La rinuncia al compenso da parte dell’amministratore

Corte di Cassazione, sezione prima civile, Ordinanza 13 febbraio 2020, n. 3657.

La massima estrapolata:

La rinuncia al compenso da parte dell’amministratore può trovare espressione in un comportamento concludente del titolare che riveli in modo univoco una sua volontà dismissiva del relativo diritto; a tal fine è pertanto necessario che l’atto abdicativo si desuma non dalla semplice mancata richiesta dell’emolumento, quali che ne siano le motivazioni, ma da circostanze esteriori che conferiscano un preciso significato negoziale al contegno tenuto.

Ordinanza 13 febbraio 2020, n. 3657

Data udienza 8 novembre 2019

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAMPANILE Pietro – Presidente

Dott. SCOTTI Umberto Luigi Cesare – Consigliere

Dott. MARULLI Marco – Consigliere

Dott. LAMORGESE Antonio Pietro – Consigliere

Dott. FALABELLA Massimo – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA
sul ricorso 8009/2016 proposto da:
(OMISSIS), domiciliata in Roma, Piazza Cavour, presso la Cancelleria Civile della Corte di Cassazione, rappresentata e difesa dall’avvocato (OMISSIS), giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
(OMISSIS), elettivamente domiciliato in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato (OMISSIS), giusta procura a margine del controricorso;
– controricorrente –
e contro
(OMISSIS) S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato (OMISSIS), giusta procura a margine del controricorso e ricorso incidentale;
– controricorrente e ricorrente incidentale –
avverso la sentenza n. 547/2015 della CORTE D’APPELLO di PERUGIA, depositata il 30/09/2015;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 08/11/2019 dal cons. Dott. FALABELLA MASSIMO.

FATTI DI CAUSA

1. – Il Tribunale di Terni, pronunciando nel giudizio instaurato da (OMISSIS) s.r.l. nei confronti di (OMISSIS), al quale era stato riunito altro giudizio proposto da (OMISSIS), socio della societa’, contro la convenuta del primo procedimento, rigettava sia le domande principali, volte ad ottenere la condanna della convenuta stessa, socio e consigliere di amministrazione della societa’, al risarcimento dei danni per lo svolgimento di attivita’ in concorrenza con quella della nominata (OMISSIS), sia la domanda riconvenzionale di (OMISSIS) diretta al pagamento dei compensi che le sarebbero spettati quale amministratrice della societa’ dal 1998 al 2007.
2. – La Corte di appello di Perugia, decidendo sui gravami proposti contro la sentenza di primo grado, rigettava sia l’appello principale che quello incidentale. Escludeva il compimento di attivita’ concorrenziale da parte di (OMISSIS), rilevando che la medesima aveva avviato una diversa attivita’ di impresa nel febbraio 2008, in data successiva alle proprie dimissioni dalla societa’ attrice; osservava, poi, che la mancata richiesta del compenso da parte della stessa (OMISSIS) avesse il significato di una rinuncia, ovvero di un’accettazione della proposta di gratuita’ dell’attivita’ di amministratore implicita nella mancata previsione della relativa posta nei bilanci di esercizio, rilevando come l’errore da ella prospettato – il fatto, cioe’, che la mancata richiesta del compenso, da parte sua, trovasse giustificazione nel fallace convincimento circa la gratuita’ dell’attivita’ svolta dagli altri amministratori – avrebbe dovuto tradursi nella impugnativa dell’atto di rinuncia a norma degli articoli 1427 c.c. e ss.; con riguardo alle domande risarcitorie proposte dalla medesima (OMISSIS), la Corte di merito, dopo aver evidenziato che l’appellante non ne aveva lamentato l’omessa pronuncia da parte del Tribunale, rilevava che esse erano comunque da rigettare per assenza di prova.
3. – La sentenza della Corte di appello di Perugia, pubblicata il 30 settembre 2015, e’ impugnata per cassazione da (OMISSIS) con due motivi. Resistono con controricorso (OMISSIS) e (OMISSIS) s.r.l.: quest’ultima ha proposto ricorso incidentale fondato su di un unico motivo. Le due controricorrenti hanno depositato memoria.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Il primo motivo di ricorso principale lamenta la violazione e falsa applicazione dell’articolo 112 c.p.c., articoli 1709, 2364, 2366, 2369 e 2389 c.c., nonche’ il vizio di motivazione su punti decisivi della controversia e l’omesso esame circa fatti decisivi per il giudizio. Secondo la ricorrente principale, la Corte di appello aveva mancato di considerare che la gratuita’ della prestazione dell’amministratore, se non prevista nello statuto, deve emergere da una delibera assembleare, o del consiglio di amministrazione, con espressa accettazione dell’amministratore: delibera che nella fattispecie era in fatto inesistente. Osserva l’istante che non aveva mai rinunciato i compensi, ne’ accettato che la prestazione ad essa richiesta fosse gratuita; rileva che i bilanci di esercizio non contenevano alcuna posta relativa ai compensi degli amministratori e che il non aver preteso il relativo compenso non poteva equivalere a un atto di rinuncia; nel corpo del motivo viene poi richiamato il principio per cui la rinuncia al compenso, ove sia tacita, deve essere inequivoca; lamenta inoltre l’istante che il giudice distrettuale abbia attribuito rilievo alla mancata proposizione della domanda di annullamento per errore dell’atto di rinuncia, dando cosi’ per accertato cio’ che accertato non era: e cioe’ l’esistenza di tale atto; deduce, infine che, contrariamente a quanto ritenuto nella sentenza impugnata, la richiesta del compenso avanzata con la propria domanda riconvenzionale, qualificata come revoca della rinuncia, spiegava effetto non solo per il futuro, ma anche per il passato.
L’eccezione di inammissibilita’ del motivo proposta dai controricorrenti non coglie nel segno con riferimento al profilo inerente alla contestata insussistenza dell’atto di rinuncia: evenienza, questa, che e’ posta alla base della decisione della Corte di appello.
Con riguardo a tale parte della decisione il motivo proposto e’ fondato.
Le Sezioni Unite hanno oramai chiarito che l’amministratore unico o il consigliere di amministrazione di una societa’ per azioni e’ legato alla stessa da un rapporto di tipo societario che, in considerazione dell’immedesimazione organica tra persona fisica ed ente e dell’assenza del requisito della coordinazione, non e’ compreso in quelli previsti dall’articolo 409 c.p.c., n. 3 (Cass. Sez. U. 20 gennaio 2017, n. 1545). In linea con tale insegnamento si e’ poi di recente ribadito il principio, gia’ presente nella giurisprudenza di questa Corte (cfr. infatti, Cass. 1 aprile 2009, n. 7961 e Cass. 26 febbraio 2002, n. 2861, entrambe rese in tema di societa’ cooperative a responsabilita’ limitata), per cui nelle societa’ di capitali deve considerarsi legittima la clausola statutaria che preveda la gratuita’ dell’incarico (Cass. 9 gennaio 2019, n. 285).
Il venir meno del diritto dell’amministratore al compenso puo’ pero’ discendere anche dalla rinuncia dell’interessato (Cass. 3 ottobre 2018, n. 24139): cio’ in quanto il diritto in questione e’ senz’altro disponibile (Cass. 21 giugno 2017, n. 15382; Cass. 26 gennaio 1976, n. 243).
Tale rinuncia non deve essere necessariamente espressa: essa deve pero’ potersi desumere da un comportamento concludente del titolare che riveli in modo univoco la sua effettiva e definitiva volonta’ abdicativa.
Valgono, al riguardo, i generali principi espressi dalla giurisprudenza di questa Corte con riferimento al silenzio: affinche’ il silenzio possa assumere valore negoziale, occorre o che il comune modo di agire o la buona fede, nei rapporti instauratisi tra le parti, impongano l’onere o il dovere di parlare, o che, secondo un dato momento storico e sociale, avuto riguardo alla qualita’ delle parti e alle loro relazioni di affari, il tacere di una possa intendersi come adesione alla volonta’ dell’altra (Cass. 14 maggio 2014, n. 10533; Cass. 16 marzo 2007, n. 6162; Cass. 20 febbraio 2004, n. 3403; Cass. 14 giugno 1997, n. 5363, secondo cui il creditore che accetta un pagamento parziale, che il debitore esegue espressamente a titolo di saldo del maggior importo giudizialmente preteso, senza replicare alcunche’, non percio’ rinuncia al credito o rimette il debito).
E cosi’, per la rinuncia tacita e’ necessario un comportamento concludente del titolare che riveli in modo univoco la sua effettiva e definitiva volonta’ dismissiva del diritto; infatti, al di fuori dei casi in cui gravi sul creditore l’onere di rendere una dichiarazione volta a far salvo il suo diritto di credito, il silenzio o l’inerzia non possono essere interpretati quale manifestazione tacita della volonta’ di rinunciare al diritto di credito, la quale non puo’ mai essere oggetto di presunzioni (Cass. 5 febbraio 2018, n. 2739; Cass. 25 agosto 1999, n. 8891).
Si e’ pertanto precisato che la rinuncia all’emolumento, da parte dell’amministratore, possa desumersi soltanto da un comportamento concludente del titolare che riveli in modo univoco una sua volonta’ abdicativa, non essendo sufficiente la mera inerzia o il silenzio (Cass. 3 ottobre 2018, n. 24139).
Nel caso in esame, la Corte di appello ha ricavato la rinuncia al compenso di (OMISSIS) dalla mancata richiesta di esso e ha precisato che tale rinuncia risultava motivata dal convincimento, in capo alla stessa ricorrente, che gli altri amministratori avessero fatto altrettanto.
In tal modo, la Corte di merito ha pero’ solo spiegato le ragioni della condotta omissiva dell’istante: non ha dato conto delle ragioni per le quali quel comportamento potesse assurgere al manifestazione di una volonta’ negoziale. In altri termini, il proposito dell’odierna istante di conformare la propria condotta a quella degli altri amministratori – che, secondo quanto da lei (erroneamente) opinato, avevano dismesso il loro diritto alla percezione del corrispettivo maturato per lo svolgimento della rispettiva attivita’ – resta relegato nella sfera interna della parte e, proprio perche’ privo di esteriorizzazione, non vale ad attribuire all’inerzia della stessa la consistenza propria di un comportamento rappresentativo di una manifestazione di volonta’.
La conclusione cui e’ pervenuta la Corte di appello sembra celare, in realta’, un fraintendimento.
Infatti, il principio secondo il quale il silenzio, in alcuni casi, puo’ essere rilevante giuridicamente poggia sul rilievo per cui, in presenza di determinati fatti o situazioni, la condotta inattiva della parte viene ad assumere un preciso significato. In tali ipotesi rilevano le illazioni che possano trarsi da tale silenzio circostanziato: nel contesto indicato il valore negoziale attribuito a quel comportamento omissivo discende, quindi, dai principi di autoresponsabilita’ e di affidamento. Ne’ l’autore del contegno omissivo, ne’ altri soggetti interessati possono difatti ignorare, nelle evenienze date, il significato concludente di quell’inerzia.
Diversa e’ la situazione che si determina quando si e’ al cospetto di una mera inattivita’, a un silenzio puro e semplice: una tale condotta e’ giuridicamente non significativa proprio in quanto ad essa non puo’ attribuirsi un significato negoziale (sempre che, beninteso, la legge non disponga altrimenti: ad es. articolo 1399 c.c., comma 4, articolo 1597 c.c., comma 1, articolo 1712 c.c., comma 2, articolo 2301 c.c., comma 2); il detto contegno di inerzia non giustifica, quindi, l’affidamento quanto alla venuta ad esistenza del negozio e, per riflesso, non onera chi lo tiene di valutare l’ipotetica – ma di fatto insussistente – impegnativita’ del comportamento tenuto.
Ben si intende, allora, come nella fattispecie oggetto di causa, la condotta meramente omissiva di (OMISSIS) non potesse assumere il significato di una manifestazione di volonta’ in forza delle sole motivazioni che l’avevano occasionata.
Il principio di cui deve farsi applicazione, nella fattispecie in esame, e’ pertanto il seguente: la rinuncia al compenso da parte dell’amministratore puo’ trovare espressione in un comportamento concludente del titolare che riveli in modo univoco una sua volonta’ dismissiva del relativo diritto; a tal fine e’ pertanto necessario che l’atto abdicativo si desuma non dalla semplice mancata richiesta dell’emolumento, quali che ne siano le motivazioni, ma da circostanze esteriori che conferiscano un preciso significato negoziale al contegno tenuto.
Le ulteriori doglianze svolte nel motivo restano assorbite.
2. – Il secondo motivo del ricorso principale lamenta l’omessa pronuncia sulla condotta illecita della societa’, nonche’ la violazione e falsa applicazione dell’articolo 112 c.p.c.. La ricorrente si duole che la Corte distrettuale abbia rigettato le domande risarcitorie ritenendo che le stesse non fossero provate; assume che le condotte poste in atto dal presidente del consiglio di amministrazione, (OMISSIS), ed al suo procuratore speciale (OMISSIS), avevano prodotto danni ad essa ricorrente e che i medesimi andavano risarciti.
Il motivo e’ palesemente infondato.
Il vizio lamentato e’ insussistente, in quanto la Corte di appello si e’ pronunciata sulla domanda risarcitoria. Le deduzioni svolte richiamando le risultanze probatorie nulla hanno a che vedere con l’omessa pronuncia e trascurano comunque di considerare che l’esame e la valutazione dei documenti di causa, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute piu’ idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito (per tutte: Cass. 31 luglio 2017, n. 19011; Cass. 2 agosto 2016, n. 16056.
3 – Il motivo di ricorso incidentale e’ rubricato come violazione e falsa applicazione degli articoli 2390 e 2392 c.c. e violazione dell’articolo 115 c.p.c.. La censura investe il profilo della violazione dell’obbligo di non concorrenza che gravava su (OMISSIS): si lamenta che la Corte di appello abbia mancato di riformare la sentenza di primo grado con riferimento alla statuizione vertente sulla mancata ammissione delle prove dedotte dalla societa’; si deduce, inoltre, che i giudici di merito, una volta appurata la responsabilita’ della controparte, ben avrebbero potuto liquidare il danno in via equitativa.
Il motivo e’ nel complesso infondato.
In tema di ricorso per cassazione, una censura relativa alla violazione e falsa applicazione degli articoli 115 e 116 c.p.c. non puo’ porsi per una erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, ma solo se si alleghi che quest’ultimo abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte d’ufficio al di fuori dei limiti legali, o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione (per tutte: Cass. 17 gennaio 2019, n. 1229): evenienze, queste, che nella fattispecie non ricorrono.
Oltretutto, la censura e’ carente di autosufficienza, in quanto l’istante non spiega se il tema della mancata ammissione delle istanze istruttorie (di cui la sentenza impugnata non si occupa) fosse stato devoluto al giudice del gravame con uno specifico motivo di appello. La ricorrente omette di chiarire, poi, quale sia la decisivita’ del capitolato richiamato nel corpo del motivo (sulla necessita’ di una tale indicazione, cfr. Cass. 17 febbraio 2004, n. 3004): tanto piu’ che la ratio decidendi della sentenza, con riguardo al tema dell’illecito concorrenziale, verte sulla mancata dimostrazione del danno, mentre i capitoli di prova di cui trattasi paiono riferirsi al distinto profilo dell’esistenza di una responsabilita’ risarcitoria di (OMISSIS).
Da ultimo, per venire al secondo profilo di doglianza sviluppato nell’ambito del motivo, e’ ben noto che l’esercizio del potere discrezionale di liquidare il danno in via equitativa, conferito al giudice dagli articoli 1226 e 2056 c.c., non ricomprenda l’accertamento del pregiudizio della cui liquidazione si tratta, presupponendo gia’ assolto l’onere della parte di dimostrare la sussistenza e l’entita’ materiale del danno (Cass. 22 febbraio 2018, n. 4310; Cass. 12 ottobre 2011, n. 20990).
4. – In conclusione, va accolto il primo motivo del ricorso principale, mentre i restanti risultano essere infondati.
La sentenza e’ cassata in relazione al motivo accolto, con rinvio della causa alla Corte di appello di Perugia, cui e’ demandato di statuire sulle spese del giudizio di legittimita’.

P.Q.M.

LA CORTE
accoglie il primo motivo di ricorso principale e rigetta il secondo; rigetta il ricorso incidentale; cassa in relazione al motivo accolto e rinvia la causa alla Corte di appello di Perugia, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimita’; ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, articolo 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, articolo 1, comma 17, da’ atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, se dovuto, per il ricorso.

 

In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.

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