Consiglio di Stato, sezione VI, sentenza 13 maggio 2016, n. 1952.

La sentenza con cui il giudice ha dichiarato il diritto del lavoratore o dell’assicurato a ottenere spettanze retributive o pensionistiche ed ha condannato il datore di lavoro o l’ente previdenziale al pagamento dei relativi arretrati “nei modi e nella misura di legge” oppure “con la decorrenza di legge”, senza precisare in termini monetari l’ammontare del credito complessivo già scaduto o quello dei singoli ratei già maturati, deve essere definita generica e non costituisce valido titolo esecutivo (per difetto del requisito di liquidità del diritto portato dal titolo esecutivo ex art. 474 c.p.c.), qualora la misura della prestazione spettante all’interessato non sia suscettibile di quantificazione mediante semplici operazioni aritmetiche, eseguibili sulla base di elementi di fatto contenuti nella medesima sentenza, e debba essere effettuata per mezzo di ulteriori accertamenti giudiziali, previa acquisizione dei dati istruttori all’uopo necessari, non potendo il creditore, in tal caso, agire in executivisma dovendo richiedere la liquidazione in un distinto giudizio dinanzi al giudice munito di giurisdizione.

consiglio di stato bis

Consiglio di Stato

sezione VI
sentenza 13 maggio 2016, n. 1952

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale

Sezione Sesta

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 9432 del 2015, proposto da:

Amendola Angela, ed altri, rappresentati e difesi dall’avv. Nu. Pi., con domicilio eletto in Roma, Via (…);

contro

Ministero dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca, in persona del Ministro p.t., rappresentato e difeso per legge dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliata in Roma, Via dei Portoghesi, n. 12;

Università degli Studi di Roma La Sapienza, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentato e difeso dall’avv. Lu. Na., con domicilio eletto in Roma, Via (…);

per la riforma:

della sentenza del T.A.R. per il Lazio, Sede di Roma, Sezione III Bis, n. 8825 del 2 luglio 2015, resa tra le parti, concernente l’esecuzione della sentenza n. 1628 del 28 febbraio 2014 della Corte di Appello di Roma, Sezione lavoro.

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio del Ministero dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca e della Università degli Studi di Roma La Sapienza;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nella camera di consiglio del giorno 10 marzo 2016 il Cons. Dante D’Alessio e uditi per le parti gli avvocati Sc., per delega di Pi., Na. e l’avvocato dello Stato Pa.;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO e DIRITTO

1.- Gli appellanti medici hanno chiesto al T.A.R. per il Lazio l’esecuzione del giudicato formatosi sulla sentenza della Corte di Appello di Roma – Sezione lavoro, n. 1628 del 28 febbraio 2014, con la quale è stato dichiarato il loro diritto alla rideterminazione triennale delle borse di studio percepite successivamente al 22 settembre 2004, parametrata all’incremento del trattamento economico previsto dal C.C.N.L. dei medici del S.S.N., con la condanna dell’Università degli Studi di Roma La Sapienza al pagamento delle relative somme e con la condanna del Ministero dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca (M.I.U.R.) al risarcimento dei danni da liquidarsi nella misura della differenza, per ciascuno degli anni accademici sino al 2006/2007, tra il trattamento percepito, incrementato della rideterminazione triennale, e quello dovuto in base ai D.P.C.M. 7 marzo, 6 luglio e 2 novembre 2007, oltre agli interessi legali dal 23 febbraio 2009 al saldo.

2.- Il T.A.R. per il Lazio, Sede di Roma, Sezione III Bis, con sentenza n. 8825 del 2 luglio 2015, ha dichiarato il ricorso inammissibile.

Dopo aver evidenziato che la predetta sentenza della Corte di Appello di Roma è stata impugnata con ricorso in Cassazione da parte dell’Università degli Studi di Roma La Sapienza (il 19 maggio 2014) mentre è passata in giudicato nei confronti del M.I.U.R., il T.A.R. ha, infatti, ritenuto che «la condanna nei confronti del M.I.U.R. è stata testualmente disposta… ai fini del risarcimento dei danni da liquidarsi nella misura della differenza di quanto dovuto da parte dell’Università degli Studi di Roma La Sapienza e quello dovuto in base ai D.P.C.M. indicati e che, peraltro, il calcolo delle predette ultime somme non è da effettuarsi in applicazione di precisi criteri ed elementi indicati in sentenza, tanto è vero che i predetti criteri sono stati elaborati da parte dei ricorrenti, ne consegue che il mancato passaggio in giudicato della richiamata sentenza nella parte indicata preclude l’azionabilità in questa sede del giudizio di ottemperanza ai sensi dell’articolo 112 c.p.a., con la sua conseguente inammissibilità».

3.- Gli appellanti hanno impugnato la citata sentenza del T.A.R. per il Lazio ritenendola erronea sotto diversi profili.

3.1.- Dopo aver evidenziato che i due capi della sentenza della Corte d’Appello di Roma sono «del tutto scollegati e distinti, sia sotto il profilo formale che sostanziale», gli appellanti hanno sostenuto che il parametro differenziale sussiste, nella predetta sentenza, non in relazione a quanto dovuto dall’Università degli Studi di Roma La Sapienza ma tra il trattamento da loro percepito, incrementato della rideterminazione triennale, e quello dovuto in base ai D.P.C.M. 7 marzo, 6 luglio e 2 novembre 2007. Con la conseguenza che il M.I.U.R. deve ritenersi obbligato a conformarsi al giudicato che non può ritenersi sospeso in attesa che altri capi della sentenza, che non riguardano il Ministero, passino in giudicato.

Gli appellanti hanno quindi formalmente rinunciato alla esecuzione del capo della sentenza della Corte d’Appello di Roma emessa nei confronti dell’Università degli Studi di Roma La Sapienza e riguardante il riconoscimento e la rideterminazione triennale del loro trattamento economico.

3.2.- Gli appellanti hanno poi sostenuto l’erroneità della impugnata sentenza del T.A.R. per il Lazio anche per aver affermato che «il calcolo delle predette ultime somme non è da effettuarsi in applicazione di precisi criteri ed elementi indicati in sentenza», in quanto i conteggi delle somme dovute, effettuati dal consulente tecnico di parte, si basano sull’applicazione di precisi criteri dettati dalla sentenza della Corte d’Appello che rinvia e si fonda su precisi criteri di legge. Con la conseguenza che l’Amministrazione (o un commissario ad acta) sono in grado di effettuare la liquidazione, che deriva dall’applicazione di parametri di legge e regole tecnico/aritmetiche, senza spazio alcuno per apprezzamenti discrezionali.

3.3.- Gli appellanti hanno quindi chiesto la nomina, ove occorra, di un CTU che liquidi le somme da corrispondere a ciascun medico in funzione differenziale tra quanto percepito, incrementato della rideterminazione triennale, e quanto dovuto in base ai D.P.C.M. 7 marzo, 6 luglio e 2 novembre 2007, ed hanno indicato le modalità secondo le quali deve essere calcolato l’adeguamento triennale, con l’indicazione dei relativi importi in una apposita tabella.

3.4.- In conclusione gli appellanti hanno chiesto l’annullamento della sentenza impugnata e l’emissione dei provvedimenti idonei ad assicurare l’esecuzione della sentenza della Corte d’Appello di Roma, anche con l’ammissione di una CTU per la determinazione delle somme da corrispondere a ciascun medico.

4.- All’appello si oppongono il M.I.U.R. e l’Università degli Studi di Roma La Sapienza che ne hanno chiesto, con articolate memorie, il rigetto.

5.- L’appello non può essere accolto.

Sebbene dal punto di vista formale, come è pacifico anche fra le parti, la decisione della Corte d’Appello di Roma preveda due distinte condanne, la prima a carico dell’Università degli Studi di Roma La Sapienza e la seconda a carico del M.I.U.R., giustamente il T.A.R. per il Lazio ha ritenuto che la condanna posta a carico del M.I.U.R., che risulta passata in giudicato, non può essere eseguita dal giudice amministrativo a causa della funzionale dipendenza di tale parte della decisione dall’esecuzione della condanna posta a carico dell’Università degli Studi di Roma La Sapienza che è stata impugnata in Cassazione e non è passata in giudicato.

5.1.- La condanna posta a carico del M.I.U.R., a titolo di risarcimento del danno, è stata, infatti, determinata, nella sua misura, nella differenza fra quanto deve essere corrisposto dall’Università degli Studi di Roma La Sapienza (che dovrebbe procedere alla rideterminazione triennale delle borse di studio percepite successivamente al 22 settembre 2004, parametrata all’incremento del trattamento economico previsto dal C.C.N.L. dei medici del S.S.N) e quanto dovuto in base ai D.P.C.M. 7 marzo, 6 luglio e 2 novembre 2007.

Ma non vi è certezza, fino al passaggio in giudicato della parte della decisione riguardante l’Università degli Studi di Roma La Sapienza, né sull’obbligo, posto a carico dell’Università, di liquidare gli importi corrispondenti alla rideterminazione triennale delle borse di studio percepite, né sui criteri per la determinazione del loro ammontare che, come risulta dagli atti (ed emerge anche dall’appello proposto davanti al Consiglio di Stato), non sono affatto pacifici fra le parti.

5.2.- La sentenza di cui si chiede l’esecuzione non contiene peraltro elementi così precisi da consentire comunque l’esecuzione della condanna nei confronti del M.I.U.R.

6.- In proposito si deve ricordare che l’ottemperanza davanti al giudice amministrativo di sentenze definitive del giudice civile, secondo quanto previsto dall’art. 112, comma 2 lett. c), del c.p.a., può essere richiesta «al fine di ottenere l’adempimento dell’obbligo della pubblica amministrazione di conformarsi, per quanto riguarda il caso deciso, al giudicato», e, quindi, per dare esecuzione a specifiche statuizioni rimaste non eseguite e non anche per introdurre nuove questioni di cognizione che sono riservate alla giurisdizione del giudice ordinario.

In particolare, con riferimento alla richiesta di pagamento di somme di denaro, per giurisprudenza consolidata, il creditore può certamente agire davanti al giudice amministrativo per l’ottemperanza di una sentenza di condanna, non generica, del giudice civile passata in giudicato. Mentre la sentenza di condanna che non contiene l’esatta determinazione della somma dovuta, costituisce titolo esecutivo solo a condizione che dal complesso delle informazioni rinvenibili nel dispositivo e nella motivazione possa procedersi alla quantificazione con un’operazione meramente matematica.

In assenza di tali requisiti, la domanda di esecuzione davanti al giudice amministrativo di una condanna generica, relativa cioè al pagamento di una somma non determinata nel suo ammontare e non determinabile in modo pacifico, risulta inammissibile, trattandosi di sentenza che non costituisce valido titolo esecutivo. Deve, infatti, ritenersi precluso al giudice amministrativo, investito dell’ottemperanza, effettuare nuove valutazioni in fatto e in diritto su questioni che non sono state specificamente dedotte o trattate nel giudizio definito con la sentenza del giudice civile da ottemperare, la cui cognizione, nel caso di perdurante contrasto fra le parti, spetta al giudice ordinario.

6.1.- Anche questa Sezione ha affermato che, secondo il consolidato orientamento della Corte di Cassazione in materia, la sentenza, con la quale il giudice abbia dichiarato il diritto del lavoratore o dell’assicurato a ottenere spettanze retributive o pensionistiche e abbia condannato il datore di lavoro o l’ente previdenziale al pagamento dei relativi arretrati “nei modi e nella misura di legge” oppure “con la decorrenza di legge”, senza precisare in termini monetari l’ammontare del credito complessivo già scaduto o quello dei singoli ratei già maturati, deve essere definita generica e non costituisce valido titolo esecutivo (per difetto del requisito di liquidità del diritto portato dal titolo esecutivo ex art. 474 c.p.c.), qualora la misura della prestazione spettante all’interessato non sia suscettibile di quantificazione mediante semplici operazioni aritmetiche, eseguibili sulla base di elementi di fatto contenuti nella medesima sentenza, e debba essere effettuata per mezzo di ulteriori accertamenti giudiziali, previa acquisizione dei dati istruttori all’uopo necessari, non potendo il creditore, in tal caso, agire in executivisma dovendo richiedere la liquidazione in un distinto giudizio dinanzi al giudice munito di giurisdizione (Consiglio di Stato, Sez. VI, 21 dicembre 2011 n. 6773).

7.- Ciò si è verificato nel presente giudizio, nel quale è stata chiesta l’esecuzione di una sentenza che non solo in parte non è passata in giudicato ma che ha un contenuto (almeno in parte) generico perché occorre procedere ad ulteriori valutazioni, in fatto e in diritto, che non sono pacifiche fra le parti, sulla esatta determinazione di quanto spettante agli interessati.

Peraltro le singole posizioni degli appellanti, come emerge dagli atti di giudizio, sono anche diverse fra loro quanto alla decorrenza delle differenze retributive e quanto (ovviamente) alla misura delle stesse.

7.1.- Non si può quindi ritenere che la quantificazione di quanto dovuto agli appellanti dal M.I.U.R. possa essere oggetto di semplici operazioni aritmetiche sulla base degli elementi di diritto e di fatto contenuti nella sentenza della quale si è chiesta l’esecuzione essendo invece necessari ulteriori accertamenti, a causa della genericità della condanna e dell’evidente mancato accordo fra le parti, sulla quantificazione di quanto dovuto dall’Università ed anche dal M.I.U.R.

8.- La sentenza della Corte d’Appello di Roma non risulta pertanto eseguibile nemmeno nei confronti del M.I.U.R., in assenza di elementi necessari per la esatta determinazione della somma dovuta.

8.1.- E l’ammontare della somma (ancora eventualmente) dovuta dall’Università (che costituisce uno degli elementi necessari per la quantificazione anche della somma dovuta dal M.I.U.R.), non può essere determinata in questo giudizio (nemmeno con una CTU) essendo oggetto di un giudizio ancora pendente davanti al giudice civile.

8.2.- In conseguenza, per la stretta correlazione funzionale che vi è fra i due capi della sentenza della Corte d’Appello di Roma e per l’incertezza nella determinazione delle somme comunque dovute anche dal M.I.U.R., anche la parte della sentenza passata in giudicato nei confronti del M.I.U.R. non può essere eseguita.

8.3- Resta fermo che gli interessati possono rivolgersi al competente giudice civile per poter ottenere la concreta liquidazione delle somme a loro spettanti.

9.- In conclusione, per tutti gli esposti motivi, l’appello deve essere respinto.

Si ritiene di poter comunque disporre la compensazione integrale fra le parti delle spese e competenze del grado di appello.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge.

Dispone la compensazione fra le parti delle spese e competenze del grado di appello.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nelle camere di consiglio del 10 marzo e del 20 aprile 2016 con l’intervento dei magistrati:

Sergio Santoro – Presidente

Bernhard Lageder – Consigliere

Dante D’Alessio – Consigliere, Estensore

Andrea Pannone – Consigliere

Vincenzo Lopilato – Consigliere

Depositata in Segreteria il 13 maggio 2016.

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