Le intese orizzontali restrittive della concorrenza

Consiglio di Stato, sezione sesta, Sentenza 19 febbraio 2019, n. 1160.

La massima estrapolata:

Le intese orizzontali restrittive della concorrenza volte a concertare le politiche di prezzo delle imprese coinvolte rivestono sempre carattere di gravità indipendentemente dall’impatto che esse hanno avuto sulla concorrenza.

Sentenza 19 febbraio 2019, n. 1160

Data udienza 7 febbraio 2019

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Sesta
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 9349 del 2018, proposto da
Sa. – Ce. Ce. It. s.r.l. in liquidazione, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Se. Fi., An. Gi. e An. Pa., con domicilio digitale pec come da registri di giustizia e domicilio eletto presso lo studio del primo, in Roma, Piazzale (…);
contro
Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui uffici, in Roma, via (…), è domiciliata ex lege;
nei confronti
Gr. Fr s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, non costituita in giudizio;

sul ricorso numero di registro generale 9350 del 2018, proposto da
Concordato preventivo n. 36/2015 di Sa. – Ce. Ce. It. s.r.l. in liquidazione, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Se. Fi., An. Gi., e An. Pa., con domicilio digitale pec come da registri di giustizia e domicilio eletto presso lo studio del primo, in Roma, Piazzale (…);
contro
Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui uffici, in Roma, via (…), è domiciliata ex lege;
nei confronti
Gr. Fr s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, non costituita in giudizio;
per la riforma
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio – Roma (sezione Prima) n. 08545/2018, resa tra le parti, concernente l’addebito di comportamenti anticoncorrenziali nel settore del cemento.
Visti i ricorsi in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 7 febbraio 2019 il Cons. Alessandro Maggio e uditi per le parti gli avvocati Se. Fi. e An. Gi. e dell’avvocato dello Stato Fe. Va.;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO e DIRITTO

Con delibera 25 luglio 2017 n. 26705 l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (d’ora in poi AGCM) ha stabilito che i comportamenti (protrattisi dal 1/6/2011 al 15/6/2015) posti in essere da un gruppo di imprese operanti nel settore della vendita del cemento, fra le quali la Sa. – Ce. Ce. It. s.r.l. in liquidazione (di seguito solo Sa.), e dalla loro associazione di categoria (AITEC), consistenti “nel coordinamento dei prezzi di vendita del cemento, assistito anche da un controllo sistematico dell’andamento delle quote di mercato relative, realizzato tramite uno scambio di informazioni sensibili”, dessero luogo a “un’intesa restrittiva della concorrenza”, come tale vietata dall’art. 101 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea – TFUE.
Conseguentemente ha ingiunto ai detti soggetti di astenersi “per il futuro dal porre in essere comportamenti analoghi” ed ha applicato loro le sanzioni pecuniarie previste per tali infrazioni, in particolare irrogando alla Sa. la sanzione del pagamento di una somma pari a Euro 702.711/00.
Ritenendo il citato provvedimento sanzionatorio illegittimo la Sa. lo ha impugnato con ricorso al Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio – Roma.
Ana ricorso ha proposto il Concordato preventivo n. 36/2015 di Sa. – Ce. Ce. It. s.r.l. in liquidazione (da qui in poi solo Concordato), a cui il provvedimento sanzionatorio è stato notificato.
L’adito Tribunale, riuniti i ricorsi, li ha respinti con sentenza 30/7/2018, n. 8545.
Avverso la sentenza hanno proposto separati appelli la Sa. (ric. 9349/2018) e il Concordato (ric. 9350/2018).
Per resistere al ricorso si è costituita in giudizio l’AGCM.
Con successive memorie le parti hanno meglio illustrato le rispettive tesi difensive.
Alla pubblica udienza del 7/2/2019 la causa è passata in decisione.
Per evidenti ragioni di connessione i due appelli possono essere riuniti onde definirli con unica sentenza.
Conviene partire dall’esame del primo motivo dell’appello proposto dal Concordato che è l’unico non comune ai due ricorsi.
Con esso si denuncia l’errore commesso dal Tribunale nel respingere la domanda con cui il Concordato aveva chiesto che venisse accertata l’insussistenza di un’obbligazione a proprio carico in ordine al pagamento della sanzione.
Con la contestata pronuncia, infatti, il giudice di prime cure avrebbe indebitamente modificato il destinatario della sanzione, pur riconoscendo che la condotta collusiva era attribuibile unicamente alla Sa..
La sanzione, inoltre, non potrebbe in alcun modo gravare sul Concordato atteso che la stessa è stata irrogata con provvedimento successivo alla proposizione della domanda di concordato e alla sua omologazione.
La doglianza è infondata.
Come correttamente rilevato dal Tribunale “dalla lettura dell’atto impugnato, emerge chiaramente come parte del procedimento sanzionatorio, e dunque soggetto a cui è imputata la condotta collusiva, è la sola società Sa. in liquidazione, ciò che, come rappresentato dal ricorrente, esclude l’imputazione al concordato di profili di responsabilità nella commissione dell’illecito”.
Ed invero, in linea con dell’orientamento espresso dalla suprema Corte di Cassazione, Sez. I, con la sentenza 10/5/2017, n. 11460, secondo cui “In caso di intervenuta ammissione del debitore al concordato preventivo con cessione dei beni, se il creditore agisce proponendo non solo una domanda di accertamento del proprio diritto, ma anche una domanda di condanna o comunque idonea a influire sulle operazioni di liquidazione e di riparto del ricavato, alla legittimazione passiva dell’imprenditore si affianca quella del liquidatore giudiziale dei beni, quale contraddittore necessario”, l’Autorità ha notificato il provvedimento al liquidatore nominato in sede di omologa del concordato e alla società in liquidazione al fine “… di garantire la massima conoscenza della delibera, anche al fine di individuare il soggetto munito dei poteri, quantomeno concorrenti, necessari per effettuare il pagamento della sanzione, atteso che il debito di cui si controverte è venuto ad esistenza nel corso della liquidazione”.
Dalle esposte considerazioni discende che, come correttamente rilevato dal giudice di prime cure, l’impugnato provvedimento sanzionatorio non estende al Concordato la responsabilità per la commissione dell’illecito e non pone a carico di quest’ultimo alcun obbligo in ordine al pagamento della sanzione.
Tanto basta alla reiezione della dedotta censura.
Possono essere ora affrontati i restanti mezzi di gravame comuni ad entrambi gli appelli.
Con una prima doglianza (primo motivo del ric. 9349/2018 e secondo motivo del ric. 9350/2018) le parti appellanti deducono le seguenti censure.
a) Il Tribunale avrebbe errato nel ritenere che nella fattispecie ricorresse un insieme di evidenze probatorie atte a dimostrare l’esistenza di un’intesa collusiva cui avrebbe partecipato anche la Sa., come si ricaverebbe dalle seguenti considerazioni.
1) I documenti e l’e-mail richiamati dal giudice di prime cure non proverrebbero dalla Sa. e non farebbero ad essa riferimento.
Una sola e-mail, rinvenuta presso la sede della detta Società, nel quale tra l’altro si legge “ti relaziono in riferimento agli aumenti del 15 giugno 2015”, potrebbe al più far pensare ad un coinvolgimento di quest’ultima nell’intesa, ma solo a partire dal giugno 2015 e non dal 2011 come ipotizzato dell’AGCM. Altrettanto dicasi con riguardo al documento datato 25/11/2015 reperito presso la sede Sa. in cui si parla “di listini “usciti” e noti, allegati alla mail e listini “usciti” ma non ancora trovati dai clienti”.
2) L’e-mail proveniente da un addetto alla società e non dal suo responsabile non potrebbe costituire prova documentale dei fatti in essa rappresentati.
3) La e-mail in cui si parla degli aumenti del giugno 2015 sarebbe, comunque, priva di valore probatorio, anche solo indiziario, in quanto non specifica quali siano i “concorrenti” a cui fa riferimento.
b) L’esistenza della stabilità delle quote di mercato addotta dall’AGCM quale ulteriore elemento indiziario da cui desumere l’esistenza di un’intesa restrittiva della concorrenza è stata espressamente contestata dalla Sa..
Il Tribunale ha respinto la censura rilevando come “gli scostamenti percentuali (fossero) stati estremamente contenuti”, ma al contrario questi sarebbero stati, invece, molto consistenti.
c) La sentenza sarebbe errata anche nella parte in cui, respingendo la censura con cui la Sa. aveva contestato l’individuazione del mercato rilevante, afferma che “sono le circostanze del caso concreto che hanno condotto AGCM ad individuare la dimensione nazionale del mercato rilevante e la consapevolezza, da parte di ciascuna impresa, di partecipare al un meccanismo di determinazione operante sul detto territorio è sufficiente a far ritenere la partecipazione della stessa a prescindere dall’area geografica di insistenza”.
L’individuazione del marcato dipenderebbe, in quest’ottica, da un elemento meramente soggettivo. Ma tale conclusione per un verso sarebbe poco convincente e per altro verso contrasterebbe con l’operato dell’Autorità che avrebbe, invece, ancorato la determinazione del mercato rilevante a elementi schiettamente oggettivi.
La stessa AGCM, peraltro, riconosce che la Sa. è attiva in tre delle quattro macro aree AITEC, per cui la detta società non potrebbe essere ritenuta responsabile di un’intesa che, nella stessa prospettazione dell’Autorità, avrebbe effetti su tutto il territorio nazionale.
Risulterebbe, inoltre, contraddittoria l’affermazione dell’AGCM in base alla quale la dimensione del mercato interessato sarebbe quella nazionale, benché ciascun’impresa operi in un ambito competitivo di dimensione locale.
Ulteriormente viziato sarebbe il convincimento dell’AGCM secondo cui “nell’ipotesi di intese restrittive della concorrenza la definizione del mercato rilevante è successiva all’individuazione dell’intesa”, atteso che dovrebbe, invece, essere quest’ultima a seguire la determinazione del primo.
L’autorità avrebbe solo affermato ma non dimostrato che l’aumento dei prezzi sarebbe stata coordinato sul piano nazionale.
d) Un ulteriore elemento che secondo l’AGCM indicherebbe l’esistenza di un’intesa collusiva sarebbe costituito dalla raccolta di dati effettuata dall’associazione di categoria in funzione del monitoraggio del rispetto delle quote di mercato.
Tuttavia tale elemento non sarebbe significativo per l’odierna appellante tenuto conto delle elevate oscillazioni che le sue quote di mercato avrebbero subito nel periodo di riferimento.
Oltre a ciò bisognerebbe considerare che:
1) la predisposizione di statistiche aggregate e la loro divulgazione avrebbe costituito sino ad ora attività lecita;
2) l’attività in questione sarebbe stata svolta da soggetto terzo tramite la distribuzione di dati aggregati relativi, tra l’altro, alle consegne e non ai prezzi;
3) l’asserito monitoraggio delle quote di produzione a livello di macro area non sarebbe idoneo ad orientare le imprese, tenuto conto dell’assenza di informazioni sulle oscillazioni delle quote dei concorrenti.
e) dall’istruttoria condotta da AGCM sarebbe emerso che anche altre imprese estranee all’intesa avrebbero praticato nel periodo di riferimento i medesimi rincari di prezzo.
Il riscontrato parallelismo dei comportamenti non sarebbe, quindi, frutto di una concertazione, ma dipenderebbe dall’esigenza dei clienti di conoscere in anticipo gli annunci dell’aumento dei prezzi.
Le caratteristiche del mercato del cemento spiegherebbe quindi la coincidenza cronologica degli annunci degli aumenti di prezzo e del loro quantum.
Le censure così sinteticamente riassunte, che si prestano ad una trattazione congiunta, non meritano accoglimento.
Con recente pronuncia che il Collegio condivide, questa Sezione si è già pronunciata sul procedimento sanzionatorio per cui è causa su ricorso promosso da altre parti della medesima intesa collusiva addebitata alla Sa. (Cons. Stato, Sez. VI, 31/12/2018, n. 7320).
Prima di esaminare partitamente le censure dedotte dagli odierni appellanti giova, pertanto, richiamare le considerazioni di carattere generale esposte nel menzionato precedente.
Gli artt. 101 e 102 del TFUE stabiliscono nell’ordinamento europeo le “regole di concorrenza” fondamentali applicabili alle imprese e in generale proibiscono, quanto all’art. 101 “tutti gli accordi tra imprese, tutte le decisioni di associazioni di imprese e tutte le pratiche concordate che possano pregiudicare il commercio tra Stati membri e che abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare il gioco della concorrenza all’interno del mercato interno”, e quanto all’art. 102, che nella fattispecie però non rileva, “lo sfruttamento abusivo da parte di una o più imprese di una posizione dominante sul mercato”.
Per dare concreta attuazione nel nostro ordinamento a tali norme, è stata emanata la L. 10/10/1990 n. 287, istitutiva dell’AGCM.
Nel caso di specie, si discute di un’asserita intesa lesiva della concorrenza, vietata dalla norma dell’art. 101, comma 1, lettera a), del TFUE, e dal conforme art. 2, comma 2, lettera a), della L. 287/1990, come accordo o per lo meno pratica concordata volta a “fissare direttamente o indirettamente i prezzi d’acquisto o di vendita” di una merce, nel caso che occupa, il cemento.
In proposito, l’Autorità ha esercitato i poteri che le spettano in base agli artt. 12-15 della L. 287/1990, ovvero ha proceduto a istruttoria ai sensi dell’art. 12 per verificare l’esistenza dell’intesa; ai sensi dell’art. 14, comma 2, ha raccolto la documentazione cui ci si riferirà in seguito e all’esito, ritenuto che l’intesa restrittiva effettivamente esistesse, ha irrogato la sanzione e disposto la diffida previste dall’art. 15.
In materia, la giurisprudenza di questa Sezione ha elaborato una serie di principi, cui è pure necessario fare in sintesi riferimento, dato che, anche secondo il senso comune, i comportamenti che, come nella specie, si traducono nella pratica nella fissazione di prezzi uniformi da parte delle imprese attive in un mercato oligopolistico non necessariamente sono il risultato di un’intesa vietata, potendo anche derivare da libere e lecite decisioni adottate dalle imprese stesse in modo autonomo l’una dall’altra.
Ci si riferisce quindi all’elaborazione contenuta nella sentenza della Sezione 22 marzo 2001 n. 1699, che si considera per tutte sia perché particolarmente approfondita, sia perché relativa ad un caso ana al presente, di “parallelismo tariffario” fra imprese di un settore economico, accertato come prodotto da una concertazione fra esse.
Secondo la sentenza in esame il principio in materia di concorrenza espresso dalle norme del Trattato è che ogni operatore economico deve determinare autonomamente la propria condotta sul mercato; ciò non esclude che egli abbia il diritto a reagire in maniera razionale al comportamento, constatato o atteso, dei propri concorrenti; gli proibisce però di instaurare con i concorrenti stessi ogni contatto, diretto o indiretto, volto a influenzare il reciproco comportamento sul mercato o a mettersi reciprocamente al corrente dei comportamenti che si intendono porre in atto.
Se tali contatti fossero ammessi, infatti, si sostituirebbe “all’alea della concorrenza il vantaggio della concertazione” ed il consumatore sarebbe privato sistematicamente dei benefici che gli derivano dalla tendenza fisiologica di ogni impresa concorrente a conquistarsi fette di mercato offrendo condizioni più favorevoli rispetto ad altre imprese.
Ciò posto, sempre seguendo l’esposizione della citata pronuncia n. 1699/2001, l’intesa vietata, anche secondo quanto risulta dalle norme del Trattato e della legge nazionale, può assumere le forme di un vero e proprio esplicito accordo, che potrebbe al limite risultare da un documento, ma anche quelle della “pratica concordata”, ovvero di “una forma di coordinamento fra imprese che, senza essere stata spinta fino all’attuazione di un vero e proprio accordo, sostituisce consapevolmente una pratica collaborazione fra le stesse ai rischi della concorrenza” ed ha l’effetto, in sostanza, di riprodurre “in una sfera collettiva ed apparentemente concorrenziale, i vantaggi propri del comportamento del monopolista”, vantaggi cui corrisponde notoriamente un pregiudizio per il consumatore, il quale si trova in una situazione nella quale, rispetto alla concorrenza, è disponibile sul mercato una minor quantità della merce, che si paga ad un prezzo superiore.
E’ poi il caso di ricordare che le intese di tal tipo sono vietate di per sé, ovvero per il mero fatto di essere state poste in essere: non è necessario per incorrere nel divieto che dall’intesa vietata sia effettivamente derivato un effetto distorsivo. Il problema, come ricorda sempre la sentenza n. 1699/2001, si era posto perché la versione italiana dell’originario art. 81 del Trattato CEE vietava, alla lettera, le intese aventi “per oggetto e per effetto” l’alterazione della concorrenza di cui si è detto: l’uso della congiunzione “e” in luogo della “o” presente invece nei testi nelle altre lingue aveva fatto ritenere ad una parte della dottrina che i due requisiti, dell’intesa e dell’effetto di essa, dovessero essere compresenti. La giurisprudenza della Corte di Giustizia lo aveva invece comunque escluso, con riferimento sia agli accordi, come da sentenza VI sezione 17 luglio 1997 C 219/95 Ferriere Nord § § 18-20, sia alle pratiche concordate, come da sentenza 8 luglio 1999 C 235/92 Montecatini § 43. La questione peraltro attualmente non ha ragione di porsi, perché la disgiuntiva “o” è presente, come si è visto, sia nel testo dell’art. 101 TFUE, sia nel testo della norma nazionale, art. 2, comma 2, della L. 287/1990.
Tanto premesso, come si comprende secondo il senso comune, e come ricorda anche la sentenza n. 1699/2001, le intese in questione, e in particolare le pratiche concordate, pongono problemi di prova: da un lato, è praticamente un caso di scuola quello in cui dell’intesa vietata esistano prove dirette, come un documento che la renda esplicita, ovvero una confessione di chi ne sia parte; dall’altro lato, se si richiedesse comunque una prova di tal tipo, la normativa a difesa della concorrenza resterebbe ineffettiva.
La giurisprudenza considera pertanto, ai fini della prova dell’illecito, necessario e sufficiente che dell’intesa vietata esistano indizi gravi, precisi e concordanti, in armonia del resto con i principi generali in tema di prova contenuti anche nell’art. 2729 c.c.
In particolare, nel caso che interessa, il parallelismo delle condotte tenuto da imprese operanti in un mercato oligopolistico, che potrebbe in sé esser lecito, se non frutto di concertazione, può essere considerato come risultato di un’intesa anticoncorrenziale vietata se di essa emergano indizi gravi, precisi e concordanti, rappresentati da un elemento endogeno, ovvero la non plausibilità della condotta come effetto delle normali dinamiche di mercato, e da un elemento esogeno, ovvero la sussistenza di elementi di riscontro rivelatori della concertazione non consentita, fra i quali in particolare l’accertata sussistenza di una serie di contatti e di scambi di informazioni fra le imprese concorrenti circa le proprie iniziative e strategie di mercato, nonché la condivisione di valutazioni che in un mercato concorrenziale ogni impresa terrebbe per sé .
La giurisprudenza ha parimenti sostenuto – si veda sempre la citata sentenza n. 1699/2001 – che di norma la prova dell’elemento endogeno, ovvero dell’irrazionalità della condotta incombe sull’Autorità ; se però, come nel caso in esame, emergono elementi di riscontro di tipo esogeno l’onere di fornire la prova contraria all’esistenza dell’ipotizzata intesa illecita si sposta in capo all’impresa.
L’affermazione però non va intesa in modo meccanico, ovvero nel senso che fra le modalità di valutazione dei due elementi citati vi sia una rigida distinzione. Secondo logica infatti in primo luogo è molto raro, se non impossibile, che l’elemento endogeno, ovvero come si è detto una condotta che non sarebbe plausibile se non ipotizzando che fra le imprese coinvolte vi sia un’intesa del tipo vietato, non possa ricevere in assoluto alcuna spiegazione alternativa, che al limite lo potrebbe interpretare come casuale. Si osserva poi che, se ciò accadesse realmente, ovvero se l’elemento endogeno fosse del tutto univoco nel senso di rimandare ad un’intesa vietata, di elementi esogeni non vi sarebbe bisogno alcuno. Si deve allora concludere che la valutazione degli elementi endogeno ed esogeno va fatta congiuntamente: in presenza di un elemento endogeno per così dire sospetto, anche se non assolutamente univoco, sarà l’esame degli eventuali elementi esogeni a far propendere per una delle due ipotesi possibili, ovvero a far concludere per la sussistenza o insussistenza di un’intesa vietata.
Alla luce degli esposti principi può procedersi all’esame delle doglianze specificamente dedotte dalle parti appellanti.
Non merita accoglimento la censura con cui si deduce che la Sa. sarebbe rimasta estranea all’intesa collusiva o che il suo coinvolgimento, al più, potrebbe farsi risalire al giugno 2015.
Contrariamente a quanto sostenuto negli appelli oltre alla e-mail del giugno 2015, l’Autorità ha rinvenuto ulteriori documenti provenienti dalla Sa. e aventi ad oggetto la comunicazione del proprio aumento dei prezzi ad altre imprese concorrenti.
Si tratta di una e-mail giunta alla Cementirossi a seguito di una triangolazione passata per la Colacem in occasione dell’aumento previsto per gli inizi del 2012 (si veda § 114 del provvedimento sanzionatorio impugnato) e di diversi documenti reperiti presso la sede della Sa. relativi alla comunicazione a imprese concorrenti degli aumenti di prezzi verificatisi nel corso del 2013 (si veda § 116 del medesimo provvedimento).
La richiamata documentazione smentisce le affermazioni delle parti appellanti e valutata congiuntamente agli altri indizi puntualmente indicati nel provvedimento gravato porta a ritenere sufficientemente comprovato il coinvolgimento della Sa. nell’intesa collusiva sin dal giugno 2011 come ipotizzato dall’Autorità, peraltro non smentita da adeguata prova contraria.
L’idoneità probatoria dei citati documenti non è pregiudicata dal fatto che gli stessi provengano da un addetto alla società e non dal suo responsabile, atteso che al fine di attribuire ad essi valore indiziario è sufficiente che gli stessi, benché non attribuibili ai responsabili della società, siano comunque a quest’ultima riferibili, circostanza questa non contestata.
Peraltro, qualora la prova della concertazione tra imprese non sia basata sulla semplice constatazione di un parallelismo di comportamenti, ma dall’istruttoria sia emerso, come nella specie, che le pratiche possano essere state frutto di una concertazione e di uno scambio di informazioni in concreto tra le imprese, in relazione alle quali vi siano ragionevoli indizi di una pratica concordata anticoncorrenziale, grava sulle indiziate l’onere di fornire una diversa spiegazione lecita delle loro condotte e dei loro contatti (Cons. Stato, Sez. VI, 4/9/2015, n. 4123). Spiegazione che nella fattispecie è mancata.
Del tutto inidoneo a incrinare la valenza indiziaria della e-mail del giugno 2015 è il fatto che nella stessa non venga meglio specificato chi siano i “concorrenti” a cui si fa riferimento.
Ciò che conta è, infatti, che nella medesima si alluda ad una pratica vietata (quale quella di concordare assieme ad altre imprese operanti nel settore e quindi “concorrenti” l’andamento dei prezzi di mercato).
Ugualmente infondato è il motivo con cui si denuncia l’errore commesso dal Tribunale nel respingere la censura con la quale si era stata contestata l’esistenza della riscontrata stabilità delle quote di mercato da cui l’AGCM ha tratto un ulteriore indizio dell’asserita intesa anticoncorrenziale.
Correttamente, infatti, il giudice di prime cure ha rilevato come nel periodo considerato “gli scostamenti percentuali (fossero) stati estremamente contenuti”.
La detta conclusione è avvalorata dalla tabella a pag. 70 (§ 196) del provvedimento impugnato nella quale sono indicate le seguenti variazioni percentuali: 2012-2011, – 0,2; 2013-2012, + 0,1; 2014-2013, – 0,3; 2015-2014, – 0,3; 2016-2015 + 0,1, per una variazione complessiva nel periodo 2016-2011 di – 0,6.
Ulteriormente infondata è la doglianza concernente l’individuazione del mercato rilevante.
Secondo un costantemente orientamento giurisprudenziale siffatta attività è funzionale alla delimitazione dell’ambito nel quale l’intesa elusiva può restringere o falsare il meccanismo concorrenziale, così che la relativa estensione e definizione spetta all’Autorità nella singola fattispecie, all’esito di una valutazione che presenta margini di opinabilità (Cons. Stato, Sez. VI, 13/5/2011, n. 2925) e che non è censurabile nel merito da parte del giudice amministrativo, se non per vizi di illogicità estrinseca (cfr., Cons. Stato, Sez. VI, 2/7/2015, n. 3291 e 26/1/2015, n. 334).
L’ampiezza del mercato rilevante va, quindi, desunta dall’esame della specifica condotta di cui si sospetti la portata anticoncorrenziale (fra le tante, Cons Stato; Sez. VI, 4/11/2014, n. 5423 e 3/6/2014, n. 2837).
Orbene, come correttamente rilevato dal giudice di prime cure, l’AGCM è pervenuta all’individuazione del mercato rilevante sulla base di una valutazione logica e congruente con i comportamenti osservati, sia in punto di definizione merceologica, individuata nella produzione e vendita del cemento, sia in punto di definizione geografica, avendo la medesima Autorità puntualmente tenuto conto del fatto che il mercato in questione aveva una valenza nazionale, atteso che su tutta l’area nazionale ricorreva, ancorché con riferimento alle imprese di volta in volta presenti su una determinata area, il medesimo pattern comportamentale in ordine al parallelismo delle condotte posto in essere dalle imprese coinvolte.
Diversamente da quanto dedotto dagli odierni appellanti il coordinamento, inteso nella sua complessiva portata, non ha dunque interessato singoli mercati geografici locali, ma si è esteso all’intero territorio nazionale ed ha riguardato imprese operanti su di esso o su una sua parte più o meno significativa.
Peraltro l’esatta delimitazione dei confini geografici del mercato rilevante, trova conferma nella circostanza che nell’intesa accertata è risultata coinvolta anche l’associazione di categoria, operante a livello nazionale, presso la quale aveva luogo il coordinamento delle condotte teso a verificare il corretto funzionamento del meccanismo di aumenti concordato.
Alla luce delle esposte considerazioni non è ravvisabile alcuna contraddizione tra l’affermazione della portata nazionale del mercato rilevante e quella della dimensione locale dell’attività svolta dalle singole imprese convolte nell’intesa elusiva.
Non colgono nel segno nemmeno le censure dirette a sminuire il peso assegnato alle elaborazioni statistiche diffuse dall’associazione di categoria al fine di dimostrare l’esistenza della pratica anticoncorrenziale.
Ed invero:
a) la circostanza che la predisposizione di statistiche aggregate costituisca di per sé attività lecita non esclude che la stessa attività, valutata congiuntamente ad altri elementi, possa essere indicativa di una condotta non consentita;
b) è irrilevante che le operazioni materiali di raccolta ed elaborazione dei dati statistici siano state compiute da un soggetto terzo, peraltro su incarico dell’associazione di categoria, in quanto ciò che conta è che sia stata quest’ultima a divulgare gli stessi;
c) come emerge dal provvedimento impugnato le statistiche indicavano le vendite di prodotto in ambito nazionale ed erano idonee a consentire a ciascun impresa associata di riscontrare “in tempo reale l’andamento della propria quota di mercato relativa rispetto agli altri operatori di mercato e definivano quindi un fondamentale strumento di verifica del rispetto della concertazione dei prezzi”. In ogni caso il valore indiziario delle dette elaborazioni statistiche non sta tanto nella loro più o meno elevata utilità, quanto nel fatto che le stesse siano indicative di un coinvolgimento dell’associazione di categoria nel fenomeno collusivo contestato col provvedimento sanzionatorio impugnato.
Priva di rilevanza risulta, infine, la circostanza che anche imprese estranee all’intesa anticoncorrenziale abbiano praticato nel periodo di riferimento analoghi aumenti di prezzi.
Difatti, che alcune imprese abbiano spontaneamente deciso un rincaro dei prezzi sulla base di autonome valutazioni di mercato, non esclude che altre siano pervenute ad analoga decisione in virtù di una preventiva intesa, vietata in quanto contraria alle regole della concorrenza (art. 2 L. 10/10/1990, n. 287).
Con un’ulteriore doglianza (secondo motivo del ric. 9349/2018 e terzo motivo del ric. 9350/2018) le parti appellanti denunciano l’errore commesso dal Tribunale nel negare la riduzione della sanzione applicata dall’AGCM.
L’avversata sanzione risulterebbe infatti eccessiva in quanto:
a) la Sa. sarebbe una società di piccole dimensioni rispetto ai “giganti” del settore;
b) la detta impresa non opererebbe su tutto il mercato nazionale;
c) l’unico documento riferibile alla Sa. risalirebbe al giugno 2015 cosicché, in relazione al periodo precedente, non risulterebbe dimostrato il suo coinvolgimento nell’intesa;
d) le quote di mercato della Sa. avrebbero subito nel periodo considerato profonde oscillazioni.
e) andrebbe esclusa la “particolare gravità ” dell’illecito non essendo oggettivamente configurabile, dato il tipo di condotta addebitato (annuncio dei prezzi), il presupposto della segretezza dell’intesa;
f) la responsabilità avrebbe dovuto essere attenuata in considerazione del fatto che non si sarebbero prodotti effetti pregiudizievoli per il mercato.
L’autorità, inoltre, pur lasciando intendere che la Sa. avrebbe meritato l’irrogazione di una sanzione simbolica non avrebbe provveduto di conseguenza, motivando anzi l’entità della sanzione applicata con riguardo a presupposti insussistenti; ovvero che la società avrebbe continuato a svolgere le proprie attività imprenditoriali generando fatturato nel periodo 2014-2016 e che l’illecito contestato sarebbe “molto grave”.
Tuttavia:
a) il riferimento al fatturato del 2016 sarebbe inconferente in quanto tale anno non rientra nel periodo 2011- 2015 nel quale secondo l’Autorità avrebbe operato l’intesa cui avrebbe partecipato la Sa.;
b) ugualmente erroneo sarebbe il riferimento al fatturato del 2014 poiché, come già rilevato, la partecipazione della società all’intesa non potrebbe farsi risalire a epoca precedente al giugno 2015;
La doglianza è infondata sotto tutti gli aspetti in cui si articola.
Dispone l’art. 15, comma 1, della citata L. n. 287/1990 che l’AGCM “…Nei casi di infrazioni gravi, tenuto conto della gravità e della durata dell’infrazione, dispone inoltre l’applicazione di una sanzione amministrativa pecuniaria fino al dieci per cento del fatturato realizzato in ciascuna impresa o ente nell’ultimo esercizio chiuso anteriormente alla notificazione della diffida, determinando i termini entro i quali l’impresa deve procedere al pagamento della sanzione”.
La norma attribuisce, quindi, all’Autorità il potere discrezionale di stabilire, attraverso una motivata valutazione, se l’infrazione accertata debba essere considerata “grave”.
Nel caso di specie, come correttamente rilevato dal giudice di prime cure, il provvedimento sanzionatorio risulta adeguatamente motivato in punto di gravità dell’intesa, avendo in proposito l’Autorità evidenziato, alla luce delle argomentazioni e delle risultanze istruttorie emerse, come quella posta in essere costituisca “un’intesa unica, complessa e continuata volta al coordinamento dei prezzi di vendita del cemento idonea ad influenzare le strategie aziendali delle imprese cementiere e tale da ridurre significativamente gli incentivi a competere nel mercato interno”.
In ordine alla gravità dell’infrazione il Tribunale ha, inoltre, condivisibilmente rilevato come, l’Autorità abbia ulteriormente posto in luce che:
a) “l’intesa ha avuto attuazione, atteso che, come dimostrato da risultanze istruttorie illustrate in precedente parte del provvedimento, le imprese sono riuscite a conservare un andamento crescente dei ricavi medi effettivi in un periodo di crisi del settore”;
b) “la fattispecie collusiva abbia visto coinvolte un numero di imprese tali da rappresentare un’amplissima fetta degli operatori nazionali nel settore di riferimento”.
Deducono le parti appellanti che la gravità dell’intesa sarebbe, nella specie, esclusa dall’assenza del presupposto della segretezza dell’intesa e dal fatto che questa non avrebbe prodotto effetti pregiudizievoli per il mercato.
I rilievi non possono, però, essere condivisi atteso che:
a) la segretezza va ovviamente valutata in relazione alle modalità attraverso cui è stata attuata l’intesa (ovvero scambi di messaggi di posta elettronica tra le parti non conoscibili all’esterno) e non con riguardo agli effetti di essa (annuncio coordinato di aumento dei prezzi);
b) l’intesa, come emerge dal provvedimento impugnato, ha prodotto effetti nel mercato, espressamente individuati nei ricavi medi delle imprese che nel periodo di riferimento hanno avuto un andamento crescente pur in presenza di una significativa contrazione dei consumi di cemento (§ 332 del provvedimento impugnato).
In termini più generali va, comunque, osservato che, per un consolidato orientamento giurisprudenziale, le intese orizzontali restrittive della concorrenza volte a concertare le politiche di prezzo delle imprese coinvolte rivestono sempre carattere di gravità indipendentemente dall’impatto che esse hanno avuto sulla concorrenza (Corte Giust. U.E. 19/12/2013 in C-239/11 e 20/1/2016 in C-373/14; Cons. Stato, Sez. VI, 23/6/2014, n. 3168 e 30/6/2016, n. 2947 e giurisprudenza ivi citata).
Non meritano accoglimento nemmeno le censure con cui si deduce che la sanzione irrogata risulterebbe eccessiva in quanto:
a) si sarebbero dovute considerare le dimensioni asseritamente ridotte della Sa.;
b) quest’ultima opererebbe in un marcato più limitato di quello nazionale.
c) il suo coinvolgimento nell’intesa risalirebbe solo al giugno 2015;
d) nel lasso di tempo considerato le sue quote di mercato avrebbero subito profonde oscillazioni.
Ed invero:
a) le dimensioni della società sono state tenute presenti in sede di quantificazione della sanzione, tenuto conto che questa è stata determinata facendo riferimento al suo fatturato;
b) l’ambito geografico di operatività di quest’ultima è irrilevante in quanto ciò che conta è che l’intesa, come più sopra puntualizzato, ha prodotto i propri effetti negativi su tutto il mercato nazionale;
c) dalle considerazioni più sopra svolte è emerso che non è vero che la Sa. abbia preso parte all’intesa solo dal giugno 2015 e che le sue quote di mercato abbiano subito nel periodo di riferimento profonde oscillazioni.
Non coglie nel segno la lagnanza con cui le parti appellanti deducono che l’Autorità, pur lasciando intendere che la Sa. avrebbe meritato una sanzione simbolica, non si sarebbe comportata di conseguenza. Difatti l’AGCM ha chiaramente escluso che “…ricorrano nel caso di specie i presupposti per poter applicare alla società Sa. una sanzione simbolica…” (si veda § 361 del provvedimento sanzionatorio).
Ciononostante, in considerazione della crisi del settore e del fatto che la società era stata posta in liquidazione, l’importo della sanzione è stato determinato applicando un’elevata riduzione dell’ottanta per cento.
Prive di pregio risultano infine le critiche mosse dalle parti appellanti al riferimento contenuto nel provvedimento sanzionatorio al fatturato generato dalla società nel periodo 2014-2016.
Per un verso, come emerge chiaramente dal provvedimento in parola, ai fini di quantificare la sanzione l’Autorità ha considerato solo il periodo 2011 – 2015, per altro verso correttamente è stato considerato il fatturato maturato nell’esercizio 2014, tenuto conto che, come già più sopra chiarito, la partecipazione della Sa. all’intesa collusiva deve farsi risalire a epoca precedente a tale annualità .
L’appello va in definitiva respinto.
Restano assorbiti tutti gli argomenti di doglianza, motivi od eccezioni non espressamente esaminati che il Collegio ha ritenuto non rilevanti ai fini della decisione e comunque inidonei a supportare una conclusione di tipo diverso.
Spese e onorari di giudizio, liquidati come in dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
Sezione Sesta, definitivamente pronunciando sugli appelli, come in epigrafe proposti, li riunisce e li respinge.
Condanna le parti appellanti al pagamento delle spese processuali in favore dell’appellata, ponendole a carico delle stesse nella misura forfettaria di
Euro 4.000/00 (quattromila) per ciascuna, oltre accessori di legge.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 7 febbraio 2019 con l’intervento dei magistrati:
Sergio De Felice – Presidente FF
Silvestro Maria Russo – Consigliere
Alessandro Maggio – Consigliere, Estensore
Francesco Mele – Consigliere
Oreste Mario Caputo – Consigliere

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