Non possono ritenersi beni pertinenziali gli interventi edilizi che non siano tuttavia coessenziali ma ulteriori rispetto a esso

Consiglio di Stato, sezione sesta, Sentenza 3 giugno 2019, n. 3677.

La massima estrapolata:

Dal punto di vista urbanistico non possono ritenersi beni pertinenziali gli interventi edilizi che, pur legati da un vincolo di servizio a un bene principale, non siano tuttavia coessenziali ma ulteriori rispetto a esso, in quanto suscettibili di un utilizzo autonomo e separato e in quanto occupanti aree e volumi diversi dal bene principale; tale natura è riconoscibile soltanto a opere di modesta entità e accessorie rispetto a quella principale, quali i piccoli manufatti, ma non anche a opere che, dal punto di vista delle dimensioni e della funzione, si connotino per una propria autonomia rispetto a quella considerata principale e non siano coessenziali alla stessa.

Sentenza 3 giugno 2019, n. 3677

Data udienza 9 maggio 2019

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Sesta
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 1882 del 2013, proposto da
Pa. Ma., rappresentata e difesa dall’avvocato Ni. Fe., con domicilio eletto presso lo studio Fa. Bu., in Roma, viale (…);
contro
Comune di (omissis), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall’avvocato El. Ci., con domicilio eletto presso lo studio Am. Ci., in Roma, via (…);
per la riforma
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Toscana Sezione Terza n. 01237/2012, resa tra le parti, concernente il diniego di un condono edilizio e la demolizione di opere abusive.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio del Comune di (omissis);
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 9 maggio 2019 il Cons. Alessandro Maggio e uditi per le parti gli avvocati Lu. Ri., per delega di Ni. Fe., ed El. Ci.;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO e DIRITTO

La sig.ra Pa. Ma., asserisce di aver eseguito, in assenza di titolo edilizio, alcuni interventi (qualificati come di manutenzione straordinaria) su un’area, con annesso fabbricato adibito ad abitazione, ubicata in Comune di (omissis).
In base a quanto affermato dalla sig.ra Ma. tali interventi, posti in essere nel corso del 1999, avrebbero avuto ad oggetto:
a) la trasformazione di un fatiscente manufatto seminterrato, precedentemente utilizzato come cisterna per la raccolta delle acque, in un “ripostiglio-deposito”;
b) la realizzazione di alcune opere di sistemazione esterna (gradini e pavimentazione in cemento).
Al fine di sanare l’abuso la sig.ra Ma. ha presentato domanda di condono edilizio e istanza di accertamento di compatibilità paesaggistico-ambientale essendo l’area sottoposta a vincolo.
Sennonché, con ordinanza 12/6/2008 n. 002/267, il Comune, sul presupposto che l’opera eseguita configurasse un nuovo volume non consentito, essendo l’area soggetta a vincolo paesaggistico e idrogeologico, ha negato il condono e ha contestualmente disposto la demolizione delle opere abusive.
Ritenendo la detta ordinanza illegittima, la sig.ra Ma. l’ha impugnata con ricorso al T.A.R. Toscana, il quale, con sentenza 3/7/2012, n. 1237, lo ha respinto.
Avverso la sentenza ha proposto appello la sig.ra Ma..
Per resistere al ricorso si è costituito in giudizio il Comune di (omissis).
Con successive memorie le parti hanno ulteriormente illustrato le rispettive tesi difensive.
Alla pubblica udienza del 9/5/2019 la causa è passata in decisione.
Col primo motivo si denuncia l’errore commesso dal Tribunale nel ritenere non provato che l’originario manufatto fosse stato realizzato in epoca antecedente al 1967.
Difatti la sua esistenza sin dagli anni sessanta risulterebbe comprovata: a) dal tipo di materiali utilizzati per la costruzione; b) dalle modalità costruttive osservate; c) dalla sua destinazione ad uso cisterna (posto che all’epoca non esisteva acquedotto comunale); d) da un’aerofotogrammetria del settembre 1985 che ne documenterebbe la presenza.
D’altra parte il suddetto manufatto “benché diruto ed in stato di completo abbandono” sarebbe stato già presente al momento dell’acquisto dell’area da parte dell’odierna appellante avvenuto nel 1997.
Ciò risulterebbe dimostrato dalle incontestate dichiarazioni all’uopo rese dal dante causa della sig.ra Ma. e dal titolare dell’impresa che ha realizzato i lavori.
La sentenza meriterebbe censura anche nella parte in cui afferma che l’opera non avrebbe le caratteristiche di una pertinenza dell’immobile principale (quello adibito ad abitazione).
Quella realizzata costituirebbe, infatti, un’unità immobiliare di ridotte dimensioni (circa venticinque mq secondo l’appellante, oltre 43 mq sulla base degli atti comunali) destinata a soddisfare unicamente esigenze dell’edificio principale e insuscettibile di autonomo utilizzo (è priva di riscaldamento e di impianti per la cucina).
Il bene non avrebbe alcuna capacità di produrre reddito autonomo e sarebbe mancante di autonomo valore di mercato.
Peraltro, la destinazione a ripostiglio e magazzino emergerebbe anche dalle foto scattate dalla Polizia Municipale.
La destinazione pertinenziale per contro non sarebbe esclusa dall’esistenza di un piccolo servizio igienico.
La doglianza è infondata sotto tutti i profili in cui si articola.
Occorre premettere che in base a un consolidato orientamento giurisprudenziale che il Collegio condivide, l’onere della prova circa l’ultimazione dei lavori entro la data utile per ottenere il condono grava sul richiedente la sanatoria, dal momento che solo l’interessato può fornire inconfutabili atti, documenti ed elementi probatori che siano in grado di radicare la ragionevole certezza dell’epoca di realizzazione del manufatto da sanare.
Tale prova dev’essere rigorosa e deve fondarsi su documentazione certa e univoca e comunque su elementi oggettivi, dovendosi negare ogni rilevanza a dichiarazioni sostitutive di atto di notorietà o a semplici dichiarazioni rese da terzi, in quanto non suscettibili di essere verificate (Cons. Stato, Sez. VI, 4/3/2019, n. 1476; 9/7/2018, n. 4168; Sez. IV, 30/3/2018, n. 2020).
In difetto di prova, l’amministrazione ha il dovere di negare la sanatoria dell’abuso (ex plurimis Cons. Stato, Sez. VI, 3/4/2019, n. 2203; 6/2/2019, n. 897; 9/7/2018, n. 4168 e 17/5/2018, n. 2995; Sez. IV, 30/8/2018, n. 5101).
Nel caso di specie tale rigorosa dimostrazione non è stata fornita.
Ed invero, la sig.ra Ma. ha affermato che l’opera oggetto di condono deriverebbe dalla trasformazione di un preesistente manufatto, a suo dire già adibito a cisterna, realizzato nel 1966, ossia precedentemente all’entrata in vigore della L. 6/8/1967, n. 765, che ha generalizzato l’obbligo di munirsi di titolo edilizio ai fini dell’esercizio dello ius aedificandi.
Tale affermazione, peraltro, risulta del tutto indimostrata, non essendo stato fornito alcun elemento probatorio che ne attesti la veridicità .
Al riguardo risulta privo di ogni rilevanza il riferimento, non meglio precisato, al tipo di materiali utilizzati per la costruzione e alle modalità costruttive osservate.
Ed invero, a prescindere dalla genericità del medesimo, non è implausibile ipotizzare che un manufatto recente possa essere stato realizzato con materiali e modalità costruttive propri di epoche precedenti.
Altrettanto irrilevante è il rilievo concernente la pregressa destinazione del bene ad uso cisterna, posto che tale utilizzazione risulta solo affermata ma non dimostrata, e del resto nessun elemento decisivo può trarsi dalla dedotta circostanza che all’epoca non esistesse acquedotto comunale.
Priva di rilevanza probatoria risulta, altresì, l’invoca aerofotogrammetria del 1985 da cui si ricaverebbe la presenza del manufatto a quella data.
Il suddetto documento fotografico è assolutamente inidoneo allo scopo, sia in quanto al più può dimostrare l’esistenza del fabbricato al momento in cui la foto è stata scattata, sia soprattutto perché quest’ultima, priva di sufficiente nitidezza, non consente di individuare con univoca certezza il bene di cui si discute.
Altrettanto dicasi in relazione all’aerofotogrammetria del 1976 (peraltro inammissibilmente depositata solo in appello) che risulta ancor meno chiara di quella del 1985.
Alla luce delle esposte considerazioni si rivelano, poi, prive di rilevanza probatoria le dichiarazioni rese dal dante causa dell’appellante e dal titolare dell’impresa che ha eseguito i lavori circa l’esistenza del manufatto già asseritamente adibito a cisterna.
Anche perché di esso, come correttamente rilevato dal Tribunale, non si fa alcuna menzione nel contratto con cui la sig.ra Ma. ha acquistato l’intero complesso immobiliare.
L’appellante tenta di spiegare l’omessa menzione rilevando che all’epoca della stipula della compravendita (1997) non era consentito far riferimento nel contratto a manufatti privi di titolo edilizio.
Ma tale spiegazione è in contraddizione con la tesi sostenuta dalla stessa appellante, secondo cui il manufatto, essendo stato realizzato prima del 1967, non avrebbe richiesto titolo abilitativo.
Ugualmente inconferente, al fine di fornire la prova dell’esistenza del fabbricato di che trattasi, risulta la circostanza che nel decreto con cui l’area, già facente parte di un fallimento, è stata trasferita al dante causa dell’appellante, si indichi espressamente la presenza di “accessori”.
Ed invero, tale decreto non risulta depositato in giudizio e in ogni caso nulla dimostra che i detti “accessori” includessero il vetusto manufatto di cui si discute.
Priva di pregio è anche la censura incentrata sulla pretesa natura pertinenziale del fabbricato realizzato mediante i lavori eseguiti.
Difatti, dal punto di vista urbanistico, non possono ritenersi beni pertinenziali gli interventi edilizi che, pur legati da un vincolo di servizio a un bene principale, non siano tuttavia coessenziali ma ulteriori rispetto a esso, in quanto suscettibili di un utilizzo autonomo e separato e in quanto occupanti aree e volumi diversi dal bene principale.
Tale natura è riconoscibile, secondo consolidata e condivisibile giurisprudenza, soltanto a opere di modesta entità e accessorie rispetto a quella principale, quali i piccoli manufatti per il contenimento di impianti tecnologici “et similia”, ma non anche a opere che, dal punto di vista delle dimensioni e della funzione, si connotino per una propria autonomia rispetto a quella considerata principale e non siano coessenziali alla stessa (Cons. Stato, Sez. VI, 14/1/2019, n. 323; 17/5/2017, n. 2348; 16/2/2017, n. 694).
Ed infatti è stato espressamente escluso che possa costituire pertinenza un locale adibito a deposito, il quale consta di volumetria aggiuntiva (Cons. Stato, Sez. VI, 8/1/2019, n. 180).
In definitiva il vincolo pertinenziale che lega il manufatto accessorio a quello principale dev’essere tale in senso oggettivo, cosicché il primo non risulti suscettibile di alcuna diversa utilizzazione economica.
Alla luce delle descritte coordinate di diritto è evidente che il fabbricato realizzato dall’appellante, di non modeste dimensioni (sia che si considerino le misure fornite dall’appellante, sia che si prendano a riferimento quelle indicate dal Comune), non possieda le caratteristiche necessarie per poter essere considerato, dal punto di vista urbanistico, una pertinenza, costituendo piuttosto un nuovo volume suscettibile di autonomo utilizzo, senza che possa avere alcun rilievo l’intendimento dell’appellante di destinare il locale a “stretto servizio dell’abitazione principale”.
Col secondo motivo si deduce che l’impugnata sentenza, laddove ha ritenuto l’esistenza dei vincoli paesaggistico e idrogeologico gravanti sull’area ostativi alla reclamata sanatoria, risulterebbe ulteriormente erronea, atteso che il contrasto coi detti vincoli sarebbe escluso dall’inesistenza di un nuovo volume.
In ogni caso risalendo l’originario manufatto a epoca anteriore al 1967 non necessiterebbe di titolo edilizio.
Al riguardo risulterebbe ulteriormente erroneo il riferimento fatto dal giudice di prime cure alla circostanza che il PRG di Bagno a Ripoli sarebbe stato adottato con delibera del settembre 1964 per cui in ogni caso avrebbe operato la norma di salvaguardia introdotta dall’art. 1 della L. 3/11/1952, n. 1902.
In base a tale norma, infatti, la misura di salvaguardia non operava automaticamente, ma solo a seguito di apposito provvedimento del Sindaco che nella specie non sarebbe stato adottato.
La doglianza è infondata, risultando fallace il presupposto da cui muove.
Difatti, che come rilevato in sede di esame del primo motivo, il manufatto realizzato dall’appellante configura un nuovo volume.
Col terzo motivo si denuncia l’errore commesso dal Tribunale nel non rilevare la carenza d’istruttoria e il difetto di motivazione che vizierebbero l’impugnata ordinanza 002/267 del 2008.
Quest’ultima si fonderebbe soltanto sugli accertamenti compiuti dalla Polizia Municipale a seguito di un sopralluogo eseguito nel 2004 per altre finalità, per cui non avrebbero potuto essere posti a base del denegato condono edilizio.
In particolare non sarebbe stata appurata la reale consistenza dell’abuso, che, diversamente da quanto ritenuto dall’amministrazione e dal Tribunale, non avrebbe dato luogo alla creazione di un locale destinato a uso residenziale, con la conseguenza che erroneamente l’intervento realizzato sarebbe stato ritenuto in contrasto con la normativa urbanistica di riferimento (nello specifico artt. 32, 33 e 34 del vecchio regolamento urbanistico comunale e artt. 32 e 33 del nuovo).
Peraltro la detta normativa ammetterebbe i lavori nella specie eseguiti.
La doglianza non merita accoglimento.
Il diniego di condono si fonda sulla domanda presentata dalla sig.ra Ma., che così ha descritto l’opera realizzata: “piccolo manufatto edilizio in parte seminterrato della consistenza di due locali ed un servizio igienico ad uso ripostiglio a stretto servizio dell’abitazione principale”.
La reiezione è motivata con riguardo al rilevato contrasto dell’intervento con la norma di cui all’art. 2, comma 5, lett. a), della L.R. 20/10/2004, n. 53, stante l’ubicazione dell’area d’intervento in zona soggetta a vincolo paesaggistico e idrogeologico.
L’avversato provvedimento negativo non può quindi ritenersi viziato né da difetto di motivazione, in quanto enuncia chiaramente, seppur in modo succinto, le ragioni che lo sorreggono, né da carenza d’istruttoria, in quanto gravava sulla richiedente l’onere di dimostrare l’esistenza dei presupposti richiesti per l’accoglimento della domanda, onere questo che, come più sopra rilevato, è rimasto inosservato.
D’altra parte la normativa applicabile al caso che occupa non consentiva la sanatoria dell’abuso per cui è causa.
La norma menzionata nell’avversato provvedimento di diniego stabilisce che: “Non sono inoltre in alcun caso ammessi a sanatoria:
a) le opere abusive in contrasto con i vincoli imposti sulla base di leggi statali e regionali a tutela degli interessi idrogeologici e delle falde acquifere, dei beni ambientali e paesistici nonché dei parchi e delle aree protette nazionali, regionali e provinciali ed istituiti prima dell’entrata in vigore della presente legge, e che non siano conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici…”. E le disposizioni di questi ultimi invocate dall’appellante precludevano la sanatoria dell’illecito edilizio da quest’ultima realizzato.
L’art. 32, comma 1, del regolamento urbanistico vigente al momento della presentazione della domanda di condono vietava nel “territorio aperto” (nel cui perimetro ricade l’area della sig.ra Ma.) le “nuove costruzioni ad uso residenziale”, ammettendo “gli annessi in muratura solo per le aziende della campagna tradizionale produttiva, per esigenze legate alla conduzione dei fondi da dimostrare con le procedure di legge”.
E nel caso che occupa non vi è alcuna prova che il locale sia funzionale al soddisfacimento delle dette esigenze.
Il successivo art. 33 del medesimo regolamento, che disciplina gli interventi sugli edifici esistenti, non è, poi, applicabile alla fattispecie in quanto, come più sopra rilevato, non è stata dimostrata l’esistenza dell’originario manufatto su cui sarebbero stato svolti i lavori di trasformazione.
Ugualmente inconferente è il richiamo all’art. 34, comma 5, del suddetto regolamento atteso che questo si riferisce alla realizzazione di depositi e magazzini all’aperto, ammettendo soltanto la costruzione di annessi precari per uso legato all’attività agricola.
Nemmeno le norme del regolamento urbanistico vigente al momento della definizione della domanda di condono autorizzano una diversa conclusione.
Queste, infatti, non consentono “la costruzione di nuove residenze ancorché agricole” (art. 33).
Mentre l’art. 31, comma 11, esplicitamente invocato dalla sig.ra Ma., consente si la realizzazione di cantine e locali tecnici a servizio di edifici esistenti, ma alle condizioni ivi specificate, tra cui quella che l’altezza interna non superi i ml 2,20, requisito questo nella specie insussistente, avendo il locale oggetto della richiesta di condono altezza interna di ml 2,70 (si veda nota della Polizia Municipale in data 13/1/2004 e comunicazione di avvio del procedimento).
Col quarto motivo si deduce che, contrariamente a quanto ritenuto dal Tribunale, in base all’art. 2, comma 5, lett. a), della L.R. n. 53/2004 sarebbero sanabili anche le opere non conformi agli strumenti urbanistici purché non in contrasto coi vincoli gravanti sull’area, per cui illegittimamente il Comune avrebbe omesso di chiedere il parere alle competenti autorità .
La doglianza è priva di pregio.
Difatti, ai sensi della menzionata norma, non è ammessa la sanatoria delle opere abusive non “conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici”.
Col quinto motivo l’appellante lamenta, infine, che il giudice di prime cure avrebbe erroneamente respinto la doglianza con cui era stato dedotto che, essendo l’abuso risalente nel tempo, l’ordine di riduzione in pristino avrebbe dovuto essere sorretto da congrua motivazione in merito alla ritenuta prevalenza dell’interesse pubblico alla demolizione rispetto a quello privato al mantenimento del bene.
La doglianza è infondata.
Per consolidato orientamento giurisprudenziale, da cui il Collegio non ritiene di doversi discostare, il provvedimento con cui viene ingiunta la demolizione di un immobile abusivo, avendo natura vincolata ed essendo ancorato al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede, neppure qualora intervenga a distanza di tempo dalla realizzazione dell’opera, una specifica motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse sottese alla sua adozione (fra le tante, Cons. Stato, Sez. VI, 4/2/2019, n. 852; 10/12/2018, n. 6955; 19/11/2018, n. 6493; Sez. IV, 25/3/2019, n. 1942).
In ogni caso l’abuso di cui si discute non è nemmeno particolarmente risalente nel tempo, essendo stato realizzato, per espressa ammissione dell’appellante, nel corso del 1999.
L’appello va, pertanto, respinto.
Restano assorbiti tutti gli argomenti di doglianza, motivi od eccezioni non espressamente esaminati che il Collegio ha ritenuto non rilevanti ai fini della decisione e comunque inidonei a supportare una conclusione di tipo diverso.
Spese e onorari di giudizio, liquidati come in dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
Sezione Sesta, definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge.
Condanna l’appellante al pagamento delle spese processuali in favore della parte appellata, liquidandole forfettariamente in complessivi Euro 3.000/00 (tremila), oltre accessori di legge.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 9 maggio 2019 con l’intervento dei magistrati:
Giancarlo Montedoro – Presidente
Diego Sabatino – Consigliere
Alessandro Maggio – Consigliere, Estensore
Dario Simeoli – Consigliere
Francesco Gambato Spisani – Consigliere

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