Opera professionale, la previsione di un termine di durata

Corte di Cassazione, sezione seconda civile, Sentenza 15 ottobre 2018, n. 25668.

La massima estrapolata:

In tema di contratto d’opera professionale, la previsione di un termine di durata del rapporto non esclude di per sé la facoltà di recesso “ad nutum” previsto, a favore del cliente, dall’art. 2237, comma 1, cod. civ. Solo l’esistenza di un concreto contenuto del regolamento negoziale, che dimostri che le parti abbiano inteso, attraverso la previsione del termine, escludere la possibilità di scioglimento del contratto prima della scadenza pattuita potrebbe giustificare un diverso esito

Sentenza 15 ottobre 2018, n. 25668

Data udienza 7 novembre 2017

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PETITTI Stefano – Presidente

Dott. D’ASCOLA Pasquale – rel. Consigliere

Dott. CORRENTI Vincenzo – Consigliere

Dott. BELLINI Ubaldo – Consigliere

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
sul ricorso 11459/2013 proposto da:
(OMISSIS), (OMISSIS), rappresentato e difeso da se medesimo ex articolo 86 c.p.c., domiciliato in ROMA P.ZZA CAVOUR presso la CORTE di CASSAZIONE;
– ricorrente –
contro
ARPA (OMISSIS), elettivamente domiciliato in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), rappresentato e difeso dall’avvocato (OMISSIS);
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 301/2013 della CORTE D’APPELLO di TRIESTE, depositata il 03/04/2013;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 07/11/2017 dal Consigliere Dott. PASQUALE D’ASCOLA;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. DEL CORE Sergio, che ha concluso per il rigetto del ricorso; in subordine per la trasmissione degli atti al Primo Presidente per l’eventuale rimessione alle SS.UU. della questione di diritto involta con il terzo motivo del ricorso;
udito l’Avvocato (OMISSIS), difensore del resistente che ha chiesto l’inammissibilita’ o il rigetto del ricorso e si e’ opposto alla trasmissione degli atti al Primo Presidente.

FATTI DI CAUSA

La causa concerne il recesso dell’Agenzia Regionale per la Protezione dell’Ambiente del (OMISSIS) (ARPA) dal contratto di consulenza e conferimento di incarico di assistenza legale rinnovato nel febbraio 2004 con l’avvocato (OMISSIS).
Nel dicembre dello stesso anno il professionista agiva nei confronti dell’Agenzia, chiedendo che fosse accertato l’inadempimento contrattuale della convenuta, con condanna al risarcimento dei danni.
Il tribunale qualificava il rapporto come contratto di clientela – riconducibile al mandato oneroso a tempo determinato – con cui l’avvocato si era obbligato per tre anni a prestare la propria opera professionale in relazione a tutti gli affari legali dell’ente. Riteneva sussistente una giusta causa oggettiva di risoluzione del rapporto e rigettava ogni domanda di danni, dando atto che le prestazioni professionali svolte erano state gia’ saldate.
Adita dal professionista, la Corte di appello di Trieste rigettava il gravame.
A tal fine, con sentenza 3 aprile 2013, dopo aver discusso la questione posta dall’odierno ricorrente circa il “mandato alle liti”, e dopo aver rilevato che tra le parti non c’erano “sospesi” in quanto anche l’ultima fattura era “stata pagata”, la Corte di appello qualificava il rapporto come contratto d’opera. Riteneva pertanto legittimo il recesso per il “venir meno dell’intuitus personae” e per il sopravvenire dell’impossibilita’ sopravvenuta, da ricollegare alla sopravvenuta legge regionale che imponeva all’ente di avvalersi dell’avvocatura regionale e ai dubbi sulla legittimita’ del contratto derivati da pronuncia della Corte dei Conti.
L’avv. (OMISSIS) ha proposto sei motivi di ricorso per cassazione, notificato il 26 aprile 2013; ha depositato memoria aggiuntiva il 22 aprile 2014; memoria in vista dell’adunanza del 10 marzo 2017 e della successiva pubblica udienza, alla quale la causa e’ stata rimessa con ordinanza 12947/17.
ARPA ha resistito con controricorso.
Il procuratore generale in data 13 febbraio 2017 ha depositato conclusioni scritte con cui ha chiesto il rigetto del ricorso.

RAGIONI DELLA DECISIONE

Il primo motivo di ricorso, rubricato come “mandato all’Avvocato della Regione” si duole del fatto che la Corte di appello abbia ritenuto che l’ente era legittimato a valersi dell’avvocatura regionale, sebbene fosse stata varata un’apposita legge regionale. Parte ricorrente nega che l’ente sia dipendente della regione e espone che gli avvocati pubblici dipendenti non possono occuparsi degli affari di altro ente e che la “leggina” regionale 1/2004 avrebbe derogato a tale principio, che deriverebbe dalla normativa nazionale sull’esercizio della professione forense.
Il secondo motivo, intitolato “eccezione di incostituzionalita’” espone che nelle conclusioni (da intendere la precisazione delle conclusioni in appello) il ricorrente aveva eccepito l’incostituzionalita’ della Legge Regionale n. 1 del 2004, sotto i profili della riserva della materia alla legislazione statale e ai principi in materia di professione e di tutela della concorrenza, i quali porrebbero il “chiaro principio di “esclusivita’” della competenza dell’avvocato pubblico dipendente”.
Le censure non possono essere accolte.
La sentenza impugnata ha rilevato che in ordine al mandato alle liti il ricorrente non aveva sollevato eccezione alcuna sul punto in prime cure, non essendovene traccia ne’ in sentenza di primo grado, “ne’ nei verbali, ne’ e’ formulato specifico gravame in appello”.
Questo rilievo non solo non e’ stato contraddetto, ma risulta confermato in ricorso dalla narrativa di pag. 2 e 3, ove si legge che in appello solo “nelle memorie successive” era stata “sollevata un’eccezione di nullita’ assoluta della difesa esercitata dall’Avvocato della regione”.
Ne’ e’ stata confutata la rilevanza giuridica di cui il rilievo era portatore.
Ed invero, con riguardo al vizio processuale costituito dall’asserito difetto di procura in primo grado, il rilievo di tardivita’, ancorche’ la Corte di appello abbia comunque esaminato nel merito la questione della legittimita’ dell’opera difensiva svolta in base a legge regionale vigente, rende inammissibile la doglianza in sede di legittimita’.
Il vizio attinente alla costituzione di parte convenuta in primo grado doveva essere fatto valere con tempestivo appello, poiche’ ai sensi dell’articolo 161 c.p.c., i motivi di nullita’ delle sentenze soggette ad appello possono essere fatti valere soltanto con i mezzi di impugnazione. Tuttavia l’impugnazione sul punto non e’ stata proposta, come imponeva a pena di inammissibilita’ l’articolo 345 c.p.c., con l’atto di appello, ma solo esposta in memorie successive e in conclusioni di appello.
La validita’ della costituzione della convenuta, questione cui il primo motivo di ricorso sembra riferirsi – ed infatti la conclusione del motivo ad inizio pag. 8 del ricorso parla proprio di “convenuta” e non anche di “appellata” – e’ rimasta quindi consolidata dalla mancata tempestiva impugnazione in appello; non puo’ essere percio’ ridiscussa in sede di legittimita’.
Ne’, si badi, il ricorso ha distinto dal precedente un profilo autonomo, relativo alla costituzione in appello della difesa dell’ente con avvocati regionali, non enucleato specificamente nei presupposti di fatto, ne’ articolato in relazione ai profili piu’ strettamente processuali della questione o al rilievo in rito formulato dalla Corte di appello. La censura si e’ soffermata solo sulla legittimita’ della leggina regionale e sulla sua incostituzionalita’, ma in termini tali da indurre il procuratore generale a concludere per la inammissibilita’ del motivo perche’ non espresso con “ordinata formulazione giuridica”, come, in diversi termini, eccepito anche dal controricorso.
Restano conseguentemente ininfluenti i riferimenti delle memorie al fatto che sulla base della legge regionale l’ARPA sarebbe stata “rappresentata illegittimamente in ben due gradi di giudizio”, riferimenti che non arrecano specificita’ alla censura iniziale, mirata sull’ormai non contestabile costituzione della convenuta.
3) Da questi rilievi discende la irrilevanza, ai fini della decisione della doglianza sul mandato, della questione di costituzionalita’ della Legge Regionale n. 1 del 2004. Parte ricorrente nella memoria aggiuntiva ha dato atto del sopravvenire della sentenza n. 91 del 22 maggio 2013 della Corte costituzionale che ha dichiarato l’incostituzionalita’ di analoga normativa regionale campana per ragioni simili a quelle svolte in ricorso: la circostanza non rileva, poiche’ la normativa suddetta e’ indifferente ai fini del rigetto del primo motivo, definito sulla scorta di argomentazioni che prescindono da essa.
4) Con il terzo motivo parte ricorrente affronta la questione della legittimita’ del recesso di ARPA dal rapporto professionale stipulato nel 2004; denuncia violazione degli articoli 2237 – 1725 e 1256 c.c..
Il ricorrente contesta l’interpretazione della Corte di appello, secondo cui ARPA avrebbe potuto recedere liberamente dal contratto; invoca Cass. 21521/11 nella parte in cui ha affermato che l’apposizione di un termine finale al contratto determinava in modo vincolante la durata del rapporto; espone che non avrebbe mai accettato un contratto con facolta’ di recesso libera per il cliente, in considerazione della tariffa minima praticata e dei costi sostenuti.
Critica poi le affermazioni della Corte di appello secondo cui ad indurre il legittimo recesso, oltre al gia’ sufficiente “venir meno dell’intuitus personae”, sussisteva “anche la “causa sopravvenuta” la Legge Regionale n. 1 del 2004″, (cioe’ la legge che aveva stabilito la facolta’ di ARPA di avvalersi dell’avvocatura regionale), nonche’ altra causa sopravvenuta costituita da sentenza della Corte dei Conti che ha ritenuto la colpa grave dei due amministratori ARPA, con danno erariale, proprio in relazione al precedente contratto stipulato con il (OMISSIS), rinnovato nel 2004.
In proposito il ricorrente sostiene che la legge regionale non imponeva all’ente l’obbligo giuridico di avvalersi dell’Avvocato della Regione, ma solo la facolta’ e nega quindi che vi fosse impossibilita’ sopravvenuta.
Quanto alla sentenza della Corte dei Conti osserva che essa si riferiva solo alle consulenze e non alle difese nei contenziosi; aggiunge che non faceva venir meno l’interesse delle parti alla prosecuzione del contratto, posto che l’Agenzia al momento del rinnovo doveva sapere che di li’ a pochi giorni sarebbe entrata in vigore la normativa regionale. Il ricorrente afferma poi che l’impossibilita’ sopravvenuta di prosecuzione nel contratto non era minimamente configurabile.
4.1) Il quarto motivo affronta la ipotesi dell’inquadramento del contratto quale mandato oneroso, rispetto al quale la sentenza d’appello, pur dissentendo da tale qualificazione, ha affermato la sussistenza di giusta causa. Il ricorrente deduce di aver contestato che la Legge Regionale n. 1 del 2004, costituisse giusta causa, la cui configurabilita’ nega, sia perche’ scelta legata a mera convenienza economica, sia perche’ la approvazione della legge era nota. Ricorda poi che se il rapporto era da qualificare come contratto d’opera professionale, era applicabile il recesso, ove non rinunciato. Enuncia quindi che il recesso non e’ ammesso nei contratti d’opera “blindati da precisi termini di durata”.
4.2) Il quinto motivo denuncia “omessa insufficiente motivazione circa fatti decisivi per il giudizio”.
Il ricorrente si duole che non siano stati “sufficientemente analizzati e motivati dalla Corte” i fatti essenziali per il giudizio, quali il contratto sottoscritto nell’imminenza dell’entrata in vigore della Legge Regionale n. 1, l’assenza di un divieto di essa di proseguire “nella gia’ affidata tutela giurisdizionale”, una corretta valutazione dell’interesse pubblico.
5) Le tre censure non possono essere accolte.
Quanto ai vizi motivazionali di cui al quinto motivo, va subito rilevato che, in ragione della applicabilita’ della novella di cui all’articolo 360 c.p.c., n. 5, (la sentenza impugnata e’ infatti successiva all’11 settembre 2012, data da cui ha effetto ex articolo 54 c. 3 la modifica apportata dalla L. n. 134 del 2012), la censura poteva essere rivolta solo contro l’omesso esame di un fatto decisivo e non poteva limitarsi a lamentare l’insufficienza motivazionale, non piu’ rilevante in sede di legittimita’ (Cfr SU 8053/14).
In ogni caso una doglianza relativa alla motivazione non puo’ limitarsi a elencare i fatti malvalutati, ma deve illustrane la decisivita’ in relazione a singoli profili giuridici, restando altrimenti, come nella specie, inammissibile anche per questa seconda ragione.
5.1) Quanto alle questioni, affrontate nel quarto motivo, relative alla “motivazione alternativa: revoca del mandato oneroso ex articolo 1725 c.c., per giusta causa” (cosi’ la rubrica), e’ lo stesso ricorso a dar conto della superfluita’ della doglianza e a far comprendere di essersene fatto carico solo per seguire l’andamento della sentenza di appello che a suo dire (pag. 13) “appare solo nascondere incertezza e perplessita’”. Osserva infatti correttamente – lo si e’ riferito poc’anzi – che una volta qualificato il rapporto come contratto d’opera non risulta piu’ applicabile l’articolo 1725, ma l’articolo 2237 c.c., che consente la recedibilita’ ad nutum se non derogata contrattualmente. E’ questo il nodo essenziale della controversia, poiche’ sul recesso ad nutum poggia una delle autonome rationes sufficienti a reggere la decisione (cfr. pagg. 16 e 17 sentenza impugnata).
Essa e’ stata contestata, si e’ visto, nel terzo e quarto motivo, solo con riferimento alla pretesa rinuncia al diritto di recesso, costituita dall’apposizione di un termine di durata del contratto.
Non e’ stato infatti sviluppato un autonomo motivo di ricorso ai sensi dell’articolo 1362 e segg. c.c. circa l’interpretazione del contenuto del contratto, ma si e’ fatto leva sulla portata derogatoria della clausola di durata esistente, delimitando congruamente la questione giuridica principale.
Il Collegio reputa infondato il ricorso.
Si insegna in dottrina, che ha di recente dato sistemazione alla materia, che il recesso ad nutum di cui all’articolo 2237, che prevede comunque il dovere del cliente di corrispondere al prestatore d’opera intellettuale spese e compensi per l’attivita’ svolta, si fonda sui connotati spiccatamente fiduciari di questo tipo di rapporto. Il recesso e’ funzionale al fondamento fiduciario di esso e giustifica una tutela meno intensa del prestatore, sotto il profilo della continuita’ del rapporto. E’ da qui che discende, si e’ osservato, la esclusione del diritto al mancato guadagno.
Sulla base di queste riflessioni e’ da risolvere la tematica della derogabilita’ della facolta’ di recesso.
Su questo tema la dottrina ha sempre mostrato cautela, richiedendo che la rinuncia risulti espressamente o sia stata oggetto di specifica trattativa tra le parti, con l’avvertenza che in ogni caso la previsione del patto di rinuncia al recesso comporta soltanto un aggravamento delle conseguenze del recesso.
In questo quadro la tesi di parte ricorrente, secondo cui l’inserimento in contratto di un termine di durata comporterebbe automaticamente la rinuncia alla facolta’ di recesso non e’ condivisibile.
La tesi ha trovato eco giurisprudenziale (Cass. 22786/13), ma si scontra con il piu’ pensoso orientamento, che e’ in linea con gli interessi di fondo che stanno alla base del contratto e che sono stati prima rapidamente enunciati, secondo cui il termine normalmente vale ad assicurare al cliente che il prestatore d’opera sia vincolato per un certo tempo nei suoi confronti; si riferisce cioe’ all’andamento ordinario del rapporto, non alla sua fase di risoluzione. Si e’ inoltre evidenziata la diversita’ strutturale e funzionale tra termine finale di efficacia del contratto e recesso fondato sulla fiduciarieta’ del contratto.
Ne’ appare fondato addurre a favore della tesi di cui al ricorso l’applicazione analogica della disposizione di cui all’articolo 1569 c.c., in tema di somministrazione, giacche’ non si e’ in presenza di una lacuna normativa, ma di una diversa regolamentazione codicistica del recesso a fronte di due contratti con connotati peculiari, assetto che non consente un’operazione ortopedico-integrativa del dettato normativo.
Tutto cio’ induce a credere che soprattutto in relazione a rapporti professionali di rilievo, redatti da soggetti molto qualificati con contratti sottoposti a trattativa, la rinuncia al recesso debba esprimersi contrattualmente e non sia consentita un’espansione per implicito della clausola di durata, cosi’ penalizzante per il cliente.
E’ pertanto da confermare l’orientamento di questa Sezione (Cass. 469/16) secondo cui in tema di contratto di opera professionale, la previsione di un termine di durata del rapporto non esclude di per se’ la facolta’ di recesso “ad nutum” previsto, a favore del cliente, dall’articolo 2237 c.c., comma 1.
Solo l’esistenza di un concreto contenuto del regolamento negoziale, che dimostri che le parti abbiano inteso, attraverso la previsione del termine, escludere la possibilita’ di scioglimento del contratto prima della scadenza pattuita potrebbe giustificare un diverso esito.
Il ricorso tuttavia non interpella la Corte con apposita adeguata censura in ordine all’ermeneutica delle clausole del contratto di cui si tratta. Discende da quanto esposto il rigetto anche del terzo motivo di ricorso e di ogni profilo connesso.
6) Resta assorbito il sesto motivo, concernente i “Danni”, poiche’ il rigetto delle deduzioni relative alla illegittimita’ del recesso esclude ogni diritto al risarcimento, come affermato dalla Corte di appello. Su questo aspetto, relativo all’esistenza del diritto, la censura nulla adduce, poiche’ si sofferma solo sulla produzione di fatture e sulla possibilita’ di “perizia contabile”, e dunque solo sul quantum.
Inconferenti e finalizzate non a un motivo di ricorso, del quale mancano i caratteri di specificita’ e organicita’, ma solo a criticare “la superficialita’ della sentenza”, sono poi le deduzioni relative all’avvenuto pagamento delle prestazioni, poste a esordio del motivo sui danni.
7) La compensazione delle spese di questo grado di giudizio e’ giustificata dalla esistenza di aspetti di incertezza e parziale contrasto dottrinale e giurisprudenziale, ancora in evoluzione, in ordine alla questione da ultimo esaminata.
Va dato atto della sussistenza delle condizioni per il raddoppio del contributo unificato, trattandosi di ricorso successivo al 34 gennaio 2013.

P.Q.M.

La Corte rigetta i primi cinque motivi di ricorso. Dichiara assorbito il sesto. Compensa le spese del giudizio di legittimita’.
Da’ atto della sussistenza delle condizioni di cui al Decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, articolo 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. n. 228 del 2012, articolo 1, comma 17, per il versamento di ulteriore importo a titolo di contributo unificato

Avv. Renato D’Isa