Corte di Cassazione, sezione prima penale, Sentenza 9 maggio 2019, n. 19816.
La massima estrapolata:
Nel reato di omicidio tentato la prova del dolo, in assenza di esplicite ammissioni da parte dell’imputato, ha natura indiretta, dovendo essere desunta da elementi esterni e, in particolare, da quei dati della condotta che, per la loro non equivoca potenzialità offensiva, siano i più idonei ad esprimere il fine perseguito dall’agente. Ne consegue che, per l’accertamento della sussistenza “dell’animus necandi”, rileva in modo determinante l’idoneità dell’azione, che va apprezzata in concreto, con una prognosi formulata “ex post”, con riferimento alla situazione che si presentava all’imputato al momento del compimento degli atti, in base alle condizioni umanamente prevedibili del caso.
Sentenza 9 maggio 2019, n. 19816
Data udienza 12 aprile 2018
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA PENALE
Composta dagli ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. TARDIO Angela – Presidente
Dott. SIANI Vincenzo – Consigliere
Dott. VANNUCCI Mar – Rel. Consigliere
Dott. CASA Filippo – Consigliere
Dott. DI GIURO Gaetano – Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
(OMISSIS), nato il (OMISSIS);
avverso la sentenza del 24/01/2017 della CORTE APPELLO di ROMA;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Dott. Vannucci Marco;
Udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Dott. Canevelli Paolo, che ha concluso chiedendo declaratoria di inammissibilita’ del ricorso;
udito il difensore, avvocato (OMISSIS), del foro di ROMA, in difesa di (OMISSIS) che conclude riportandosi ai motivi di ricorso.
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza emessa il 19 aprile 2016 il Tribunale di Roma, a definizione di procedimento svoltosi nelle forme del giudizio abbreviato condanno’ (OMISSIS) alla pena di nove anni di reclusione, con interdizione perpetua dai pubblici uffici e interdizione legale per la durata di espiazione della pena, in quanto responsabile della commissione, in (OMISSIS), del tentativo di omicidio di (OMISSIS), aggravato da motivi abietti (articolo 56 c.p., articolo 575 c.p., e articolo 61 c.p., n. 1).
2. Decidendo sull’appello dell’imputato, la Corte di appello di Roma, con sentenza emessa il 24 gennaio 2017, in parziale riforma della sentenza di primo grado: ha escluso la sussistenza della contestata circostanza aggravante; ha, di conseguenza, rideterminato la pena inflitta a tale persona in misura pari a cinque anni di reclusione; ha confermato nel resto le statuizioni contenute nella sentenza di primo grado.
2.1 La motivazione fondante tale decisione puo’ essere, per quanto qui interessa, cosi’ sintetizzata: la mattina del (OMISSIS), sulla pubblica via, (OMISSIS) insulto’ e picchio’ con un pugno (OMISSIS) (all’epoca del fatto con lui convivente); (OMISSIS), occasionale passante, si avvicino’ ai due e intimo’ a (OMISSIS) di porre termine all’aggressione; costui desistette e con tranquillita’ sali’ a bordo di autovettura recante il marchio “Citroen”, in sosta, contromano, vicino al marciapiede; il veicolo parti’ a forte velocita’ investendo (OMISSIS) che si trovava in strada davanti all’automobile; l’impatto fra metallo e carne determino’ il caricamento sul cofano del corpo dell’uomo che infranse il parabrezza per poi essere scaraventato in terra; in conseguenza di tale impatto la vittima riporto’ la frattura di una clavicola; tale autovettura venne quindi dall’imputato usata “come una vera e propria arma, “scagliandola” a forte velocita’ contro il corpo della vittima che era posto poco davanti al cofano dell’auto”; d’altra parte, la non rilevante consistenza delle lesioni provocate alla persona offesa non esclude di per se’ l’intenzione omicida, in quanto queste ben possono derivare da fattori indipendenti dalla volonta’ dell’agente; sono da disattendere le tesi difensive volte a dimostrare l’assenza della volonta’ di uccidere, dal momento che nessun testimone aveva udito (OMISSIS) minacciare verbalmente l’imputato ed e’ da escludere che costui non avesse visto la vittima davanti a se’ perche’ non vedeva da un occhio a causa del sangue che usciva dalla ferita ad uno zigomo riportata nel corso della lite con la propria convivente; non sussistono elementi di segno positivo idonei a giustificare la concessione di circostanze attenuanti generiche; in considerazione della esclusione della contestata circostanza aggravante, le pena doveva essere rideterminata in sette anni e sei mesi di reclusione, da ridurre a cinque anni di reclusione in applicazione dell’articolo 442 c.p.p., comma 2.
3. Per la cassazione della sentenza (OMISSIS) ha presentato ricorso (consistente in due atti, aventi identico contenuto, rispettivamente sottoscritti dall’imputato e dal difensore di fiducia, avvocato (OMISSIS)) contenente tre motivi di impugnazione.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Con il secondo motivo il ricorrente deduce omissione di motivazione quanto alla richiesta, formulata con il quarto motivo di appello, sollecitatoria del potere giudiziale di integrazione della prova (articolo 603 c.p.p., comma 1), consistente tanto nell’escussione della testimone (OMISSIS) (in funzione della ricostruzione dei fatti precedenti l’investimento) che nell’esecuzione di perizia medico legale idonea ad accertare l’entita’ delle lesioni alla vittima derivate dall’investimento “in relazione alla velocita’ del mezzo e alla compatibilita’ delle stesse con l’evento morte”.
1.1 Il motivo, da esaminare con priorita’ logica in quanto relativo a questione di rito interna al giudizio di appello, e’ manifestamente infondato.
E’ certamente vero che, alla luce del rinvio operato dall’articolo 443 c.p.p., comma 4 al successivo articolo 599 c.p.p. (e, dunque, all’articolo 599 c.p.p., comma 3 che, a sua volta, rinvia al successivo articolo 603 c.p.p.), e’ possibile, anche nell’ambito del rito abbreviato, entro certi limiti – e cioe’ quando il giudice di appello lo ritiene assolutamente necessario ai fini della decisione – procedere all’assunzione di nuove prove o alla riassunzione delle prove gia’ acquisite al processo di primo grado (in questo senso, cfr. Cass. Sez. 6, n. 1944 del 24 novembre 1993, dep. 1994, De Carolis, Rv. 197263).
E’ tuttavia irragionevole consentire all’imputato di prospettare nuove ipotesi di ricostruzione del fatto dopo l’ammissione del rito abbreviato non condizionato ad integrazione probatoria (come nel caso di specie), per poi dedurle come carenza di motivazione della sentenza che le abbia disattese. Infatti, qualora tali nuove ipotesi fossero state manifestate per condizionare un’integrazione probatoria, avrebbero reso inammissibile la richiesta di giudizio abbreviato (cfr. Cass. Sez. 5, n. 17425 del 13 luglio 2007, Giuliano, Rv. 236639).
In caso di giudizio abbreviato non condizionato, l’assunzione di nuove prove in appello e’ possibile, ma solo qualora queste siano coerenti con la scelta iniziale del rito. Altrimenti, specialmente se si riferiscono (come nel caso di specie) a circostanze di fatto anteriori al processo e certamente conosciute dall’imputato, alla loro ammissione osta la considerazione che avrebbero dovuto essere prospettate nell’ambito di una richiesta di giudizio abbreviato condizionato ad integrazione probatoria, sottoposta al relativo vaglio di ammissibilita’ (in questo senso, cfr.: Cass. Sez. 2, n. 49324 del 25 ottobre 2016, Monti, Rv. 268363; Cass. Sez. 5, n. 33870 del 7 aprile 2017, Crescenzo, Rv. 270474).
Nessun obbligo di motivazione aveva quindi nel caso di specie il giudice di appello quanto alla risposta di segno negativo alla sollecitazione all’esercizio del potere officioso di integrazione della prova contenuta nel motivo di appello nel ricorso richiamato.
2. Con il primo motivo di impugnazione viene dal ricorrente denunciata violazione di legge ed illogicita’ della motivazione fondante l’affermazione della responsabilita’ per il tentativo di omicidio, con particolare riferimento all’accertamento del dolo in assenza di confessione sul punto di esso ricorrente, in quanto: l’affermazione secondo cui esso ricorrente aveva, alla guida della propria autovettura, investito la persona offesa a forte velocita’, con cio’ rivelando la sussistenza di volonta’ omicida, era pero’ contraddetta, quanto alla qualificazione della velocita’ come “elevata”, dalla scarsa consistenza delle lesioni derivate dall’investimento, dall’esigua distanza dei corpo di (OMISSIS) dall’automobile al momento dell’impatto, nel punto di caduta di costui (in prossimita’ dell’auto e non a diversi metri di distanza da questa), nell’assenza di un reale movente.
2.1 Il motivo e’ manifestamente infondato.
Premesso che la scarsa consistenza, ovvero l’inesistenza, di lesioni dall’agente provocate alla persona offesa non esclude, di per se’, la volonta’ di uccidere questa, trattandosi di fatti indipendenti dalla volonta’ dell’agente, come un imprevisto movimento della vittima, un errato calcolo delta distanza, una mira non precisa (in questo senso, cfr., per tutte, Cass. Sez. 1, n. 52043 del 10 giugno 2014, Vaghi, Rv. 261702), la motivazione della sentenza impugnata resiste alla critica ad essa mossa dal ricorrente, avendo desunto, alla luce del contenuto delle dichiarazioni rese dalle persone informate sui fatti, dello stato esterno dell’autovettura dopo l’investimento della persona offesa e delle conseguenze di tale fatto su tale persona (frattura scomposta del terzo medio della clavicola destra che determino’ un intervento chirurgico consistito nella installazione di placca e viti, con prognosi di guarigione dopo 55 giorni: pagg. 2 e 3 della sentenza di primo grado), la volonta’ del ricorrente di uccidere (OMISSIS), dai seguenti elementi di fatto, unitariamente considerati: l’essersi posto il ricorrente alla guida della propria autovettura dopo avere desistito dal picchiare la propria convivente more uxorio; l’avere costui fatto partire il veicolo (“di elevata potenza e notevole peso”: pag 4 sentenza di primo grado) a forte velocita’ (secondo le dichiarazioni rese dalle persone informate sui fatti) e con questo investire la persona offesa (che non si attendeva tale comportamento dopo che il ricorrente era salito a bordo dell’automobile in stato di apparente tranquillita’) che si trovava di fronte alla parte anteriore del veicolo, “caricandola sul cofano dell’autovettura tanto da infrangere il parabrezza e scaraventarla in terra” (e cio’, senza alcuna deviazione di traiettoria).
Tale motivazione, immune da vizi logici, si conforma al principio, piu’ volte enunciato dalla giurisprudenza di legittimita’, secondo cui, in mancanza di attendibile confessione, la prova del dolo omicida e’ normalmente e prevalentemente affidata alle peculiarita’ estrinseche dell’azione criminosa, aventi valore sintomatico in base alle comuni regole di esperienza, quali il comportamento antecedente e susseguente al reato, la natura del mezzo usato, le parti del corpo della vittima attinte, la reiterazione dei colpi, nonche’ tutti quei dati che, secondo l’id quod plerumque accidit, abbiano un valore sintomatico in tal senso (cfr, per tutte: Cass. Sez. 1, n. 30466 del 7 luglio 2011, Miletta, Rv. 251014; Cass. Sez. 1, n. 39293 del 23 settembre 2008, Di Salvo, Rv. 241339).
3. Da ultimo (terzo motivo), il ricorrente deduce che: sussistevano i presupposti per concedere le circostanze attenuanti generiche, negate senza analitica motivazione; il corretto comportamento di esso ricorrente, unitamente alla sua volonta’ di risarcire la persona offesa, non erano stati tenuti in considerazione ai fini della determinazione della pena e nella sentenza non sono indicate le ragioni fondanti la statuizione relativa alla misura della sanzione, non contenuta nei suoi limiti minimi edittali.
3.1 Il motivo e’ manifestamente infondato nei due profili in cui e’ articolato.
Nel motivare il diniego della concessione delle attenuanti generiche non e’ necessario che il giudice prenda in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, ma e’ sufficiente che egli faccia riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti, rimanendo tutti gli altri disattesi o superati da tale valutazione (in questo senso, cfr., per tutte, Cass. Sez. 3, n. 28535 del 19 marzo 2014, Lule, Rv. 259899).
Invero, la motivazione relativa alla concessione ovvero al diniego della concessione delle circostanze innominate esprime un giudizio di fatto, come tale non sindacabile in sede di legittimita’, purche’ sia non contraddittoria e dia conto, anche richiamandoli, degli elementi, tra quelli indicati nell’articolo 133 c.p., considerati preponderanti ai fini della concessione o dell’esclusione (in questo senso, cfr., per tutte, Cass. Sez. 5, n. 43952 del 13 aprile 2017, Pettinelli, Rv. 271269).
In tale ordine di concetti, la sentenza impugnata conferma la decisione di non concedere al ricorrente di circostanze attenuanti generiche – dalla sentenza di primo grado fondata su precedenti condanne dimostrative dell’indole violenta dell’imputato e dalla gravita’ intrinseca del fatto, commesso in presenza della figlia, minorenne, dell’imputato – sul rilievo della mancanza di elementi o motivi idonei ad una decisione di segno positivo.
La motivazione e’ sul punto adeguata e non contraddittoria, anche perche’ il ricorrente non ha – contrariamente a quanto in questa sede dedotto – confessato il tentativo di omicidio (avendo solo ammesso di avere investito la vittima senza avvedersi della sua presenza) e non risulta avere neppure tentato di risarcire il danno cagionato alla persona offesa.
L’indicazione della misura della pena in sette anni e sei mesi di reclusione, in considerazione della, confermata, gravita’ dl reato, non abbisognava poi di specifica e dettagliata motivazione, essendo la stessa superiore di soli sei mesi a quella, minima (sette anni) prevista dalla legge per il delitto di omicidio tentato (ventuno anni di reclusione diminuita di due terzi, in applicazione dell’articolo 56 c.p., comma 2); non esigendosi, invero, una specifica e dettagliata motivazione nel caso in cui venga inflitta una pena al di sotto della media edittale se, come nel caso di specie, il parametro alla base della valutazione si desume dal complesso delle argomentazioni contenute nella sentenza e, dunque, non necessariamente dalla parte dedicata alla quantificazione della pena (in questo senso, cfr., per tutte: Cass. Sez. 3, n. 38251 del 15 giugno 2016, Rignanese, Rv. 267949; Cass. Sez. 4, n. 46412 del 5 novembre 2015, Scaramozzino, Rv. 265283)
4. In conclusione, il ricorso e’ inammissibile in ragione della manifesta infondatezza dei motivi con esso dedotti (articolo 606 c.p.p., comma 3).
Dalla inammissibilita’ del ricorso derivano la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e, in mancanza di elementi atti ad escludere la colpa nella determinazione della causa di inammissibilita’ (Corte Cost. sent. n. 186 del 2000), al versamento di una somma di danaro alla Cassa delle ammende che stimasi equo determinare nella misura di Euro 2000,00 (articolo 616 c.p.p.).
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2000,00 in favore della Cassa delle ammende.
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