terzo – deduce, ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 4), violazione dell’articolo 115 c.p.c. e articolo 416 c.p.c., comma 3.
Si assume che il pregresso svolgimento di attivita’ lavorativa, da parte dell’odierna ricorrente, presso un’impresa di pulizie, non avrebbe formato oggetto di contestazione, ad opera della convenuta societa’ assicuratrice, secondo quanto attestato dalla riproduzione, nel presente ricorso, di stralci degli scritti defensionali della stessa. Tale fatto, dunque, avrebbe dovuto ritenersi pacifico, dispensando l’allora attrice dall’onere di doverlo provare, anche sulla scorta di quanto affermato da Cass. Sez. Un., sent. 29 maggio 2014, n. 12065.
3.5. Il quinto motivo – che costituisce logico sviluppo del precedente e vale a completarlo – deduce, ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5), omesso esame di un fatto decisivo del giudizio oggetto di discussione tra le parti, vale a dire la circostanza che essa ricorrente abbia smesso effettivamente di lavorare dopo il sinistro.
Ci si duole del fatto che la Corte di Appello non si sia minimamente curata di esaminare tale fatto, sebbene allegato come costitutivo della pretesa risarcitoria relativa al danno patrimoniale da lucro cessante, fatto, peraltro, confermato dal materiale istruttorio in atti, ovvero il gia’ ricordato interrogatorio formale di (OMISSIS), la deposizione testimoniale di (OMISSIS), nonche’ le risultanze della consulenza tecnica d’ufficio.
3.6. Il sesto motivo ipotizza, ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3), violazione degli articoli 2727, 2729 e 2043 c.c..
Nel rammentare che la prova del danno da lucro cessante puo’ avere anche natura presuntiva, la ricorrente – sul presupposto, nuovamente, che sarebbe stata raggiunta prova, nella specie, dello svolgimento di attivita’ lavorativa prima del sinistro, nonche’ della cessazione della stessa in conseguenza di esso – ritiene che potesse presumersi, anche in ragione del fatto che la lesione subita non rientra nel novero delle cosiddette “micropermanenti”, una menomazione della capacita’ lavorativa specifica e, dunque, la riduzione della capacita’ di guadagno nella sua proiezione futura.
4. Ha resistito con controricorso, all’avversaria impugnazione, la sola societa’ (OMISSIS), chiedendone il rigetto o la declaratoria di inammissibilita’.
Su di un piano generale essa osserva che i primi due motivi di ricorso attengono a decisioni riservate, esclusivamente, ai giudici di merito, nonche’ assunte, nella specie, con pronunce tra loro conformi.
Piu’ in generale, si rileva come risulti incensurabile, in sede di legittimita’, la valutazione equitativa del danno. Si evidenzia, inoltre, come – nella specie – il Tribunale di Frosinone non abbia affatto applicato, diversamente da quanto sostenuto dalla ricorrente, le “tabelle” romane, giacche, “ab illo tempore”, detto ufficio giudiziario farebbe applicazione di quelle milanesi.
In ogni caso, si assume l’infondatezza del primo motivo di ricorso, innanzitutto perche’ l’eta’ da prendere in considerazione per liquidare il danno biologico permanente e’ quella della vittima non al momento del sinistro, bensi’ della cessazione dell’invalidita’ temporanea (viene citata Cass. Sez. 3, sent. 21 giugno 2012, n. 10303). In relazione, invece, alla liquidazione del danno morale, si rileva come, nella specie, trovi applicazione l’articolo 138, comma 3, cod. assicurazioni, che per la liquidazione del danno incidente sugli aspetti dinamico relazionali personali consente un aumento, nella misura fino al 30%, dell’importo previsto dalla tabella unica nazionale. Nella specie, peraltro, la parte neppure avrebbe assolto l’onere probatorio, su di essa gravante, di dimostrare l’esistenza e l’entita’ di tale danno. Si esclude, infine, che ricorra l’ipotesi della motivazione apparente, “sub specie” di contrasto insanabile tra affermazioni inconciliabili.
Quanto al secondo motivo di ricorso, si evidenzia come la pretesa della ricorrente, oggetto dello stesso, porterebbe ad un’indebita duplicazione di poste risarcitorie, gia’ considerate nell’ambito della valutazione equitativa del danno non patrimoniale, operata dal giudice di primo grado.
Il terzo motivo di impugnazione sarebbe, invece, inammissibile, giacche’ tenderebbe a sollecitare un riesame, nel merito, della controversia, ed in particolare una complessiva rivalutazione del materiale probatorio, il cui apprezzamento e’ precluso in sede di legittimita’.
Analoga conclusione si imporrebbe per i motivi quarto, quinto e sesto, i quali tenderebbero ad obliterare il fatto che la ricorrente non ha prodotto, nel rispetto dei termini processuali, i documenti necessari a sostenere la domanda di risarcimento del danno da lucro cessante, ed esattamente: il contratto di lavoro, le buste paga, la lettera di licenziamento, il conteggio per il trattamento di fine rapporto, la dichiarazione ex articolo 142 cod. assicurazioni.
5. La ricorrente ha presentato memoria, ex articolo 378 c.p.c., insistendo nelle proprie argomentazioni e replicando a quelle avversarie.

RAGIONI DELLA DECISIONE

6. Il ricorso va rigettato.
6.1. Il primo motivo – che si articola in due diverse censure – non e’ fondato.
6.1.1. Esso, laddove denuncia, in particolare con la prima censura, l’errore – asseritamente commesso nella liquidazione del danno biologico da invalidita’ permanente – consistito nell’assumere un valore tabellare non corrispondente all’eta’ della danneggiata, non tiene conto del fatto (come rilevato nel controricorso) che “nella liquidazione del danno biologico permanente occorre fare riferimento all’eta’ della vittima non al momento del sinistro, ma a quello di cessazione dell’invalidita’ temporanea, perche’ solo a partire da tale momento, con il consolidamento dei postumi, quel danno puo’ dirsi venuto ad esistenza” (da ultimo, Cass. Sez. 3, sent. 7 febbraio 2017, n. 3121, Rv. 642722-01; Cass. Sez. 3, sent. 21 giugno 2013, n. 10303, Rv. 623138-01).
6.1.2. Quanto alla seconda censura, ovvero quella relativa alla disposta liquidazione del danno morale nella misura solo del 30% di quello biologico (in luogo del valore medio, risultante dalle “tabelle” romane, pari ad almeno il 45%), va osservato quanto segue.
In primo luogo, deve premettersi che – ricorrendo la fattispecie del danno non patrimoniale da lesione della salute – e’ possibile “una differente ed autonoma valutazione”, da parte del giudice, “con riferimento alla sofferenza interiore patita dal soggetto in conseguenza della lesione del suo diritto alla salute (c.d. danno morale), come confermato dalla nuova formulazione del Decreto Legislativo n. 209 del 2005, articolo 138, comma 2, lettera e), nel testo modificato dalla L. n. 124 del 2017” (Cass. Sez. 3, sent. 17 gennaio 2018, n. 901, Rv. 647125-03), e cio’ in quanto “la fenomenologia del pregiudizio non patrimoniale” suddetto “comprende tanto l’aspetto interiore del danno sofferto (danno morale “sub specie” di dolore, vergogna, disistima di se’, paura, disperazione), quanto quello dinamico-relazionale, coincidente con la modificazione peggiorativa delle relazioni di vita esterne del soggetto” (Cass. Sez. 3, ord. 20 agosto 2018, n. 20795, Rv. 650413-01).
Le modalita’, pero’, di liquidazione di tale danno – diversamente da quanto assume la ricorrente – si identificano proprio nella “personalizzazione” del danno biologico.
Difatti, ha affermato – di recente – questa Corte che “in presenza d’un danno alla salute, non costituisce duplicazione risarcitoria la congiunta attribuzione d’una somma di denaro a titolo di risarcimento del danno biologico, e d’una ulteriore somma a titolo di risarcimento dei pregiudizi che non hanno fondamento medico-legale, perche’ non aventi base organica ed estranei alla determinazione medico-legale del grado percentuale di invalidita’ permanente, rappresentati dalla sofferenza interiore (quali, ad esempio, il dolore dell’animo, la vergogna, la disistima di se’, la paura, la disperazione)”, di talche’, ove “sia correttamente dedotta ed adeguatamente provata l’esistenza d’uno di tali pregiudizi non aventi base medico-legale, essi dovranno formare oggetto di separata valutazione e liquidazione” (cosi’, in motivazione, Cass. Sez. 3, ord. 27 marzo 2018, n. 7513, Rv. 64830301).
Il presupposto di tale affermazione e’ la constatazione che “la lesione della salute risarcibile” si identifica “nella compromissione delle abilita’ della vittima nello svolgimento delle attivita’ quotidiane tutte, nessuna esclusa: dal fare, all’essere, all’apparire”, sicche’ lungi dal potersi affermare “che il danno alla salute “comprenda” pregiudizi dinamico-relazionali” dovra’ dirsi “piuttosto che il danno alla salute e’ un danno “dinamico-relazionale””, giacche’, se “non avesse conseguenze “dinamico-relazionali”, la lesione della salute non sarebbe nemmeno un danno medico-legalmente apprezzabile e giuridicamente risarcibile”. Ne deriva, pertanto, che “l’incidenza d’una menomazione permanente sulle quotidiane attivita’ “dinamico-relazionali” della vittima non e’ affatto un danno diverso dal danno biologico”, restando, pero’, inteso che, in presenza di una lesione della salute, potranno si’ aversi le “conseguenze dannose piu’ diverse, ma tutte inquadrabili teoricamente in due gruppi”, ovvero, “conseguenze necessariamente comuni a tutte le persone che dovessero patire quel particolare tipo di invalidita’” e “conseguenze peculiari del caso concreto, che abbiano reso il pregiudizio patito dalla vittima diverso e maggiore rispetto ai casi consimili”. Orbene, se tutte tali conseguenze, indifferentemente, “costituiscono un danno non patrimoniale”, resta inteso che “la liquidazione delle prime tuttavia presuppone la mera dimostrazione dell’esistenza dell’invalidita’”, laddove “la liquidazione delle seconde esige la prova concreta dell’effettivo (e maggior) pregiudizio sofferto”. In questo quadro, pertanto, “la perduta possibilita’ di continuare a svolgere una qualsiasi attivita’, in conseguenza d’una lesione della salute, non esce dall’alternativa: o e’ una conseguenza “normale” del danno (cioe’ indefettibile per tutti i soggetti che abbiano patito una menomazione identica), ed allora si terra’ per pagata con la liquidazione del danno biologico; ovvero e’ una conseguenza peculiare, ed allora dovra’ essere risarcita, adeguatamente aumentando la stima del danno biologico”, attraverso la sua “personalizzazione”.
Ne consegue, pertanto, che l’operazione di “personalizzazione” impone “al giudice far emergere e valorizzare, dandone espressamente conto in motivazione in coerenza alle risultanze argomentative e probatorie obiettivamente emerse ad esito del dibattito processuale, specifiche circostanze di fatto, peculiari al caso sottoposto ad esame, che valgano a superare le conseguenze “ordinarie” gia’ previste e compensate dalla liquidazione forfettizzata assicurata dalle previsioni tabellari” (cosi’ Cass. Sez. 3, sent. 21 settembre 2017, n. 21939, Rv. 645503-01), e cio’ in quanto “le conseguenze dannose da ritenersi normali e indefettibili secondo l'”id quod plerumque accidit” (ovvero quelle che qualunque persona con la medesima invalidita’ non potrebbe non subire) non giustificano alcuna personalizzazione in aumento del risarcimento” (cosi’, nuovamente, Cass. Sez. 3, ord. 7513 del 2018, cit.).
Alla stregua di tali premesse, dunque, la “personalizzazione” del danno patrimoniale in misura ancora superiore rispetto a quella (gia’) disposta dal primo giudice, lungi dal potersi fondare su di una sorta di “automatismo” legato all’entita’ del postumo di invalidita’, avrebbe richiesto l’individuazione di circostanze specifiche “ulteriori” rispetto a quelle “ordinarie”, come detto, non solo “compensate dalla liquidazione forfettizzata assicurata dalle previsioni tabellari”, ma addirittura da una somma (gia’) maggiorata nella misura del 30%.
Di qui, pertanto, l’infondatezza del primo motivo.
6.2. Anche il secondo motivo non e’ fondato.
6.2.1. Al riguardo va, innanzitutto, notato che la pretesa di un’autonoma (e, nuovamente, “aggiuntiva”) personalizzazione del danno morale, in relazione all’invalidita’ temporanea patita, non risulta conforme all’indirizzo osservato, da tempo, da questa Corte.
Si e’, infatti, affermato che “in tema di risarcimento del danno da fatto illecito, la liquidazione del danno morale, poiche’ ha natura satisfattoria della sofferenza determinata dall’illecito, integrante anche reato, va effettuata unitariamente in relazione al singolo fatto illecito (cioe’ al singolo reato), senza che possa scomporsi in varie voci, in relazione ad esempio ad un danno per inabilita’ permanente e ad un danno per invalidita’ temporanea” (Cass. Sez. 3, sent. 24 giugno 2003, n. 10022, Rv. 564523-01).
Inoltre, deve rilevarsi che nessuna omissione di pronuncia e’ addebitabile al giudice di appello, alla luce di una valutazione complessiva – e non meramente “atomistica” – dei motivi di gravame sottoposti al suo vaglio.
La Corte capitolina, infatti, nell’accogliere il primo motivo di appello, relativo all’omesso computo – nella liquidazione del complessivo danno biologico patito dalla (OMISSIS) – della voce relativa al danno da invalidita’ temporanea, ha rigettato il secondo, con il quale, oltre ad una non adeguata personalizzazione del danno “morale”, si lamentava il mancato autonomo rilievo assegnato a tale voce, ritenendo complessivamente congrua la stima operata dal primo giudice. Trova, pertanto, applicazione il principio secondo cui “non ricorre il vizio di omessa pronuncia, nonostante la mancata decisione su un punto specifico, quando la decisione adottata comporti una statuizione implicita di rigetto sul medesimo” (da ultimo, Cass. Sez. 5, ord. 6 dicembre 2017, n. 29191, Rv. 64629001).
6.3. Neanche il terzo motivo di ricorso risulta fondato.
6.3.1. Non ricorre la dedotta carenza di motivazione in relazione al rigetto della domanda di risarcimento del danno patrimoniale da lucro cessante, giacche’ la Corte territoriale ha posto a fondamento della propria decisione la constatazione della tardiva produzione dei documenti necessari a supportare siffatta pretesa risarcitoria.
Siffatta motivazione non e’, evidentemente, sindacabile in questa sede.
Difatti, ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5) – nel testo “novellato” dal Decreto Legge 22 giugno 2012, n. 83, articolo 54, comma 1, lettera b), convertito con modificazioni dalla L. 7 agosto 2012, 134 (applicabile “ratione temporis” al presente giudizio) – il sindacato di questa Corte e’ destinato ad investire la parte motiva della sentenza solo entro il “minimo costituzionale” (cfr. Cass. Sez. Un., sent. 7 aprile 2014, n. 8053, Rv. 629830-01, nonche’, “ex multis”, Cass. Sez. 3, ord. 20 novembre 2015, n. 23828, Rv. 63778101; Cass. Sez. 3, sent. 5 luglio 2017, n. 16502, Rv. 637781-01).
Lo scrutinio di questa Corte e’, dunque, ipotizzabile solo in caso di motivazione “meramente apparente”, configurabile, oltre che nell’ipotesi di “carenza grafica” della stessa, quando essa, “benche’ graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perche’ recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento” (Cass. Sez. Un., sent. 3 novembre 2016, n. 22232, Rv. 641526-01), o perche’ affetta da “irriducibile contraddittorieta’” (cfr. Cass. Sez. 3, sent. 12 ottobre 2017, n. 23940, Rv. 645828-01), ovvero connotata da “affermazioni inconciliabili” (da ultimo, Cass. Sez. 6-Lav., ord. 25 giugno 2018, n. 16111, Rv. 649628-01), mentre “resta irrilevante il semplice difetto di “sufficienza” della motivazione” (Cass. Sez. 2, ord. 13 agosto 2018, n. 20721, Rv. 650018-01).
Nel caso di specie, come detto, la motivazione della Corte territoriale risulta tutt’altro che imperscrutabile o radicalmente contraddittoria.
6.4. Infine, i motivi quarto, quinto e sesto – suscettibili di trattazione congiunta, giacche’ relativi al medesimo tema (quello del risarcimento del danno patrimoniale da perdita della capacita’ lavorativa) – sono inammissibili.
6.4.1. Difatti, anche a ritenere non contestato (circostanza su cui insiste il quarto motivo di ricorso) il fatto dello svolgimento dell’attivita’ lavorativa, da parte della (OMISSIS), prima del sinistro occorsole, cio’ non basterebbe – come riconosce la stessa ricorrente ai fini dell’accoglimento della pretesa dalla stessa azionata per conseguire il ristoro del danno da perdita della capacita’ lavorativa.
Resterebbe, infatti, pur sempre da dimostrare la cessazione dell’attivita’ in conseguenza del sinistro (fatto, invece, sempre contestato dalla convenuta compagnia assicuratrice), non potendosi accogliere il presente ricorso laddove – quinto motivo – risulta diretto a censurare, nella sostanza, la scelta del giudice di merito di disattendere, sul punto, le risultanze della prova per interpello, di quella testimoniale e della CTU.
Al riguardo, infatti, e’ sufficiente richiamare il principio secondo cui “l’apprezzamento dei fatti e delle prove e’ sottratto al sindacato di legittimita’, dal momento che, nell’ambito di quest’ultimo, non e’ conferito il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice di merito, cui resta riservato di individuare le fonti del proprio convincimento e, all’uopo, di valutare le prove, controllarne attendibilita’ e concludenza e scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione” (“ex multis”, Cass. Sez. 6-5, ord. 7 aprile 2017, n. 9097, Rv. 643792-01).
D’altra parte, e sempre con riferimento alla pretesa di sindacare l’apprezzamento che la Corte territoriale ha fatto delle risultanze istruttorie, sebbene prospettata “sub specie” di violazione dell’articolo 115 c.p.c., deve ribadirsi come l’eventuale “cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non da’ luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo inquadrabile nel paradigma dell’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5), (che attribuisce rilievo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e presenti carattere decisivo per il giudizio), ne’ in quello del precedente n. 4), disposizione che – per il tramite dell’articolo 132 c.p.c., n. 4), da’ rilievo unicamente all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante” (Cass. Sez. 3, sent. 10 giugno 2016, n. 11892, Rv. 640194-01; in senso conforme, tra le altre, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. 12 ottobre 2017, n. 23940; Cass. Sez. 3, sent. 12 aprile 2017, n. 9356, Rv. 644001-01; Cass. Sez. 3, ord. 30 ottobre 2018, n. 27458).
Infine, la ritenuta – dal giudice di merito – assenza di prova circa il nesso di derivazione eziologica tra cessazione dell’attivita’ lavorativa e sinistro subito rende superfluo interrogarsi (sesto motivo) sulla violazione delle norme in tema di presunzioni addebitata alla sentenza impugnata.
Questa Corte, infatti, ha di recente affermato che, in “tema di presunzioni di cui all’articolo 2729 c.c., la denunciata mancata applicazione di un ragionamento presuntivo che si sarebbe potuto e dovuto fare, ove il giudice di merito non abbia motivato alcunche’ al riguardo (e non si veda nella diversa ipotesi in cui la medesima denuncia sia stata oggetto di un motivo di appello contro la sentenza di primo grado, nel qual caso il silenzio del giudice puo’ essere dedotto come omissione di pronuncia su motivo di appello), non e’ deducibile come vizio di violazione di norma di diritto” (e, segnatamente, quelle in tema di presunzioni), “bensi’ solo ai sensi e nei limiti dell’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5), cioe’ come omesso esame di un fatto secondario (dedotto come giustificativo dell’inferenza di un fatto ignoto principale), purche’ decisivo” (Cass. Sez. 3, ord. 6 luglio 2018, n. 17720, Rv. 649663-01).
Nel caso che occupa, invece, la sentenza impugnata ha senz’altro esaminato il fatto secondario (la cessazione dell’attivita’ lavorativa) dal quale, secondo la prospettiva della ricorrente, il giudice di appello sarebbe dovuto risalire alla dimostrazione di quello ignoto (i redditi che essa (OMISSIS) avrebbe continuato a percepire, ove avesse proseguito la propria attivita’ di dipendente di un’impresa di pulizie), ma ha mostrato, implicitamente, di ritenerlo privo di decisivita’. La Corte capitolina, infatti, ha ritenendo carente la prova – con valutazione, come detto, non sindacabile in sede di legittimita’, perche’ rientrante nell’alveo di quell’attivita’ di apprezzamento delle risultanze probatorie che e’ riservata al giudice di merito – proprio in ordine al nesso di derivazione eziologica tra il sinistro di cui la donna fu vittima e la decisione di cessare l’attivita’ lavorativa svolta, cio’ che esclude, dunque, la fondatezza anche della censura di violazione dell’articolo 2729 c.c..
7. Le spese seguono la soccombenza, essendo pertanto poste a carico della ricorrente e liquidate come da dispositivo.
8. A carico della ricorrente sussiste l’obbligo di versare l’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, articolo 13, comma 1-quater.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso, condannando (OMISSIS) a rifondere alla societa’ (OMISSIS) S.p.a. le spese del presente giudizio, che liquida in complessivi Euro 2.500,00, oltre Euro 200,00 per esborsi, piu’ spese forfetarie nella misura del 15% ed accessori di legge.
Ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, articolo 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, articolo 1, comma 17, la Corte da’ atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso articolo 13, comma 1-bis.

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