L’astensione del Consigliere comunale dalle deliberazioni assunte dall’organo collegiale

Consiglio di Stato, Sezione seconda, Sentenza 10 settembre 2020, n. 5423.

La massima estrapolata:

L’astensione del Consigliere comunale dalle deliberazioni assunte dall’organo collegiale deve trovare applicazione in tutti i casi in cui, per ragioni di ordine obiettivo, egli non si trovi in posizioni di assoluta serenità rispetto alle decisioni da adottare di natura discrezionale, con la precisazione che il concetto di “interesse” del consigliere alla deliberazione comprende ogni situazione di conflitto o di contrasto di situazioni personali, comportante una tensione della volontà, verso una qualsiasi utilità che si possa ricavare dal contribuire all’adozione di una delibera. Come emerge dal tenore letterale dell’art. 78, comma 2, del d.lgs. n. 267 del 2000 e dalla sua ratio, la regola generale è che l’amministratore debba astenersi al minimo sentore di conflitto di interessi, reale o potenziale che sia; la deroga divisata per gli atti generali e normativi, oltre a non essere assoluta (perché qualora si profili il concreto interesse personale si ripristina l’obbligo di astensione), è da considerarsi tassativa ed incapace quindi, di incidere sul perimetro della fattispecie ampliandolo internamente.

Sentenza 10 settembre 2020, n. 5423

Data udienza 30 giugno 2020

Tag – parola chiave: Beni pubblici – Usi civici – Consiglio comunale – Deliberazioni – Astensione del consigliere comunale – Casistica – Ragioni – Art. 78, comma 2, del d.lgs. n. 267 del 2000 – Applicazione

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Seconda
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 2401 del 2012, proposto dal
Comune di (omissis), in persona del -OMISSIS- pro tempore, rappresentato e difeso dall’avvocato Ro. Co., con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, viale (…);
con l’appello incidentale della
società -OMISSIS-., rappresentata e difesa dagli avvocati Ma. Co. e Lu. Pa., con domicilio eletto presso l’avv. Ma. Co. in Roma, piazza (…);
contro
Signori -OMISSIS-rappresentati e difesi dagli avvocati Sa. Pa., Fa. Pa., con domicilio eletto presso l’avv. An. Ba. in Roma, via (…);
per la riforma
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per l’Abruzzo Sezione Prima n. -OMISSIS-, resa tra le parti, concernente concessione di terreno gravato da uso civico per la realizzazione di un locale da adibire a sala macchine per innevamento
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio dei signori -OMISSIS-e della società -OMISSIS-.;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica telematica del giorno 30 giugno 2020, tenuta ai sensi dell’art. 84 commi 5 e 6 del d.l. 17 marzo 2020 n. 18, conv. dalla legge 24 aprile 2020, n. 27, il Cons. Cecilia Altavista;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO

La società -OMISSIS-., concessionaria di aree di uso civico del Comune di (omissis) per impianti relativi alla stazione sciistica in forza di contratto di concessione del 2 dicembre 2004, richiedeva il mutamento di destinazione d’uso e la concessione di un ulteriore terreno gravato da uso civico pari a 1162 metri quadri per la realizzazione della sala macchine per l’impianto di innevamento e altri locali in località -OMISSIS-.
Con la deliberazione del Consiglio comunale n. -OMISSIS-il canone di concessione veniva fissato in euro 6,55 euro per metro quadro per tutti i locali.
La proposta della detta deliberazione prevedeva il prezzo in euro 6.55 per i locali al piano terra e 0,16 per i locali al piano interrato.
Con nota prot. n. -OMISSIS-il Comune inviava alla Regione Abruzzo tale delibera per la autorizzazione relativa agli usi civici; con determinazione n. -OMISSIS-/Usi civici del 6 luglio 2009 è stata rilasciata l’autorizzazione alla concessione degli usi civici, fissando il prezzo minimo di euro 0,16 al metro quadro.
Con provvedimento del 15 dicembre 2009 il Comune rilasciava il permesso di costruire n. -OMISSIS-per la realizzazione dell’immobile.
La società -OMISSIS-con istanze del 31 luglio 2008, dell’11 maggio 2009 e del 6 maggio 2010 chiedeva al Comune la modifica del canone fissato nella delibera del 23 luglio 2008, in quanto la concessione del 2004 indicava il canone di euro 6.10 (da rivalutarsi secondo l’indice ISTAT) per i soli locali commerciali, mentre la nuova concessione riguardava anche locali tecnici per cui si doveva indicare il canone di 0,16 euro a metro quadro, indicato in base alla detta concessione del 2004 per piste, impianti di sciovie e locali accessori.
Il Consiglio comunale con la delibera n. -OMISSIS-approvava il mutamento di destinazione d’uso e la concessione del terreno di uso civico fissando il canone di euro 0,16 per metro quadro per i locali al piano terra e il prezzo di euro 6.50 al metro quadro per i locali al primo piano.
Veniva quindi stipulato il relativo contratto di concessione in data 15 giugno 2010.
Avverso la delibera del 3 giugno 2010 è stato proposto da un gruppo di consiglieri comunali anche quali utenti di usi civici del Comune di Rocca ricorso al Tribunale amministrativo regionale dell’Abruzzo sede dell’Aquila per i seguenti motivi:
1) eccesso di potere per sviamento; violazione di legge sulla normativa nazionale e regionale sugli usi civici (L. 1766/1927 e R.D. 332/1928; LL.RR. 25/1988, 3/1998, 6/1999); illegittimità, illogicità manifesta, assenza o difetto di motivazione, sostenendo che la delibera impugnata non avrebbe bilanciato adeguatamente gli interessi coinvolti, dando prevalenza esclusiva all’interesse della società concessionaria; il canone individuato non risponderebbe all’effettivo valore dei beni e non corrisponderebbe ad alcuna stima effettiva; inoltre stante il contrasto di interessi tra l’Ente e gli interessi dei cittadini-utenti di uso civico, avrebbe dovuto pronunciarsi anche la speciale rappresentanza dei comunisti a termini dell’art. 75, comma 2, del R.D. n. 332/1928; non è stata adottata alcuna motivazione a sostegno dell’effettuata riduzione, anche tenuto conto dei valori concessori adottati da stazioni sciistiche del medesimo bacino;
2) violazione di legge (art. 78 D.Lgs. n. 267/2000), sviamento, violazione dell’obbligo di astensione, insufficiente, perplessa o carente motivazione, in quanto la delibera consiliare è stata approvata da soggetti che non avrebbero dovuto prendere parte alla decisione perché interessati alla questione e dunque obbligati ad astenersi a termini dell’art. 78 D.lgs. n. 267/2000; in particolare il -OMISSIS-, in quanto dipendente della società beneficiaria della riduzione dei canoni di occupazione e titolare di un contratto di locazione con la stessa società e alcuni consiglieri comunali, uno conduttore di altro locale di proprietà della -OMISSIS-e un altro dipendente della stessa società ;
3) violazione di legge (art. 6 della L.R. n. 25/1988 e s.m.i.), illogicità manifesta in relazione al potere di vigilanza della Regione sui beni di uso civico gestiti dal Comune.
Con successivo atto di motivi aggiunti depositato il 31 dicembre 2010 sono stati impugnati il contratto stipulato nel 2010 chiedendone la dichiarazione di inefficacia a seguito dell’annullamento della delibera di concessione e il permesso di costruire rilasciato il 15 dicembre 2009.
Con la sentenza n. -OMISSIS-il Tribunale amministrativo ha accolto il motivo di ricorso relativo alla incompatibilità del -OMISSIS- e di alcuni consiglieri rispetto alla società -OMISSIS-; ha assorbito le ulteriori censure rinviando ad una nuova determinazione dell’Amministrazione comunale da effettuarsi in assenza dei profili di incompatibilità ; ha dichiarato il difetto di giurisdizione sulla domanda di inefficacia del contratto, ritenendo la ipotesi prevista dagli articoli 121 e 122 c.p.a. una ipotesi tassativa relativa alle procedure di affidamento non applicabile per analogia; ha accolto i motivi aggiunti avverso il permesso di costruire del 15 dicembre 2009, in quanto la società alla data di rilascio del permesso di costruire non aveva ancora la disponibilità dell’area intervenuta solo il 15 giugno 2010 con la stipula del contratto.
Avverso tale sentenza ha proposto il presente appello il Comune di (omissis), formulando i seguenti motivi:
– error in iudicando sulle eccezioni preliminari sollevate in primo grado, quali il difetto di legittimazione e ad agire e di interesse dei ricorrenti per la mancata impugnazione della delibera regionale del 6 luglio 2009 di autorizzazione alla concessione degli usi civici, nonché la tardività della impugnazione del permesso di costruire, trattandosi di opere già realizzate ad ottobre 2010 e la carenza di interesse alla impugnazione del titolo edilizio non avendo dedotto alcun interesse di natura edilizia, ma avendo il Tribunale sostanzialmente ammesso una azione di carattere popolare da parte dei cittadini del Comune;
-error in iudicando sull’esatta applicazione dell’art. 78 comma 2 del d.lgs. 267 del 2000 relativo al dovere di astensione degli amministratori comunali, avendo il giudice di primo grado reso una interpretazione estensiva della disposizione che prevederebbe l’obbligo di astensione solo “per interessi propri o di parenti e di affini entro il quarto grado”, inoltre senza effettuare alcuna specifica valutazione della effettiva sussistenza di un interesse personale immediato e diretto rispetto alla delibera impugnata; nonché in assenza di prova concreta dei rapporti intercorrenti tra il -OMISSIS- e i consiglieri comunali e la società -OMISSIS-; è stata poi contestata la sussistenza di un conflitto di interessi in quanto sia i rapporti di lavoro che il contratto di locazione escluderebbero qualsiasi coinvolgimento nella gestione della società nonché nella partecipazione agli utili della stessa; è stata altresì contestata l’applicazione analogica dell’art. 51 c.p.c., disposizione riguardante solo il giudice e non applicabile agli amministratori pubblici, per cui sarebbero applicabili solo le disposizioni del T.U.E.L.;
– error in iudicando per carenza di motivazione, omessa ed errata valutazione delle difese di parte resistente, contraddittorietà nella parte in cui avrebbe imposto al Comune una nuova valutazione delle condizioni economiche della concessione, pur avendo dato atto dell’assorbimento delle relative censure;
– error in iudicando sulla circostanza che il permesso di costruire potesse essere rilasciato solo a seguito della stipula dell’atto di concessione il 15 giugno 2010, non essendo richiesta dal D.P.R. 380 del 2001 la titolarità del terreno ma solo la sua disponibilità comunque conseguita in forza della delibera regionale di autorizzazione.
Ha proposto appello incidentale la società -OMISSIS-con i seguenti motivi:
-errata e /o falsa motivazione, travisamento dei presupposti giuridici e di fatto; assenza di discrezionalità nella delibera n. 11 del 3 giugno 2010, con cui si sostiene che la delibera impugnata in primo grado non aveva alcun contenuto discrezionale, facendo solo applicazione dei canoni indicati nel contratto di concessione del 2 dicembre 2004;
-violazione e/o falsa applicazione dell’art. 78 del d.lgs. n. 267 del 2000, errata ed illogica motivazione, con cui si deduce la mancata valutazione dello specifico interesse del -OMISSIS- e dei consiglieri comunali e comunque l’irrilevanza della loro partecipazione alla delibera in relazione alla prova di resistenza;
– errata e /o falsa motivazione in relazione al permesso di costruire del 15 dicembre 2009, avendo la società la legittimazione a ottenere il permesso di costruire già dalla delibera comunale del 2008 e comunque dalla delibera regionale del 6 luglio 2009.
Nel frattempo, il Comune ha rinnovato il procedimento relativo al permesso di costruire annullato dal Tribunale amministrativo, rilasciando il 30 novembre 2011 il titolo edilizio n. -OMISSIS-, sulla base del mancato annullamento del contratto da parte della sentenza n. 432 del 2011; tale provvedimento è stato impugnato in primo grado davanti al Tribunale amministrativo regionale per l’Abruzzo sede dell’Aquila da alcuni degli odierni appellati (signori -OMISSIS-) con ricorso n. -OMISSIS-, successivamente dichiarato improcedibile per sopravvenuto difetto di interesse, sulla base della istanza in tal senso presentata dalla parte ricorrente, con sentenza n. 635 del 5 dicembre 2019.
Si sono costituiti in giudizio gli appellati con atto di stile il 18 luglio 2012; nella memoria depositata in giudizio il 19 febbraio 2020 in vista dell’udienza pubblica hanno contestato la fondatezza degli appelli e riproposto i motivi di ricorso assorbiti nella sentenza di primo grado; hanno depositato altresì la sentenza del Commissario agli usi civici dell’Aquila n. 22 del 29 novembre 2019 che ha reintegrato agli usi civici del Comune di (omissis) i terreni oggetto della delibera annullata dal Tribunale amministrativo regionale con la sentenza n. 432 del 2011, dando atto della inefficacia del contratto stipulato il 15 giugno 2010.
Hanno presentato memorie anche il Comune di (omissis) e la società -OMISSIS-insistendo per l’accoglimento dei rispettivi appelli; la difesa del Comune ha depositato altresì la sentenza del Tribunale Penale dell’Aquila n. 528 del 20 ottobre 2015, che ha assolto il -OMISSIS- e i consiglieri comunali in relazione alla violazione dell’obbligo di astensione; hanno presentato memorie di replica la società -OMISSIS-eccependo l’inammissibilità della riproposizione delle censure assorbite nella memoria per l’udienza pubblica e l’improcedibilità della impugnazione avverso il permesso di costruire del 2009 sostituito dal permesso di costruire rilasciato il 30 novembre 2011; anche la parte appellata ha presentato memoria di replica, insistendo nelle proprie argomentazioni difensive; la difesa del Comune e la difesa della parte appellata hanno presentato infine note difensive per l’udienza pubblica.
All’udienza pubblica del 30 giugno 2020, tenuta in modalità telematiche, ai sensi dell’art. 84 commi 5 e 6 del d.l. 17 marzo 2020 n. 18, conv. dalla legge 24 aprile 2020, n. 27, la causa è stata trattenuta in decisione.

DIRITTO

In via preliminare ritiene il Collegio di dare atto della improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse delle questioni relative al permesso di costruire rilasciato il 30 novembre 2011.
Tale titolo edilizio, infatti, a prescindere dal riferimento in esso contenuto alla “rinnovazione” del precedente permesso di costruire annullato in primo grado, ha comunque sostituito il permesso di costruire del 15 dicembre 2009, né possono rilevare in questa sede eventuali profili di illegittimità di tale procedimento di rinnovo. Infatti, la dichiarazione di improcedibilità del ricorso proposto avverso il titolo n. -OMISSIS- del 30 novembre 2011, con la sentenza del Tribunale amministrativo regionale dell’Abruzzo sede dell’Aquila, ha reso tale titolo inoppugnabile.
Quanto alla sentenza del Commissario per il riordino degli usi civici che ha disposto la reintegrazione delle terre civiche del Comune di (omissis), questa nulla ha affermato, né avrebbe potuto, circa il permesso di costruire rilasciato il 30 novembre 2011.
Ne deriva, sul piano processuale, la sopravvenuta carenza di interesse ai motivi aggiunti proposti in primo grado avverso il permesso di costruire nonché la carenza di interesse all’appello relativamente ai motivi rivolti avverso l’annullamento del permesso di costruire.
In via preliminare, altresì, devono essere dichiarate inammissibili le censure del ricorso di primo grado assorbite dalla sentenza, essendo state riproposte dalla parte appellata solo con la memoria per l’udienza pubblica depositata in giudizio il 19 febbraio 2020.
Ai sensi dell’art 101 comma 2 c.p.a., le domande e le eccezioni assorbite o non esaminate nella sentenza di primo grado devono essere riproposte “per le parti diverse dall’appellante con memoria depositata a pena di decadenza entro il termine per la costituzione in giudizio”, ovvero in base alla previsione dell’art. 46 c.p.a. “nel termine di sessanta giorni dal perfezionamento nei propri confronti della notificazione del ricorso”.
Nel caso di specie la notificazione degli appelli è avvenuta nel marzo del 2012, con evidente tardività della riproposizione delle censure contenuta solo nella memoria depositata il 19 febbraio 2020.
Venendo ai motivi di appello proposti avverso il capo di sentenza relativo all’accoglimento del ricorso di primo grado, deve essere esaminata in primo luogo la questione relativa alla inammissibilità del ricorso di primo grado per la mancata impugnazione della delibera regionale del 6 luglio 2009 che ha autorizzato la modifica di destinazione d’uso e la concessione dei terreni di uso civico.
Sostiene la difesa del Comune l’inammissibilità del gravame per carenza di interesse in quanto il potere di disporre degli usi civici apparterebbe alla Regione che lo aveva esercitata con la delibera di autorizzazione del 6 luglio 2009 mai impugnata; pertanto l’eventuale annullamento della delibera comunale del 3 giugno 2010 non avrebbe apportato alcuna utilità ai ricorrenti restando ferma l’autorizzazione regionale.
Il Collegio condivide solo in parte tale ricostruzione.
In base all’art. 6 della legge regionale Abruzzo, che disciplina i mutamenti di destinazione e l’autorizzazione all’alienazione di terre civiche, ai sensi dell’art. 12 della L. 16 Giugno 1927, n. 1766 e dell’art. 41 del relativo regolamento, il potere di disporre tali modifiche spetta alla Regione, che, previa istruttoria, “provvede sulle istanze con deliberazione espressamente motivata”, mentre la deliberazione del consiglio comunale “esprime il suo definitivo avviso sulle istanze presentate”.
E’ quindi evidente che la determina regionale sia l’elemento fondamentale della fattispecie della modifica della natura di uso civico.
Peraltro, nel caso di specie, il potere esercitato dalla Regione Abruzzo regionale non è stato oggetto di alcuna contestazione da parte dei ricorrenti, i quali hanno indirizzato il gravame solo avverso la parte della delibera comunale del 3 giugno 2010 relativa alla fissazione del canone.
Tale delibera comunale costituisce, quindi, l’unico atto impugnato.
Infatti, la determina regionale del 6 luglio 2009, infatti, aveva fissato il canone minimo da richiedere ai richiedenti, lasciando al Comune il potere di determinare il canone effettivo entro tale limite minimo.
Poiché il gravame proposto dai ricorrenti in primo grado non contestava il mutamento di destinazione delle terre civiche in sé – nel qual caso sarebbe stata necessaria altresì la impugnazione della delibera regionale- ma solo la fissazione del canone della concessione pari al minimo indicato dalla Regione per i locali al piano terra, l’oggetto del giudizio è esclusivamente costituito dalla delibera del consiglio comunale e dalla scelta del consiglio di mantenere per tutti i locali posti al piano terra il prezzo minimo di 0,16 euro al metro quadro.
Ne deriva, dunque, la irrilevanza della impugnazione della delibera regionale e della partecipazione al giudizio della Regione stessa non essendo stati impugnati né contestati atti da questa adottati, neppure quali atti presupposti del concreto esercizio del potere comunale.
Il primo motivo di appello è pertanto infondato.
Con il secondo motivo di appello si contesta l’erronea applicazione dell’art. 78 del d.lgs. 267 del 2000 e l’errata applicazione dell’art. 51 c.p.c.
Sostengono, infatti, l’appellante Comune e, altresì, la società -OMISSIS-, nel proprio atto di appello, che agli amministratori comunali dovrebbe essere applicata solo la disciplina dell’art. 78 del Testo Unico Enti Locali e quindi il giudice di primo grado avrebbe errato nel trarre un principio generale contenente un obbligo di astensione dall’art. 51 del codice di procedura civile riferibile solo al giudice.
Il Collegio non condivide tali argomentazioni.
Ai sensi dell’art. 78 del d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267, Testo Unico Enti Locali, “il comportamento degli amministratori, nell’esercizio delle proprie funzioni, deve essere improntato all’imparzialità e al principio di buona amministrazione, nel pieno rispetto della distinzione tra le funzioni, competenze e responsabilità degli amministratori di cui all’art. 77, comma 2, e quelle proprie dei dirigenti delle rispettive amministrazioni.
2. Gli amministratori di cui all’art. 77, comma 2, (ovvero sindaci, anche metropolitani, presidenti delle province, consiglieri dei comuni anche metropolitani e delle province, componenti delle giunte comunali, metropolitane e provinciali, presidenti dei consigli comunali, metropolitani e provinciali, presidenti, consiglieri e assessori delle comunità montane, componenti degli organi delle unioni di comuni e dei consorzi fra enti locali, nonché componenti degli organi di decentramento) devono astenersi dal prendere parte alla discussione ed alla votazione di delibere riguardanti interessi propri o di loro parenti o affini sino al quarto grado. L’obbligo di astensione non si applica ai provvedimenti normativi o di carattere generale, quali i piani urbanistici, se non nei casi in cui sussista una correlazione immediata e diretta fra il contenuto della deliberazione e specifici interessi dell’amministratore o di parenti o affini fino al quarto grado.
3. I componenti la giunta comunale competenti in materia di urbanistica, di edilizia e di lavori pubblici devono astenersi dall’esercitare attività professionale in materia di edilizia privata e pubblica nel territorio da essi amministrato.
4. Nel caso di piani urbanistici, ove la correlazione immediata e diretta di cui al comma 2 sia stata accertata con sentenza passata in giudicato, le parti di strumento urbanistico che costituivano oggetto della correlazione sono annullate e sostituite mediante nuova variante urbanistica parziale. Nelle more dell’accertamento di tale stato di correlazione immediata e diretta tra il contenuto della deliberazione e specifici interessi dell’amministratore o di parenti o affini è sospesa la validità delle relative disposizioni del piano urbanistico.
5. Al sindaco ed al presidente della provincia, nonché agli assessori ed ai consiglieri comunali e provinciali è vietato ricoprire incarichi e assumere consulenze presso enti ed istituzioni dipendenti o comunque sottoposti al controllo ed alla vigilanza dei relativi comuni e province”.
In base al dato testuale delle disposizioni dell’art. 78 TUEL la interpretazione sostenuta dagli appellanti non può essere condivisa, in quanto il primo comma dell’art. 78 si riferisce ad un principio generale di imparzialità da cui deriva l’obbligo di astensione, che deve pertanto ritenersi di carattere generale. Ciò è confermato dal secondo comma dell’art. 78 che impone l’astensione non solo dalla votazione ma anche dalla “discussione” di delibere riguardanti interessi propri o di loro parenti o affini sino al quarto grado.
Tale obbligo di astensione di carattere generale prescinde quindi da ogni valutazione sia dell’effettivo contributo causale alla delibera concretamente adottata nonché del concreto rapporto con l’interesse in questione.
Solo infatti per le delibere di carattere normativo o generale deve essere considerata la sussistenza di un interesse “immediato e diretto”, trattandosi appunto di atti a contenuto generale, mentre in delibere che abbiano ad oggetto situazioni concrete, come nel caso di specie, la disposizione di legge prescinde dalla valutazione di un carattere immediato e diretto dell’interesse.
Tale è anche l’interpretazione seguita dalla giurisprudenza di questo Consiglio, per cui “l’astensione del Consigliere comunale dalle deliberazioni assunte dall’organo collegiale deve trovare applicazione in tutti i casi in cui, per ragioni di ordine obiettivo, egli non si trovi in posizioni di assoluta serenità rispetto alle decisioni da adottare di natura discrezionale, con la precisazione che il concetto di “interesse” del consigliere alla deliberazione comprende ogni situazione di conflitto o di contrasto di situazioni personali, comportante una tensione della volontà, verso una qualsiasi utilità che si possa ricavare dal contribuire all’adozione di una delibera. Come emerge dal tenore letterale dell’art. 78, comma 2, del d.lgs. n. 267 del 2000 e dalla sua ratio, la regola generale è che l’amministratore debba astenersi al minimo sentore di conflitto di interessi, reale o potenziale che sia; la deroga divisata per gli atti generali e normativi, oltre a non essere assoluta (perché qualora si profili il concreto interesse personale si ripristina l’obbligo di astensione), è da considerarsi tassativa ed incapace quindi, di incidere sul perimetro della fattispecie ampliandolo internamente (Cons. Stato Sez. IV, 28 gennaio 2011 n..693; Consiglio Stato, sez. V, 13 giugno 2008, n. 2970).
L’obbligo di allontanamento dalla seduta, in quanto dettato al fine di garantire la trasparenza e l’imparzialità dell’azione amministrativa, sorge per il solo fatto che l’amministratore rivesta una posizione suscettibile di determinare, anche in astratto, un conflitto di interesse, a nulla rilevando che lo specifico fine privato sia stato o meno realizzato e che si sia prodotto o meno un concreto pregiudizio per la p.a. Il conflitto d’interessi, nei suoi termini essenziali valevoli per ciascun ramo del diritto, si individua nel contrasto tra due interessi facenti capo alla stessa persona, uno dei quali di tipo “istituzionale” ed un altro di tipo personale. Non rileva quindi che il consiglio abbia proceduto in modo imparziale ovvero senza condizionamenti, essendo l’obbligo di astensione per incompatibilità, espressione del principio generale di imparzialità e di trasparenza (art. 97 Cost.), al quale ogni Pubblica amministrazione deve conformare la propria immagine, prima ancora che la propria azione. Viene nella sostanza recepito nella norma in esame quel comune sentire che nei riguardi di coloro che amministrano la cosa pubblica si traduce nel detto secondo il quale essi non soltanto debbono essere ma anche apparire non in conflitto con l’oggetto della questione che sono chiamati a deliberare (Cons. Stato Sez. IV, 25 settembre 2014, n. 4806, per cui, inoltre, solo relativamente agli atti a carattere generale l’amministratore pubblici deve astenersi dal prendere parte alla discussione ed alla votazione nei soli casi in cui sussista una correlazione immediata e diretta fra il contenuto della deliberazione e specifici interessi dell’amministratore o di parenti o affini fino al quarto grado).
Di recente, inoltre, la Sezione, con un orientamento dal quale non si ritiene di potersi discostare, si è espressa nel senso che proprio l’obbligo di astensione, tipizzato dall’art. 51 c.p.c., rappresenta un corollario del principio di imparzialità, sancito dall’art. 97 Cost., di cui, assume portata generale, sicché le ipotesi di astensione obbligatoria non sono tassative, e come tali da interpretarsi restrittivamente, ma piuttosto esemplificative di circostanze che mutuano l’attitudine a generare il dovere di astensione direttamente dal superiore principio di imparzialità, che ha carattere immediatamente e direttamente precettivo. L’obbligo di astensione rinviene la sua ragione giustificativa nel pieno rispetto del principio costituzionale del buon andamento ed imparzialità dell’azione amministrativa sancito dall’art. 97 della Costituzione, posto a tutela del prestigio della pubblica amministrazione e che non tollera alcun tipo di compressione (Consiglio di Stato, Sez. II, 21 ottobre 2019 n. 7113; id. Sez. II, 9 marzo 2020, n. 1654).
Tale interpretazione dell’obbligo di astensione come principio di carattere generale comporta l’infondatezza dei motivi d’appello, in quanto sia il -OMISSIS- che i consiglieri non avrebbero dovuto partecipare neppure alla discussione sulla delibera, con conseguente irrilevanza altresì della prova di resistenza.
Neppure può rilevare la circostanza che avessero un rapporto di lavoro od un contratto di locazione con la società beneficiaria, rilevando in base alla disciplina normativa e alla sua interpretazione giurisprudenziale anche un conflitto di interessi meramente potenziale ed essendo comunque legittimo, in base alla giurisprudenza sopra richiamata e integralmente condivisa dal Collegio, il richiamo alla espressa previsione dell’art. 51 c.p.c. che individua tra i presupposto per l’astensione i rapporti di credito e debito con le parti.
La difesa della società -OMISSIS-ha poi proposto un motivo d’appello con cui si sostiene la natura vincolata della delibera adottata il 3 giugno 2010 con riferimento alla individuazione del prezzo di 0,16 euro al metro quadro per i locali tecnici, in quanto questo sarebbe derivato direttamente dalle indicazioni contenute nel contratto di concessione già stipulato il 2 dicembre 2004.
Ritiene il Collegio che tale argomentazione non possa essere accolta in relazione alla concrete circostanze di fatto relative alla adozione della delibera impugnata in primo grado.
Infatti – a prescindere dalla interpretazione sul piano contrattuale dell’atto di concessione del 2 dicembre 2004 e se questo vincolasse effettivamente alla fissazione del medesimo prezzo anche per la concessione di ulteriori terreni a seguito del mutamento della destinazione ad uso civico- si deve considerare che la Regione aveva nella delibera del 6 luglio 2009 indicato espressamente la somma di 0,16 al metro quadro come prezzo minimo; che il Consiglio comunale nella precedente delibera del 23 luglio 2008 aveva indicato un prezzo maggiore per tutti i locali (6,55 al metro quadro); che la società aveva presentato varie istanze rappresentando la propria interpretazione della concessione del 2004 e la natura “tecnica” dei locali da realizzare richiedendo la modifica delle condizioni contrattuali.
Vi erano dunque vari elementi che il consiglio comunale avrebbe dovuto, comunque, valutare ai fini della fissazione del prezzo finale, su cui la posizione del -OMISSIS- e dei consiglieri comunali legati da rapporti contrattuali con la società -OMISSIS-poteva configurare un conflitto di interessi anche solo potenziale, senza considerare che la discussione che ha preceduto la votazione della delibera in senso al consiglio comunale ha avuto ad oggetto proprio la congruità del prezzo della concessione rispetto alla modifica a 0,16 euro a metro quadro per tutti i locali posti al piano terra.
Non può quindi ritenersi che l’attività del consiglio comunale fosse vincolata all’applicazione di una tariffa predeterminata con esclusione di qualsiasi profilo di carattere valutativo.
La difesa del Comune ha, altresì, contestato la sentenza appellata nella parte in cui pur assorbendo le ulteriori censure, ha affermato un obbligo di rivalutazione delle condizioni economiche della concessione.
Ritiene il Collegio la carenza di interesse a tale censura come autonomo motivo di appello, in quanto la sentenza impugnata, nella parte in cui ha fatto riferimento alla “piena rivalutazione ex novo delle condizioni economiche della concessione” e “all’ulteriore valutazione tecnico- patrimoniale, ove ritenuta necessaria”, ha solo dato atto della necessità – a seguito dell’annullamento dell’atto in parte qua- della rideterminazione ad opera del consiglio comunale – con il rispetto degli obblighi di astensione- in ordine all’aspetto della delibera contestata ovvero relativamente alla determinazione del prezzo entro il minimo fissato dalla Regione, facendo salva la discrezionalità del Comune in sede di riesercizio del potere, senza alcuna ulteriore autonoma statuizione sul punto che possa essere in contrasto con il non esame delle censure assorbite.
In conclusione gli appelli avverso il capo di sentenza relativo all’annullamento della delibera del 3 giugno 2010 sono infondati e devono essere respinti.
Devono essere dichiarati improcedibili per carenza di interesse i motivi di appello avverso il capo di sentenza relativo all’annullamento del permesso di costruire rilasciato il 15 dicembre 2009, essendo sopravvenuta la carenza di interesse alla impugnazione del detto permesso di costruire a seguito del permesso di costruire del 30 novembre 2011 e della sua inoppugnabilità con la sentenza del Tribunale amministrativo regionale n. -OMISSIS-.
In considerazione della peculiarità delle questioni le spese del presente grado di giudizio possono essere compensate.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
Sezione Seconda, definitivamente pronunciando sugli appelli, come in epigrafe proposti, li respinge in parte nei sensi di cui in motivazione.
Spese del presente grado compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Ritenuta la sussistenza dei presupposti di cui all’articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, e del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all’oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare le parti.
Così deciso dalla Seconda Sezione del Consiglio di Stato con sede in Roma nella camera di consiglio del giorno 30 giugno 2020 convocata con modalità da remoto e con la contemporanea e continuativa presenza dei magistrati:
Fabio Taormina – Presidente
Oreste Mario Caputo – Consigliere
Giovanni Sabbato – Consigliere
Giuseppe Rotondo – Consigliere
Cecilia Altavista – Consigliere, Estensore

 

 

In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.

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