Nell’ambito del lavoro pubblico contrattualizzato

Consiglio di Stato, Sentenza|28 aprile 2021| n. 3429.

Nell’ambito del lavoro pubblico contrattualizzato, in caso di abuso del ricorso al contratto di lavoro a tempo determinato da parte di una Pubblica amministrazione, il dipendente, che abbia subito l’illegittima precarizzazione del rapporto di impiego, ha diritto – fermo restando il divieto di trasformazione del contratto a tempo determinato a tempo indeterminato ai sensi dell’art. 36, comma 5, D. Lgs. 30 marzo 2001, n. 165 – al risarcimento del danno previsto dalla disposizione de qua, con esonero dell’onere probatorio, ex art. 32, comma 5, L. 4 novembre 2010, n. 183 (si v. oggi art. 28, L. n. 81/15), nella misura pari ad un’indennità onnicomprensiva tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, secondo i criteri indicati nell’art. 8, L. 15 luglio 1966, n. 604. Per effetto dell’abusiva reiterazione di contratti di lavoro a tempo determinato, l’importo corrisposto al lavoratore assume natura risarcitoria da perdita di chance, in quanto tale estranea ai rapporti di lavoro realizzati nella legittima impossibilità di procedere alla loro conversione. Pertanto, gli importi riconosciuti dal Giudice del lavoro quale risarcimento del danno ai sensi dell’art. 36, comma 5 D. Lgs. n. 165 del 2001, non sono assoggettabili a tassazione ex art. 6, comma 1 D.P.R. n. 917 del 1986.

Sentenza|28 aprile 2021| n. 3429

Data udienza 11 febbraio 2021

Integrale

Tag – parola chiave: Lavoro – Rapporto di lavoro pubblico contrattualizzato – Abuso del ricorso al contratto di lavoro a tempo determinato – Risarcimento danno – Tassazione – Esclusione

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Sesta
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 6583 del 2020, proposto da
Ca. Lo., rappresentata e difesa dall’avvocato Mi. Ur., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;
contro
Ministero dell’Istruzione, Ufficio Scolastico Regionale Puglia, in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore, rappresentati e difesi dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via (…);
per la riforma
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia Sezione Prima n. 00670/2020, resa tra le parti;
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio del Ministero dell’Istruzione e dell’Ufficio Scolastico Regionale Puglia;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore il Cons. Francesco De Luca nella camera di consiglio del giorno 11 febbraio 2021, svoltasi ai sensi dell’art. 4, comma 1 del Decreto Legge n. 28 del 30 aprile 2020 e dell’art. 25 Decreto Legge n. 137 del 2020, conv. dalla L. n. 176 del 2020;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO e DIRITTO

1. Ricorrendo dinnanzi a questo Consiglio, la Sig.ra Longo appella la sentenza n. 670/2020, con cui il Tar Puglia, Bari, ha rigettato il ricorso di prime cure, teso ad ottenere l’ottemperanza della sentenza del Tribunale di Bari, sez. lavoro, n. 5364/17.
In particolare, secondo quanto dedotto in appello:
– la ricorrente, collaboratrice scolastica, ha lavorato ininterrottamente alle dipendenze del Ministero dell’Istruzione, prima di essere immessa in ruolo, sulla base di undici contratti a termine, a partire dall’anno scolastico 2000/2001;
– con ricorso proposto dinnanzi al Tribunale di Bari, sez. lavoro, la ricorrente ha chiesto la condanna dell’amministrazione al risarcimento del danno per l’illegittima apposizione del termine di durata al rapporto di lavoro e, quindi, al pagamento della speciale indennità prevista dall’art. 32, comma 5, della legge n. 183/10, oltre accessori di legge, nonché il riconoscimento della progressione stipendiale spettante al personale di ruolo;
– il Tribunale adito, con sentenza n. 5364/17, in accoglimento parziale del ricorso, ha dichiarato l’illegittimità dell’apposizione del termine del 31 agosto ai contratti di lavoro conclusi tra le parti su organico di diritto, condannando le amministrazioni resistenti al risarcimento del danno subito dalla ricorrente, liquidato in n. 8,5 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, con aggiunta di interessi e rivalutazione dalla data della sentenza sino all’effettivo soddisfo;
– la sentenza del giudice del lavoro, passata in giudicato, è stata eseguita parzialmente dall’Amministrazione, mediante il pagamento di Euro 8.520,31, inferiore rispetto all’importo asseritamente dovuto, pari ad Euro 12.761,81, dato dalla moltiplicazione dell’ultima retribuzione globale di fatto per 8,5;
– lamentando l’inottemperanza integrale del titolo giudiziale in esame, la Sig.ra Longo ha proposto ricorso dinnanzi al Tar Puglia, Bari, chiedendo di ordinare all’Amministrazione intimata di ottemperare alla Sentenza del Tribunale di Bari – Sezione Lavoro n. 5364/2017 del 20.11.2017 e, per l’effetto, di provvedere alla corresponsione in favore della ricorrente del risarcimento del danno nella misura di 8,5 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto (detratto l’importo già versato di Euro 8.520,31), con l’aggiunta di interessi e rivalutazione nei limiti di legge dalla data della sentenza e sino all’effettivo soddisfo;
– all’esito di un ordine istruttorio impartito dal Tar, l’Amministrazione ha rappresentato in giudizio di avere calcolato il danno sulla base della retribuzione percepita alla data di presentazione del ricorso al giudice del lavoro (maggio 2012) e di avere operato la ritenuta d’acconto IRPEF;
– il Tar ha rigettato il ricorso.
2. In particolare, alla stregua di quanto emergente dalla sentenza gravata il Tar ha rilevato che:
– la questione riferita alla necessità di sottoporre a tassazione la somma complessiva ottenuta a titolo risarcitorio rientrava nella giurisdizione amministrativa, in quanto relativa allo specifico profilo della corretta esecuzione della sentenza ottemperanda, così venendo in rilievo un aspetto rientrante nei poteri cognitori del G.A. ex artt. 112 e ss. cpa.;
– le somme percepite dal lavoratore a titolo risarcitorio dovevano ritenersi soggette a tassazione solo se, ed entro i limiti in cui, fossero volte a reintegrare un danno concretatosi nella mancata percezione di redditi (cd. lucro cessante), mentre non potevano essere assoggettate a tassazione quelle intese a riparare un pregiudizio di natura diversa (cd. danno emergente);
– il risarcimento del danno nei casi di conversione del contratto di lavoro a tempo determinato configurava una posta risarcitoria avente natura di reintegrazione del danno conseguente alla perdita retributiva e, pertanto, essa andava correttamente assoggettata a tassazione, sicché doveva ritenersi esattamente eseguita la sentenza in parte qua, avendo l’Amministrazione applicato le dovute ritenute fiscali;
– la determinazione dell’ultima retribuzione globale di fatto doveva essere ancorata alla violazione commessa dal datore, da individuarsi nella stipula del contratto a tempo determinato (rectius: nell’apposizione della invalida clausola in ordine alla durata), sicché l’ultima retribuzione globale di fatto andava individuata in quella per ultima percepita dal lavoratore in relazione al contratto di lavoro parzialmente illegittimo;
– pertanto, nel caso di specie, tale momento doveva essere individuato nell’agosto 2011, atteso che la ricorrente era stata assunta a tempo indeterminato nel settembre 2011;
– il ricorso doveva, dunque, essere rigettato, restando a carico dell’Amministrazione di verificare se la retribuzione presa in considerazione per la liquidazione (al 5.2.2012), pur se parametrata ad una data diversa da quella da utilizzare come base di calcolo in base al principio di diritto appena affermato (al 31.8.2011), fosse di pari importo.
3. La ricorrente in prime cure ha appellato la sentenza pronunciata dal Tar, censurandone l’erroneità con l’articolazione di tre motivi di impugnazione.
4. Le Amministrazioni intimate si sono costituite in giudizio, resistendo al ricorso.
5. L’appellante ha insistito nelle proprie conclusioni con note di udienza depositate in data 8.2.2021.
6. La causa è stata trattenuta in decisione nella camera di consiglio dell’11 febbraio 2021.
7. Con il primo motivo di appello è censurata l’erroneità della sentenza di prime cure, per avere ritenuto che le somme oggetto della condanna giudiziale emessa dal giudice del lavoro dovessero essere, da un lato, sottoposte a tassazione, dall’altro, parametrate ad una data corrispondente alla scadenza dell’ultimo contratto di lavoro a tempo determinato illecitamente rinnovato.
7.1 Secondo la prospettazione attorea, invece:
– le somme percepite dal dipendente a titolo di risarcimento del danno cagionato dalla condotta del datore di lavoro pubblico non potrebbero essere sottoposte a tassazione, tenuto conto che il danno risarcibile ai sensi dell’art. 36, comma 5, D. Lgs. n. 165/01 non sarebbe un danno da mancata conversione del rapporto di lavoro, ma un danno da perdita di chance;
– la retribuzione globale di fatto da prendere in esame avrebbe dovuto essere riferita alla retribuzione percepita alla data della sentenza (novembre 2017), tenuto conto che il rapporto di lavoro della ricorrente era successivamente proseguito, una volta scaduto il contratto di lavoro a termine, per effetto della stabilizzazione intervenuta in data 1.9.2011.
7.2 Il motivo di appello è fondato.
7.3 Premesso che le statuizioni di prime cure non risultano impugnate in ordine alla questione di giurisdizione – da ritenere, dunque, ormai preclusa – si osserva che, sul piano tributario, al fine di verificare l’assoggettabilità ad imposizione fiscale delle somme dovute dall’Amministrazione datrice di lavoro in favore del proprio dipendente a titolo risarcitorio, occorre avere riguardo al fatto costitutivo dell’obbligazione risarcitoria.
In particolare, “in tema d’imposte sui redditi di lavoro dipendente, dalla lettura coordinata del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 6, comma 2, e art. 46 si ricava che, al fine di poter negare l’assoggettabilità ad IRPEF di una erogazione economica effettuata a favore del prestatore di lavoro da parte del datore di lavoro, è necessario accertare che la stessa non trovi la sua causa nel rapporto di lavoro o che tale erogazione, in base all’interpretazione della concreta volontà manifestata dalle parti, non trovi la fonte della sua obbligatorietà nè in redditi sostituiti, nè nel risarcimento di danni consistenti nella perdita di redditi futuri, cioè successivi alla cessazione od all’interruzione del rapporto di lavoro” (Cass. civ. Sez. V, Ord., 24 settembre 2019, n. 23717).
Con particolare riferimento all’indennità riconosciuta al lavoratore pubblico in caso di illecita reiterazione di contratti di lavoro a termine, inoltre, si è rilevato che “in materia di pubblico impiego privatizzato, il danno risarcibile di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36, comma 5, non deriva dalla mancata conversione del rapporto, legittimamente esclusa sia secondo i parametri costituzionali che per quelli Europei, bensì dalla prestazione in violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori da parte della P.A., ed è configurabile come perdita di “chance” di un’occupazione alternativa migliore, con onere della prova a carico del lavoratore, ai sensi dell’art. 1223 c.c ” (ex multis, Cass. civ. Sez. lavoro, Ord., 14 gennaio 2021, n. 559).
Nel regime del lavoro pubblico contrattualizzato, pertanto, in caso di abuso del ricorso al contratto di lavoro a tempo determinato da parte di una pubblica amministrazione il dipendente, che abbia subito la illegittima precarizzazione del rapporto di impiego, ha diritto, fermo restando il divieto di trasformazione del contratto a tempo determinato a tempo indeterminato posto dall’art. 36, comma 5, D. Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, al risarcimento del danno previsto dalla medesima disposizione, con esonero dell’onere probatorio, nella misura e nei limiti di cui all’art. 32, comma 5, L. 4 novembre 2010, n. 183 (cfr. oggi art. 28 L. n. 81/15) e quindi nella misura pari ad un’indennità onnicomprensiva tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell’art. 8 L. 15 luglio 1966, n. 604 (Cass. civ. Sez. lavoro, Ord., 14 dicembre 2020, n. 28423).
Ne deriva, pertanto, che, assumendo l’importo corrisposto al lavoratore, per effetto dell’abusiva reiterazione di contratti di lavoro a tempo determinato, natura risarcitoria da perdita di chance, come tale estranea ai rapporti di lavoro posti in essere nella legittima impossibilità di procedere alla loro conversione, gli importi riconosciuti dal Giudice del lavoro quale risarcimento del danno ex art. 36, comma 5 D.Lgs. n. 165 del 2001, non sono assoggettabili a tassazione ex art. 6, comma 1 D.P.R. n. 917 del 1986 (Cass. civ. Sez. VI – 5, Ord., 23 ottobre 2019, n. 27011).
Il motivo di appello, pertanto, merita accoglimento nella parte in cui esclude che le somme oggetto della condanna giudiziale di cui alla sentenza n. 5364/2017 potessero essere sottoposte ad imposizione fiscale, facendosi questione di risarcimento del danno ai sensi dell’art. 36, comma 5, D. Lgs. n. 165/01 (cfr. pag. 6 sentenza ottemperanda), liquidato nell’osservanza dei limiti di cui all’art. 32, comma 5, L. n. 183/10 (pag. 7 sentenza ottemperanda), come tale volto a ristorare una perdita di chance di un’occupazione alternativa migliore, estranea ai rapporti di lavoro posti in essere nella legittima impossibilità di procedere alla loro conversione; con conseguente non assoggettabilità ad imposizione ai sensi dell’art. 6, comma 1 D.P.R. n. 917 del 1986.
7.4 Il motivo di appello risulta fondato anche nella parte in cui denuncia l’erronea individuazione del momento temporale cui fare riferimento per definire la retribuzione globale di fatto da porre a base di calcolo della somma all’uopo da risarcire in favore dell’odierna ricorrente.
Nel caso di specie si fa questione di ottemperanza di un titolo giudiziale emesso dall’autorità giudiziaria ordinaria.
Pertanto, mentre a fronte di un giudicato amministrativo, l’ottemperanza si caratterizza per il suo contenuto composito (valorizzato da Consiglio di Stato, Ad. Plen., 15 gennaio 2013, n. 2), permettendo al giudice procedente, avente giurisdizione altresì sul rapporto sostanziale, di completare il comando ottemperando, mediante l’esercizio di un potere avente anche natura cognitoria; a fronte di un titolo emesso da un giudice appartenente ad altro plesso giurisdizionale, il giudice amministrativo, adito in sede di ottemperanza, non potrebbe esercitare analoghi poteri di integrazione del giudicato, altrimenti incorrendo nel vizio di eccesso di potere giurisdizionale, stante l’esorbitanza dai limiti esterni che segnano l’ambito della giurisdizione amministrativa.
In subiecta materia deve trovare applicazione il principio di diritto per cui “il potere interpretativo del giudicato da eseguire, che è insito nella struttura stessa del giudizio di ottemperanza in quanto giudizio di esecuzione, allorché attenga ad un giudicato formatosi davanti ad un giudice diverso da quello amministrativo, non può che esercitarsi sulla base di elementi interni al giudicato da ottemperare e non su elementi esterni, la cui valutazione rientra in ogni caso nella giurisdizione propria del giudice che ha emesso la sentenza” (Cass. civ. Sez. Unite, Sent., 14 dicembre 2016, n. 25625; cfr. anche Cass. civ. Sez. Unite, Sent., 14 aprile 2020, n. 7825).
Alla luce delle osservazioni svolte, tenuto conto dei soli elementi interni al giudicato da ottemperare, emerge che il comando giudiziale posto dal Tribunale di Bari con la sentenza da eseguire, imponeva all’Amministrazione di corrispondere all’odierna ricorrente una somma liquidata “in misura pari a 8.5 mensilità dell’ultima retribuzione di fatto con l’aggiunta di interessi e rivalutazione nei limiti di legge dalla data della presente sentenza e sino all’effettivo soddisfo”.
Ne discende che, in applicazione del comando giudiziale ottemperando, non suscettibile di integrazione nella presente sede, non facendo riferimento il Tribunale all’ultima retribuzione globale di fatto percepita anteriormente alla stabilizzazione o alla data di proposizione del ricorso, ma all’ultima retribuzione di fatto percepita dalla lavoratrice ed erogata dall’Amministrazione soccombente, in assenza di altre precisazioni volte a limitare la portata del precetto posto dal giudice del lavoro, deve aversi riguardo all’ultima retribuzione percepita alla data del comando giudiziale e, quindi, della pubblicazione del titolo esecutivo.
Posto che la ricorrente ha dedotto di essere impiegata alle dipendenze del Ministero al momento della pubblicazione della sentenza ottemperanza, avendo esercitato interrottamente attività lavorativa a partire dall’anno scolastico 2000/2001, dapprima con contratti di lavoro a tempo determinato, successivamente con contratto di lavoro a tempo indeterminato, l’appellante correttamente rileva che la corretta esecuzione del dictum giudiziale di cui alla sentenza n. 5364/17 cit. impone una liquidazione del risarcimento del danno, parametrando le 8,5 mensilità all’ultima retribuzione di fatto percepita alla data della pubblicazione della sentenza ottemperanda (e, dunque, alla data del 20.11.2017).
8. Con il secondo motivo di appello è censurata l’omessa pronuncia inficiante la sentenza gravata, per non avere statuito il primo giudice sulla domanda di condanna al pagamento degli interessi e rivalutazione nei limiti di legge dalla data della sentenza (20.11.2017) e sino al soddisfo, non versati dall’Amministrazione intimata.
Premesso che, in ragione dell’effetto devolutivo dell’atto di appello e della tassatività delle fattispecie di rimessione della causa al primo giudice ex art. 105 c.p.c., il vizio di omessa pronuncia non è idoneo a determinare l’annullamento della sentenza con rinvio al Tar (non configurando una fattispecie di violazione del diritto di difesa della parte), bensì impone di decidere in sede di gravame le censure asseritamente non esaminate in primo grado, anche il secondo motivo di appello merita accoglimento, non emergendo in atti la prova circa l’avvenuto integrale pagamento della somma dovuta a titolo di interessi e rivalutazione monetaria sugli importi liquidabili ai sensi di quanto precisato nella disamina del primo motivo di appello.
Pertanto, l’Amministrazione statale deve essere condannata all’ottemperanza del titolo giudiziale in esame, con il riconoscimento e la corresponsione “di interessi e rivalutazione nei limiti di legge dalla data della presente sentenza e sino all’effettivo soddisfo” sulla somma liquidata in misura pari a 8,5 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto percepita alla data del 20.11.2017 e al lordo delle ritenute fiscali.
Al riguardo, occorre precisare che la stessa sentenza ottemperanda limita il cumulo di interessi e rivalutazione monetaria, richiedendo che siano rispettati i “limiti di legge” (dispositivo) e precisando che “vanno aggiunti gli interessi legali e la rivalutazione monetaria – tra loro non cumulati a norma dell’art. 22, comma 36, della legge n. 724 del 1994 – a decorrere dalla data della presente sentenza sino all’effettivo soddisfo” (pag. 11 motivazione).
Pertanto, nel riconoscimento degli accessori de quibus, il Tribunale di Bari ha inteso applicare l’art. 22, comma 36, L. n. 724/94, in coerenza, peraltro, con la giurisprudenza ordinaria, secondo cui “l’esclusione dal divieto di cumulo non può trovare applicazione per i dipendenti privati di enti pubblici non economici e neppure per i rapporti di lavoro di natura privatistica alle dipendenze di Ministeri. Per tali categorie di rapporti di lavoro ricorrono le “ragioni di contenimento della spesa pubblica”, che sono alla base della disciplina differenziata, secondo la ratio decidendi prospettata dal Giudice delle leggi con la citata sentenza n. 459/2000)” (Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 02 luglio 2020, n. 13624).
9. Con il terzo motivo di appello l’appellante ha insistito nella richiesta di condanna dell’Amministrazione al pagamento della penalità di mora ex art. 114, comma 4, lett. c), c.p.a., già avanzata in prime cure, tenuto conto anche della ritenuta non complessità degli obblighi comportamentali imposti dalla sentenza da eseguire.
La domanda riproposta in appello deve essere rigettata.
Ai sensi dell’art. 114, comma 4, lettera e), c.p.a. il giudice, in caso di accoglimento del ricorso per l’ottemperanza, ” salvo che ciò sia manifestamente iniquo, e se non sussistono altre ragioni ostative, fissa, su richiesta di parte, la somma di denaro dovuta dal resistente per ogni violazione o inosservanza successiva, ovvero per ogni ritardo nell’esecuzione del giudicato “.
Secondo quanto precisato da questo Consiglio, “Tale disposizione non prevede l’obbligo del giudice dell’ottemperanza di accogliere senz’altro la richiesta di parte e di disporre automaticamente una tale misura, nel caso di constatato mancato pagamento: il giudice dell’ottemperanza è “dotato di un ampio potere discrezionale” (Cons. Stato, Ad. Plen., 25 giugno 2014, n. 15), che gli consente di effettuare una valutazione ostativa alla liquidazione, per considerazioni di carattere equitativo che possono anche escludere la meritevolezza della pena in questione” (Consiglio di Stato Sez. IV, 26 novembre 2019, n. 8051).
Avuto riguardo al caso di specie, le circostanze fattuali in esame denotano come “manifestamente iniqua” la fissazione di una penalità di mora, in funzione sollecitatoria dell’attività esecutiva dell’Amministrazione.
Il Ministero dell’Istruzione, infatti, non ha tenuto una condotta inerte, espressiva della volontà di non ottemperare ad un comando giudiziale di immediata intellegibilità ; bensì ha provveduto all’ottemperanza del titolo esecutivo, corrispondendo la gran parte delle somme dovute al lavoratore e rifiutando il pagamento dell’eccedenza richiesta dalla ricorrente alla stregua di un’erronea interpretazione della sentenza da eseguire; un tale errore interpretativo, tuttavia, può ritenersi giustificabile, non risultando particolarmente agevole ricostruire il contenuto precettivo del titolo ottemperando, specie in relazione alla base di calcolo da prendere in esame.
Pertanto, stante la condotta pregressa spontaneamente tenuta dall’Amministrazione, incentrata sull’esecuzione del comando giudiziale, seppure alla stregua di una sua erronea interpretazione, una volta chiarito il contenuto del titolo da ottemperare, non si ravvisano motivi per ipotizzare una resistenza all’adempimento del debitore, da vincere mediante l’applicazione di una penalità di mora (avente tipicamente una funzione dissuasiva di future condotte inottemperanti della parte obbligata); il che permette, non solo di rigettare la domanda di condanna ex art. 114, comma 4, lettera e), c.p.a., ma anche di evitare, allo stato, la nomina del commissario ad acta pure richiesta in sede di appello.
10. Le spese processuali devono essere regolate in applicazione del criterio di soccombenza, tenuto conto dell’esito complessivo della lite, sfavorevole all’Amministrazione, venendo liquidate in favore dell’appellante nella misura indicata in dispositivo per il doppio grado di giudizio.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
Sezione Sesta, definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie ai sensi e nei limiti di cui in motivazione, respingendolo per il resto; per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, accoglie il ricorso di primo grado, condannando le Amministrazioni appellate ad eseguire, entro il termine di trenta giorni dalla notificazione o comunicazione della presente sentenza, la sentenza del Tribunale ordinario di Bari, sez. lavoro, 20 novembre 2017, n. 5364, mediante il riconoscimento e la corresponsione alla Sig.ra Ca. Lo. di una somma pari a 8,5 mensilità dell’ultima retribuzione di fatto percepita alla data del 20 novembre 2017 e al lordo delle ritenute fiscali, con l’aggiunta di interessi e rivalutazione nei limiti di legge dalla data della sentenza ottemperanda e sino all’effettivo soddisfo, detratte le somme già corrisposte.
Condanna le Amministrazioni appellate al pagamento in favore della Sig.ra Ca. Lo. delle spese processuali del doppio grado di giudizio, che si liquidano nella somma complessiva di Euro 3.000,00 (tremila/00), oltre accessori di legge, ove dovuti.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 11 febbraio 2021 con l’intervento dei magistrati:
Giancarlo Montedoro – Presidente
Diego Sabatino – Consigliere
Alessandro Maggio – Consigliere
Dario Simeoli – Consigliere
Francesco De Luca – Consigliere, Estensore

 

 

In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.

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