Per potere operare la clausola espulsiva connessa ad infrazioni di natura tributaria

Consiglio di Stato, sezione terza, Sentenza 3 luglio 2019, n. 4575.

La massima estrapolata:

Nelle gare pubbliche, per potere operare la clausola espulsiva connessa ad infrazioni di natura tributaria, è necessario, da un lato, che il relativo credito sia già definito quanto a sorta principale ed “eventuali interessi o multe” e che, ciò nondimeno, la parte sia, comunque, rimasta colpevolmente inadempiente.

Sentenza 3 luglio 2019, n. 4575

Data udienza 27 giugno 2019

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Terza
ha pronunciato la presente
SENTENZA
ex artt. 38 e 60 cod. proc. amm.
sul ricorso numero di registro generale 4620 del 2019, proposto da
Istituto Vigilanza Ci. di Po. soc. coop. a r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Al. Pa. e Lu. Di Ma., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell’avv. An. Gi. in Roma, via (…);
contro
Co. s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato Gi. Pe., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Roma, corso (…);
nei confronti
Azienda Sanitaria Locale di Potenza, non costituita in giudizio;
per la riforma
della sentenza breve del Tribunale Amministrativo Regionale per la Basilicata Sezione Prima n. 00383/2019, resa tra le parti
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio di Co. s.p.a.;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nella camera di consiglio del giorno 27 giugno 2019 il Cons. Ezio Fedullo e uditi per le parti gli Avvocati Al. Pa. e Gi. Pe.;
Sentite le stesse parti ai sensi dell’art. 60 cod. proc. amm.;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue:

FATTO e DIRITTO

Con la sentenza (in forma semplificata) appellata, il T.A.R. Basilicata ha accolto il ricorso proposto dalla odierna appellata, Co. s.p.a., avverso la deliberazione del Direttore generale dell’Azienda sanitaria locale di Potenza n. 2019/00105 del 13 febbraio 2019, recante la sua esclusione dalla procedura di gara per la fornitura del servizio di vigilanza armata e altri servizi di vigilanza presso la sede dell’Azienda sanitaria di Potenza e l’aggiudicazione in favore della controinteressata Vigilanza Ci. di Po. soc. coop..
Il T.A.R., premesso che la stazione appaltante ha desunto la situazione di grave irregolarità fiscale dalla pronuncia della Corte di cassazione n. 18015 del 14 settembre 2016, con la quale è stato definitivamente respinto il ricorso proposto dalla Co. s.p.a. avverso il provvedimento dell’Agenzia delle entrate – Direzione provinciale di Avellino disponente la revoca di un credito di imposta per Euro 159.900,00, a torto prenotato a credito dalla Co. s.p.a. in misura superiore a quanto spettante in applicazione della regola “de minimis” di cui all’art. 7, comma 10, della legge del 23 dicembre 2000, n. 388, richiamato dall’art. 63 della legge 27 dicembre 2002, n. 289, ha mutuato la ratio decidendi dal precedente in termini rappresentato dalla recente sentenza di questa Sezione n. 2183 del 2 aprile 2019, riproducendone i seguenti passaggi essenziali: “può anche essere condivisa l’opzione ermeneutica incline a ricondurre gli atti (comunque denominati) con cui si accerti, da parte dell’amministrazione tributaria, la non spettanza di una data agevolazione, nella categoria giuridica degli “avvisi di accertamento” (cfr. testualmente Cass. n. 18636 del 2016), dovendo, però, al contempo rilevarsi che tali particolari atti, ove esauriscano il proprio contenuto ricostruttivo nella sola negazione del credito dichiarato dal contribuente, tradiscono una dimensione giuridica non autosufficiente ai fini qui in rilievo in quanto necessitano, per potere esprimere appieno una compiuta pretesa impositiva, di ulteriori passaggi valutativi che, nel modello legale di riferimento, vengono affidati ad ulteriori e successivi provvedimenti secondo lo schema della fattispecie a formazione progressiva. In altri termini, l’effetto di accertamento che si riconnette alla revoca del credito di imposta non può dirsi completo in quanto non è ancora espressione di una pretesa tributaria compiutamente e definitivamente stabilita, occorrendo in vista del relativo recupero accertare l’entità del dovuto in ragione anche delle modalità e dei tempi di concreto utilizzo del credito. Tanto è agevolmente evincibile già dalla piana lettura dell’articolo 8 del d.m. 311 del 3.8.1998 che, a valle della revoca parziale o totale del credito d’imposta operata dal Centro di servizio delle imposte dirette e indirette di Pescara (comma 1), fa seguire un distinto e successivo snodo procedimentale avente ad oggetto il recupero delle somme versate in meno o del maggior credito riportato, nonché l’applicazione delle sanzioni connesse alle singole violazioni, affidandone il relativo incombente all’ufficio delle entrate competente in ragione del domicilio fiscale dell’impresa. E’ pur vero che, in siffatte evenienze, la pretesa tributaria confluita nell’atto di recupero non integra una pretesa completamente nuova rispetto a quella originaria (Cass. civ. Sez. V Sent., 12/02/2013, n. 3343) e, pertanto, l’atto di recupero può essere impugnato solo per vizi propri, però è di tutta evidenza che solo a tale ulteriore manifestazione provvedimentale si correla – per effetto della definizione degli elementi costitutivi di siffatta pretesa – la liquidazione dell’importo dovuto e la indicazione dell’ammontare dei relativi accessori (interessi e sanzioni), con conseguente emersione solo in questa fase di un’obbligazione tributaria contenutisticamente determinata. E, invero, sebbene gli avvisi di recupero non costituiscano accertamenti di imponibili o maggiori imponibili, tuttavia essi contribuiscono a definire, attraverso il disconoscimento del credito di imposta, l’entità della somma concretamente dovuta dal contribuente, cosicchè anche tali avvisi implicano accertamenti della debenza del tributo (Cassazione civile sez. trib., 07/07/2017, n. 16761; Cass. n. 3838/2013). Ed è nella suddetta ottica che il legislatore, all’articolo 1 comma 421 della legge n. 311 del 30.12.2004 ha previsto che “…per la riscossione dei crediti indebitamente utilizzati in tutto o in parte, anche in compensazione ai sensi dell’articolo 17 del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241, e successive modificazioni, nonché per il recupero delle relative sanzioni e interessi l’Agenzia delle entrate può emanare apposito atto di recupero motivato da notificare al contribuente con le modalità previste dall’articolo 60 del citato decreto del Presidente della Repubblica n. 600 del 1973”. Ciò a conferma della valenza provvedimentale dell’atto di recupero che si ascrive alla stessa logica e riflette la stessa natura degli avvisi di accertamento in quanto ad esso si riconnette, come già sopra anticipato, la condivisione dei tratti tipici caratterizzanti l’esercizio della funzione impositiva che implica l’accertamento del credito da recuperare e dei relativi accessori. Tale atto è, dunque, un provvedimento equiparabile nella sua natura impositiva all’avviso di accertamento e non ha natura di mera esecuzione, costituendo anzi il titolo per procedere ad attività di riscossione che, a norma del comma 422 dell’art. 1 della legge citata, resta possibile solo “in caso di mancato pagamento, in tutto o in parte, delle somme dovute entro il termine assegnato dall’ufficio, comunque non inferiore a sessanta giorni”. Manca, in definitiva, una pretesa tributaria “compiutamente” e definitivamente stabilita (importo da recuperare, interessi e sanzioni) e, come tale, divenuta esigibile; e prova ne è che il pagamento spontaneamente effettuato da Co. è stato considerato dall’Agenzia delle Entrate come effettuato “sine titulo….in assenza dell’atto di recupero consequenziale al provvedimento di revoca” (cfr. nota Agenzia delle Entrate – Direzione Provinciale di Avellino del 7.1.2019). In tal senso è, inoltre, di conforto l’atto di rettifica dell’Agenzia delle Entrate Prot. 72997 del 05/11/2018 a mente del quale “al momento della richiesta (23/10/2017), non poteva ritenersi sussistente un carico pendente, per effetto della sola Sentenza della Corte di Cassazione n. 10815/16, intervenuta sull’atto di revoca del beneficio, essendo necessaria, ai sensi dell’art. 1. commi 421 e s.s. L. n. 311/2004 l’emissione di specifico avviso di recupero del credito di imposta (allo stato in corso di emissione)”. Stante ciò, alla data del 23/10/2017, l’iscrizione a ruolo nr. 2017/321 (peraltro già annullata), non risultava legittima in quanto si doveva emettere, preventivamente, l’avviso di recupero del credito d’imposta, indispensabile per la quantificazione del credito indebitamente usufruito. Pertanto, si conferma l’annullamento della certificazione rilasciata il 21/11/2017 prot. 77757″. Infine, un’indiretta conferma si ricava dalla stessa lettura dell’atto di recupero poi emesso a carico della Co. che reca giustappunto lo sviluppo dell’accertamento impositivo conseguente alla pregressa revoca, definendo, questa volta, il credito fiscale esigibile nei confronti della Co. in proporzione della misura della (indebita) compensazione (parziale) del credito d’imposta per Euro 159.900,00 effettuata nel corso dei diversi esercizi d’imposta (Euro 51.400,00 nel 2006 e Euro 47.983,29 nel 2007), con la liquidazione delle somme dovute (Euro 99.383,29 per credito dovuto, Euro 44.182,68, Euro 29.815,00 per sanzioni). Quanto fin qui evidenziato impedisce, in apice, di configurare una violazione grave e definitivamente accertata ai sensi e per gli effetti di cui all’articolo 80 comma IV del d.lgs 50/2016: ed, invero, per concretare la detta fattispecie occorre, anzitutto, che sia partecipata al contribuente una pretesa creditoria di natura tributaria recante un credito certo e definito nel suo ammontare ed il conseguente inadempimento del contribuente. Secondo l’orientamento espresso da questo Consiglio di Stato (CdS n. 59 del 2018 e n. 856 del 2018) “costituiscono violazioni definitivamente accertate quelle relative all’obbligo di pagamento di debiti per imposte e tasse certi, scaduti ed esigibili”. Si è ancora di recente precisato che, in sede di gara pubblica, ai fini del possesso dei requisiti previsti dall’art. 80, d.lg. n. 50 del 2016, la definitività dell’accertamento tributario decorre non dalla notifica della cartella esattoriale – in sé, semplice atto con cui l’agente della riscossione chiede il pagamento di una somma di denaro per conto di un ente creditore, dopo aver informato il debitore che il detto ente ha provveduto all’iscrizione a ruolo di quanto indicato in un precedente avviso di accertamento – bensì dalla comunicazione di quest’ultimo; la cartella di pagamento (che infatti non è atto del titolare della pretesa tributaria, ma del soggetto incaricato della riscossione) costituisce solo uno strumento in cui viene enunciata una pregressa richiesta di natura sostanziale, cioè non possiede alcuna autonomia che consenta di impugnarla prescindendo dagli atti in cui l’obbligazione è stata enunciata, laddove è l’avviso di accertamento l’atto mediante il quale l’ente impositore notifica formalmente la pretesa tributaria al contribuente, a seguito di un’attività di controllo sostanziale (Cons. Stato, V, 12 febbraio 2018, n. 856; Consiglio di Stato, sez. V, 14/12/2018, n. 7058: Consiglio di Stato, sez. V, 03/04/2018, n. 2049). Tanto, però, è a dirsi quando l’accertamento rifletta con compiutezza i contenuti dell’obbligazione tributaria, indicando il debito di imposta (recte il credito da recuperare) ed i relativi accessori, evenienza qui non in rilievo, non essendo nemmeno noto – prima dell’emissione dell’atto di recupero – l’ammontare delle somme concretamente dovute, evenienza questa da cui non è possibile invece prescindere come fatto palese anche dalla piana lettura dell’ultimo periodo di cui all’articolo 80 comma IV a mente del quale Il presente comma non si applica quando l’operatore economico ha ottemperato ai suoi obblighi pagando o impegnandosi in modo vincolante a pagare le imposte o i contributi previdenziali dovuti, compresi eventuali interessi o multe, purché il pagamento o l’impegno siano stati formalizzati prima della scadenza del termine per la presentazione delle domande”. E’, in definitiva, di tutta evidenza, alla stregua di una lettura sistemica delle disposizioni compendiate nel comma IV dell’articolo 80, che, per potere operare la clausola espulsiva connessa ad infrazioni di natura tributaria, è necessario, da un lato, che il relativo credito sia già definito quanto a sorta principale ed “eventuali interessi o multe” e che, ciò nondimeno, la parte sia, comunque, rimasta colpevolmente inadempiente” (in termini, Cons. Stato, sez. III, 2 aprile 2019, n. 2183)”.
Tanto premesso, i motivi di appello, intesi a sollecitare la Sezione ai fini di una rimeditazione dell’orientamento espresso con la sentenza citata, pur articolatamente esposti anche in sede di discussione orale, non sono meritevoli di accoglimento.
Precisato che gli stessi saranno esaminati nei limiti in cui apportano argomenti non completamente affrontati con la citata sentenza di questa Sezione, cui può per il resto senz’altro rinviarsi, deve osservarsi, in primo luogo, che non rileva che il quantum della pretesa creditoria dell’Amministrazione finanziaria sia determinato già per effetto dell’atto di revoca del credito d’imposta oggetto di precedente ammissione a favore dell’impresa Co. s.p.a., restando da definire esclusivamente gli accessori (interessi e sanzioni), atteso che l’unitarietà dell’obbligazione tributaria – e del connesso adempimento – non consente, in fase di accertamento, la scissione del suo oggetto nelle sue singole componenti.
In ogni caso, il quantum del debito tributario, conseguente alla revoca dell’ammissione dell’impresa a beneficiare del credito d’imposta, non corrisponde automaticamente, né tampoco necessariamente, all’importo del credito disconosciuto, quanto piuttosto alla misura in cui è stato di fatto utilizzato, nel periodo intermedio tra l’ammissione e la revoca, dall’impresa medesima: ciò che implica la necessità di un segmento accertativo, atto a conferire certezza all’obbligazione tributaria, successivo ed ulteriore rispetto al provvedimento (pur definitivo) di revoca.
In secondo luogo, anche ammesso che l’obbligazione tributaria possa considerarsi compiutamente definita già sulla scorta dell’atto di revoca del credito d’imposta, resta fermo che, come evidenziato con il menzionato precedente, l’esigibilità del credito è comunque condizionata, sul piano procedimentale, all’emissione dell’atto di recupero: ciò è tanto vero che, come accaduto nella fattispecie in esame (ed evidenziato con la sentenza n. 2183/2019), “il pagamento spontaneamente effettuato da Co. è stato considerato dall’Agenzia delle Entrate come effettuato “sine titulo….in assenza dell’atto di recupero consequenziale al provvedimento di revoca” (cfr. nota Agenzia delle Entrate – Direzione Provinciale di Avellino del 7.1.2019)”.
Tale rilievo, peraltro, non è scevro di significative conseguenze applicative, ove si consideri che, in mancanza dell’atto di recupero (e, quindi, della esigibilità del debito tributario), resterebbe precluso all’impresa di sanare, ai fini partecipativi, la sua situazione di irregolarità, esercitando la facoltà riconosciuta dall’art. 80, comma 4, d.lvo n. 50/2016, ai sensi del quale la sanzione escludente “non si applica quando l’operatore economico ha ottemperato ai suoi obblighi pagando o impegnandosi in modo vincolante a pagare le imposte o i contributi previdenziali dovuti, compresi eventuali interessi o multe, purché il pagamento o l’impegno siano stati formalizzati prima della scadenza del termine per la presentazione delle domande”.
Nemmeno rileva, al fine di avvalorare la domanda di riforma, la dedotta facoltatività dell’atto di recupero, desumibile dal disposto dell’art. 1, comma 421, l. n. 311/2004: da un lato, infatti, come sancito da Cassazione, Sezione 5, n. 24005 del 3 ottobre 2018, lo stesso è alternativo al controllo automatizzato o controllo formale della dichiarazione con liquidazione della maggiore imposta mediante notificazione immediata della cartella di pagamento ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, artt. 36 bis e 36 ter, a conferma della necessità di un atto determinativo ulteriore rispetto alla mera revoca del credito d’imposta, dall’altro lato, la necessità dell’atto di recupero è affermata dalla sentenza appellata (mediante rinvio alla sentenza n. 2183/2019), non censurata in parte qua, anche sulla scorta dell’articolo 8 del d.m. n. 311 del 3 agosto 1998, laddove, a valle della revoca parziale o totale del credito d’imposta operata dal Centro di servizio delle imposte dirette e indirette di Pescara, fa seguire un distinto e successivo snodo procedimentale avente ad oggetto il recupero delle somme versate in meno o del maggior credito riportato, nonché l’applicazione delle sanzioni.
Deve peraltro aggiungersi che la stessa pronuncia richiamata dalla parte appellante conferma la natura impositiva dell’atto di recupero, laddove precisa che “la previsione di cui alla L. n. 311 del 2004, art. 1, comma 421 che attribuisce alla Agenzia delle Entrate la facoltà di emanare apposito atto motivato di recupero del credito di imposta indebitamente fruito, atto avente contenuto corrispondente a quello dell’avviso di accertamento, introduce una modalità procedurale di maggiore garanzia per il contribuente rispetto alla riduzione dei crediti di imposta attuati mediante controllo automatizzato o controllo formale della dichiarazione con liquidazione della maggiore imposta mediante notificazione immediata della cartella di pagamento ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, artt. 36 bis e 36 ter” (cfr. la citata sentenza della Corte di Cassazione n. 24005 del 3 ottobre 2018 nonché, per la qualificazione dell’atto di recupero come appartenente alla fase di accertamento, la Circolare Agenzia Entrate – Direzione Centrale Accertamento n. 4/E del 15 febbraio 2010).
Inoltre, la negazione all’atto di recupero di una valenza meramente esecutiva discende dalla spettanza all’Agenzia delle Entrate (e non all’agente della riscossione) del compito di emanarlo.
Infine, non può accogliersi la censura intesa a sostenere che la parte ricorrente non ha censurato il provvedimento di esclusione nella parte in cui contesta la falsità dichiarativa, non avendo essa dichiarato di essere destinataria di un provvedimento di revoca del credito d’imposta, atteso che la contestazione integrale del provvedimento espulsivo è insita nei motivi di ricorso intesi a negare la sussistenza della situazione di irregolarità (che della falsità dichiarativa costituisce il presupposto): ciò che il T.A.R. ha messo chiaramente in evidenza, osservando che “alla non riconducibilità della revoca del credito di imposta per Euro 159.900,00 nell’alveo applicativo dell’art. 80, co. 4, d.lgs. 50 del 2016 consegue l’attendibilità della dichiarazione resa al momento della partecipazione in gara in ordine all’insussistenza di motivi ostativi ai sensi della ripetuta disposizione”.
Inoltre, in relazione alle cause escludenti aventi carattere vincolato, come quella di cui si tratta, all’insussistenza (in concreto) delle stesse, giudizialmente accertata, si accompagna necessariamente la veridicità della dichiarazione negativa resa sul punto dall’impresa concorrente.
L’appello in conclusione, come anticipato, deve essere respinto.
La sostanziale novità dell’oggetto della controversia, in relazione alla quale non si è ancora formato un orientamento giurisprudenziale consolidato, giustifica la compensazione delle spese di giudizio.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
Sezione Terza respinge l’appello.
Spese del giudizio di appello compensate.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 27 giugno 2019 con l’intervento dei magistrati:
Roberto Garofoli – Presidente
Giulio Veltri – Consigliere
Raffaello Sestini – Consigliere
Solveig Cogliani – Consigliere
Ezio Fedullo – Consigliere, Estensore

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