L’obbligo di diligenza che grava su ciascun componente dell’equipe medica concerne non solo le specifiche mansioni a lui affidate, ma anche il controllo sull’operato e sugli errori altrui

Corte di Cassazione, sezione quarta penale, Sentenza 19 ottobre 2018, n.47801.

La massima estrapolata:

L’obbligo di diligenza che grava su ciascun componente dell’equipe medica concerne non solo le specifiche mansioni a lui affidate, ma anche il controllo sull’operato e sugli errori altrui che siano evidenti e non settoriali, in quanto tali rilevabili con l’ausilio delle comuni conoscenze del professionista medio. Ne consegue che sussiste corresponsabilità del ginecologo (nel trascurare i segnali di sofferenza fetale) e delle ostetriche (nel venir meno al dovere di segnalare il peggioramento del tracciato cardiotocografico), trattandosi di attività rientranti nelle competenze di entrambe le figure professionali operanti in equipe.

SENTENZA 19 ottobre 2018, n.47801

Pres. Fumu

est. Pavich

Ritenuto in fatto

1. La Corte d’appello di Cagliari, in data 10 luglio 2017, ha riformato limitatamente agli effetti penali (dichiarando l’estinzione del reato per prescrizione) e ha confermato agli effetti civili adottando le conseguenti statuizioni in materia di spese, la sentenza di condanna emessa dal Tribunale di Cagliari il 13 novembre 2015 nei confronti di T.F. (nonché di P.C. ) in relazione al reato p. e p. dall’art. 590, cod.pen., commesso in (omissis) .
Al T. , nella sua qualità di medico ginecologo, è contestato di avere cagionato a A.L.P. una lesione (danno ipossico) da cui è derivata una grave e probabilmente insanabile malattia (tetraparesi distonica); la condotta contestata al T. (nonché alla P. , ostetrica), in occasione del parto di Pa.Mo. (madre della persona offesa) è di avere omesso di preparare la sala operatoria e di passare dal parto naturale al taglio cesareo in una situazione di gravidanza a rischio (perché oltre termine e con segnali di sofferenza fetale), così cagionando il verificarsi di un’ipossia/anossia dalla quale derivavano, a carico del piccolo L.P. , le conseguenze di cui si è detto.
Nell’ampio (e qui necessariamente sintetizzato) percorso motivazionale, la Corte distrettuale ha sostanzialmente confermato i fondamenti del percorso argomentativo seguito dal Tribunale, anche attraverso ampi richiami della sentenza di primo grado. In base a tale percorso argomentativo, nel quale si è sottolineata la circostanza che alla Pa. erano state praticate dopo il ricovero due induzioni del travaglio con un dispositivo ossitocico (il Propess), sul piano eziologico oggettivo si è ravvisata nella fattispecie la sussistenza di un’iniziale configurabilità di un danno prolungato a carico delle aree distali periferiche, seguito da un episodio acuto di asfissia, che ha interessato i nuclei della base, con conseguenze dannose per gli stessi. Una volta esclusa la sussistenza di cause alternative di encefalopatia e collocata pertanto l’eziogenesi della stessa all’interno del parto, è stata operata una ricostruzione cronologica degli eventi, nella quale si apprezza una iniziale condizione (dalle 13,46 alle 14,21) in cui il tracciato cardiotocografico, benché apparentemente normale, veniva ritenuto tuttavia non rassicurante (considerando che la gravidanza era fuori termine, ossia a 41 settimane e 3 giorni) per la presenza di alcune ‘decelerazioni ricorrenti e variabili’; dalle 14,21 alle 14,28 vi è un’interruzione del tracciato; successivamente (in particolare dalle 15,22 alle 15,30) si presenta un tracciato che da non rassicurante viene qualificato come ‘francamente anormale, cioè fortemente patologico’, e così fino alla fase conclusiva del tracciato (ore 16,06). Secondo i periti e i consulenti, gli esiti del tracciato inducono a ritenere che, a una prima fase in cui si sarebbe verificato un parziale distacco della placenta, sia seguito il distacco totale della stessa, responsabile delle lesioni alle aree basali dell’encefalo.
Sulla base della presenza di indici di sofferenza fetale, il comportamento alternativo doveroso sarebbe stato, secondo i giudici di merito (e sulla base dei contributi peritali), quello di procedere immediatamente a estrazione del feto mediante taglio cesareo; a fronte di ciò, i due imputati non avevano preso in considerazione i dati dei tracciati e, in luogo di procedere con il taglio cesareo, avevano proceduto con il parto naturale, in occasione del quale il dott. T. (che era di turno dalle 14,00 e che fu chiamato dalla P. alle 16,10) eseguì la manovra di Kristeller.
Osserva la Corte di merito che un intervento tempestivo per l’esecuzione del taglio cesareo (che doveva avvenire almeno un’ora prima, sulla base dei primi segnali di sofferenza fetale rivelati dai tracciati: si è visto che dalle 13,46 alle 14,21 venivano apprezzate alcune decelerazioni ricorrenti e variabili) avrebbe scongiurato il rischio che l’ipossia potesse dar luogo al fenomeno di acidosi metabolica che ha determinato le gravissime lesioni cerebrali a carico del neonato.
Per quanto in particolare concerne la posizione del T. , anche a fronte delle doglianze rassegnate in sede d’appello, la Corte distrettuale ha argomentato che il ginecologo di turno, in siffatta situazione (gravidanza oltre il termine in parto indotto con ossitocici, e segnali di sofferenza fetale manifestatisi fin da quando egli subentrò nel turno di guardia), non poteva affidare alla sola ostetrica P. il monitoraggio del travaglio ed intervenire solo al momento del parto su chiamata della stessa; ma avrebbe dovuto occuparsene in prima persona, per poi procedere tempestivamente al taglio cesareo. In una tale condizione, è stata anche precisata la mancata osservanza dei criteri operativi indicati dai protocolli sanitari per siffatte situazioni e sono state inoltre respinte le doglianze dell’appellante a proposito del riconoscimento del grado della colpa come ‘grave’ in capo al dott. T. .
2. Avverso la prefata sentenza ricorre il T. , con atto affidato a tre motivi di lagnanza.
2.1. Con il primo, ampio motivo il ricorrente denuncia contraddittorietà della sentenza e travisamento della prova: lamenta in primo luogo l’esponente che la valutazione dei fatti ascritti all’imputato sia stata operata ex post, in una situazione nella quale il parto non evidenziava alcun elemento anomalo o di rischio, tanto che anche i periti hanno riconosciuto che il feto si presentava in condizioni cardiocircolatorie di benessere, in una gravidanza decorsa fisiologicamente, durata per 41 settimane e dunque non qualificabile come ‘a rischio’, non trattandosi di ‘gravidanza protratta’, definizione che viene attribuita alla gravidanza che dura oltre 42 settimane: solo in quest’ultimo caso, osserva il ricorrente, viene imposta una particolare attenzione e viene provocato il parto. Viceversa i giudici di merito, disattendendo le opinioni del consulente della difesa, hanno travisato la prova, fondandola su un falso presupposto, ossia che nella specie si trattasse di una ‘gravidanza protratta’: si trattava invece di una gravidanza ‘fuori termine’, laddove solo per le gravidanze protratte le linee guida della Regione Emilia Romagna del 2008 (prese a riferimento anche dai periti e dai consulenti dell’accusa) riferiscono alle sole gravidanze protratte la qualifica di gravidanze a rischio. Conseguentemente vi è stato un travisamento della condotta alternativa lecita e si è manifestata anche contraddittorietà della motivazione in riferimento alla c.d. colpa relazionale: il dott. T. fu chiamato dall’ostetrica solo alle 16,10, per il manifestarsi di una possibile patologia, laddove in condizioni di normalità competono alla sola ostetrica il monitoraggio del travaglio nel caso di parto spontaneo (e tale rimaneva quello in esame, a nulla rilevando che esso fosse stato indotto con ossitocina) e la rilevazione di eventuali situazioni di rischio; fino a quel momento il ginecologo aveva unicamente l’obbligo della reperibilità (cui egli non venne meno), non quello di essere costantemente accanto alla paziente, tanto più che al passaggio di consegne la situazione risultava tranquilla.
2.2. Con il secondo motivo il ricorrente denuncia violazione di legge con riguardo all’efficienza causale dell’omissione attribuita al dott. T. in relazione a un danno cerebrale irreversibile che, per come emerso in dibattimento, può verificarsi in un tempo molto contenuto, anche di soli 15 minuti, e che nessuno dei periti e consulenti ha riferito a un arco temporale più prolungato.
2.3. Con il terzo e ultimo motivo l’esponente lamenta violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla qualificazione della colpa attribuita al T. come ‘grave’, con riferimento a una condotta omissiva (ossia, di fatto, al non avere effettuato un controllo attento e costante dei tracciati e dell’operato dell’ostetrica), senza una puntuale verifica della posizione di garanzia del ricorrente, del comportamento alternativo doveroso e dell’efficacia salvifica di tale comportamento.
3. All’odierna udienza, il difensore delle parti civili A.D. e Pa.Mo. ha rassegnato conclusioni scritte e depositato nota spese.

Considerato in diritto

1. È opportuno premettere che i tre motivi di ricorso articolati nell’interesse del dott. T. risultano sostanzialmente ripropositivi delle doglianze rassegnate con l’atto d’appello e, almeno in parte, protesi a sollecitare un diverso apprezzamento del materiale probatorio: valutazione, questa, che – come noto è di stretta pertinenza dei giudici di merito e non può trovare cittadinanza in sede di scrutinio di legittimità laddove (ed è questo il caso) il percorso argomentativo della sentenza impugnata non sia caratterizzato da evidente ed oggettiva carenza, o da macroscopica illogicità, o da palese contraddittorietà.
2. Procedendo con ordine, il primo motivo di ricorso è infondato.
La questione della qualificabilità della gravidanza come ‘protratta’ anziché come ‘fuori termine’ risulta eccentrica rispetto al tema della valutazione del ‘rischio’ della gravidanza nel caso di specie, così come ricavabile dal percorso motivazionale della sentenza impugnata: il fatto che la gravidanza della Pa. fosse ‘a rischio’ (e come tale meritevole di monitoraggio qualificato rispetto a quello ordinario) derivava, per quanto si legge nella sentenza della Corte cagliaritana, non già dal fatto che il travaglio intervenisse in una gravidanza protratta (per tale dovendosi intendere quella eccedente la 42ma settimana di durata), ma in una condizione di rischio complessiva, risultante da una valutazione di sintesi, in cui comunque la durata della gravidanza (41 settimane e alcuni giorni, ossia oltre il termine, con conseguente rischio di ‘invecchiamento’ della placenta) non era indifferente e si assommava alle due induzioni del travaglio mediante ossitocina e, ancor più, al manifestarsi di segni di sofferenza fetale già presenti al momento in cui il dott. T. assunse servizio quale ginecologo di turno, e che si manifestarono con un ‘crescendo’ puntualmente scandito dalla Corte di merito (anche richiamando l’argomentare del Tribunale) in vari passaggi della sentenza (vds. in particolare pagg. 7-10, pagg. 16-18, pagg. 27-30).
In tale contesto, è corretto il ragionamento della Corte territoriale nel sottolineare che era certamente compito del dott. T. , assumendo alle 14,00 il servizio di turno, quello di sincerarsi della situazione sottostante, prendendo in considerazione i dati rivenienti dal terzo tracciato cardiotocografico (che viene definito dai periti ‘non rassicurante’ perché, a fronte di una normale frequenza cardiaca di base, si riscontrava la presenza di ‘alcune decelerazioni ricorrenti e variabili’) e, in base ad essi, adeguando il monitoraggio alle peculiarità della situazione pregressa (gravidanza fuori termine e due induzioni di Propess): situazione la cui gravità era poi riscontrata dal fatto che, dalle 15,22, si manifestava una marcata riduzione della frequenza cardiaca, con conseguente rilevazione di un tracciato francamente anormale, ossia fortemente patologico (pag. 9 sentenza), da quel momento in poi.
Stante la situazione sopra descritta, ampiamente illustrata nella sentenza impugnata, e a fronte del fatto che il T. assunse servizio di turno fin dalle ore 14,00, è necessario richiamare quanto affermato anche in epoca recente dalla Corte di legittimità a proposito della responsabilità congiunta e concorrente del medico ginecologo e dell’ostetrica al manifestarsi di sofferenza fetale: sulla scorta di un indirizzo ormai consolidato, è stata affermata la corresponsabilità del ginecologo (nel trascurare i segnali di sofferenza fetale) e delle ostetriche (nel venir meno al dovere di segnalare il peggioramento del tracciato cardiotocografico), trattandosi di attività rientranti nelle competenze di entrambe le figure professionali operanti in equipe; e si è ribadito che l’obbligo di diligenza che grava su ciascun componente dell’equipe medica concerne non solo le specifiche mansioni a lui affidate, ma anche il controllo sull’operato e sugli errori altrui che siano evidenti e non settoriali, in quanto tali rilevabili con l’ausilio delle comuni conoscenze del professionista medio (Sez. 4, Sentenza n. 53315 del 18/10/2016, Paita e altri, Rv. 269678). Per cui non ha pregio l’obiezione del ricorrente secondo il quale, in una situazione giudicata non preoccupante e di travaglio di parto spontaneo (benché indotto), il monitoraggio doveva essere gestito in via esclusiva dall’ostetrica e il dott. T. aveva quale unico obbligo quello della reperibilità.
Di contro, il dott. T. , essendo tenuto a sincerarsi delle (non tranquillizzanti) condizioni della partoriente fin dal momento di assunzione del servizio di turno, non si sarebbe dovuto limitare ad assicurare la sua reperibilità, ma avrebbe dovuto vigilare attivamente sull’evolversi della situazione; ciò gli avrebbe consentito di disporre in tempo utile l’allestimento della sala operatoria perché si procedesse a parto cesareo, oltreché di venire tempestivamente a conoscenza dell’evoluzione delle condizioni della partoriente e del nascituro, che alle ore 15,22 divenne francamente allarmante; di contro, non avendo assunto tale doverosa modalità comportamentale (qualificabile come comportamento alternativo diligente), egli venne a conoscenza della situazione solo alle 16,10, allorché fu chiamato dall’ostetrica, quando ormai era troppo tardi.
3. Avuto riguardo a quanto si è finora osservato, è manifestamente infondato, oltreché generico, il secondo motivo di ricorso, relativo all’asserita prova dell’efficacia causale della condotta del ginecologo: a fronte dell’obiezione, già espressa dal ricorrente in appello, circa il fatto che il danno cerebrale può verificarsi in casi simili anche in caso di ipossia della durata di 15 minuti (a fronte del fatto che il dott. T. venne chiamato dall’ostetrica solo alle 16,10), è del tutto pertinente l’osservazione della Corte di merito (pag. 27 della sentenza) secondo la quale è sufficiente osservare che i primi segnali di sofferenza fetale emersero tra le 13,46 e le 14,21, quando il dott. T. , subentrato in turno alle 14,00, aveva già in carico la paziente. Sul punto vale il principio, a più riprese affermato dalla giurisprudenza di legittimità, in base al quale il medico che succede ad un collega nel turno in un reparto ospedaliero assume nei confronti dei pazienti ricoverati la medesima posizione di garanzia di cui quest’ultimo era titolare, circostanza che lo obbliga ad informarsi circa le condizioni di salute dei pazienti medesimi e delle particolari cure di cui necessitano (Sez. 4, n. 44622 del 11/07/2017, Aramu, Rv. 271029).
4. Infine, è infondato anche il terzo motivo di ricorso.
Va premesso che sotto il vigore delle disposizioni di cui alla legge n. 189/2012 (c.d. legge Balduzzi, da applicarsi nel caso di specie in quanto più favorevole della normativa vigente all’epoca del fatto e meno favorevole di quella sopravvenuta) la distinzione tra colpa lieve e colpa grave, agli effetti penali, non assume rilievo (nel senso che la responsabilità penale resta ferma) nel caso in cui non vi sia stata osservanza delle linee guida e delle buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica; e nella specie, alla stregua delle prove assunte e degli apporti valutativi del giudizio di merito (vds. in specie motivazione sentenza impugnata nel richiamare quella di primo grado, pagg. 2122), non può in alcun modo parlarsi di ottemperanza alle linee guida e alle buone prassi da parte del dott. T. . Sì che la questione assume rilevanza unicamente ai fini della determinazione delle conseguenze civilistiche di tipo risarcitorio.
Tanto osservato, è noto che, in tema di responsabilità per attività medico chirurgica, al fine di distinguere la colpa lieve dalla colpa grave, possono essere utilizzati i seguenti parametri valutativi della condotta tenuta dall’agente: a) la misura della divergenza tra la condotta effettivamente tenuta e quella che era da attendersi, b) la misura del rimprovero personale sulla base delle specifiche condizioni dell’agente; c) la motivazione della condotta; d) la consapevolezza o meno di tenere una condotta pericolosa (oltre alla giurisprudenza citata in proposito nella sentenza impugnata si veda in senso conforme Sez. 4, n. 22405 del 08/05/2015 – dep. 27/05/2015, Piccardo, Rv. 263736).
Tali parametri sono stati convenientemente scrutinati in sede di merito e può qui unicamente aggiungersi che il tema dei segnali di sofferenza fetale e delle possibili, gravissime conseguenze di un intervento tardivo è ampiamente noto non solo in letteratura medica, ma anche in giurisprudenza; ne discende che il grado di scostamento della condotta omissiva del dott. T. , valutato congiuntamente alla (necessaria) consapevolezza delle cautele da adottare in una situazione come quella che si stava manifestando (e che doveva essergli nota, quanto meno nelle sue prospettive, fin dal momento dell’assunzione del servizio di turno) impone di escludere che, nella specie, possa parlarsi di colpa non grave.
È infine appena il caso di osservare che tali conclusioni sono rese possibili, diversamente da quanto sostenuto dal ricorrente, anche sulla base della puntuale ricostruzione del comportamento alternativo diligente e della sua portata salvifica: la Corte distrettuale al riguardo richiama e fa proprie (ulteriormente argomentandole nel prosieguo della sentenza) le considerazioni svolte in proposito dal Tribunale cagliaritano, in cui si evidenzia che, qualora fosse stata predisposta tempestivamente a cura del dott. T. la sala parto per il taglio cesareo, fin dall’insorgere dei primi segni di sofferenza fetale (comportamento alternativo doveroso, a più riprese indicato in sentenza), il feto sarebbe stato estratto almeno un’ora prima e ciò, alla luce della tempistica narrata in sentenza, avrebbe scongiurato il rischio che l’ipossia desse luogo al fenomeno di acidosi metabolica alla base delle gravissime lesioni cerebrali riportate dal bambino (vds. pag. 18 sentenza).
In definitiva, alla stregua della ricostruzione della portata salvifica della condotta doverosa omessa dall’odierno ricorrente, della prevedibilità delle gravissime conseguenze che tale omissione avrebbe comportato e infine del prodursi delle stesse, è di tutta evidenza che il grado della colpa, alla stregua degli indicati parametri, è stato correttamente qualificato come ‘grave’.
5. Al rigetto del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché alla rifusione delle spese di costituzione e difesa sostenute dalle parti civili costituite, liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali nonché alla rifusione delle spese di costituzione e difesa sostenute dalle parti civili A.D. e Pa.Mo. che liquida in complessivi Euro 3.000,00 oltre spese generali al 15%, CPA e IVA

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