La pratica commerciale scorretta è considerata un “illecito di pericolo”

Consiglio di Stato, Sezione sesta, Sentenza 27 febbraio 2020, n. 1428.

La massima estrapolata:

La pratica commerciale scorretta è considerata un “illecito di pericolo”, con la conseguenza che deve essere effettuato un giudizio pronostico ex ante, avendo riguardo alla “potenzialità lesiva del comportamento posto in essere dal professionista, indipendentemente dal pregiudizio causato in concreto al comportamento dei destinatari, indotti ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbero altrimenti preso.

Sentenza 27 febbraio 2020, n. 1428

Data udienza 30 gennaio 2020

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Sesta
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 4333 del 2017, proposto da
Ge. Ge. Ri. S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati An. Cl., Pa. Zi., Pa. Ma. Ro. Zi., con domicilio eletto presso lo studio An. Cl. in Roma, via (…);
contro
Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, in persona del Presidente pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via (…);
nei confronti
Adiconsum, Unione Nazionale dei Consumatori, Aduc – Associazione per i diritti degli utenti e consumatori, Movimento Consumatori, Ass. Con. Associazione di Consumatori, Confconsumatori, Ctcu, Atc – Associazione Tutela del Consumatore, Federconsumatori non costituiti in giudizio;
per la riforma
della sentenza 6 marzo 2017 n. 3144 del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, Sezione Prima.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio di Autorità garante della concorrenza e del mercato;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 30 gennaio 2020 il Cons. Vincenzo Lopilato e uditi per le parti gli avvocati An. Cl. e Gi. Gr. dell’Avvocatura Generale dello Stato.

FATTO

1.- La società Ge. Ge. Ri. S.r.l. (di seguito, anche solo “Ge.”, oppure “società “) ha come oggetto sociale l’organizzazione e l’effettuazione di tutte le operazioni finalizzate alla gestione ed al recupero dei crediti.
Anche la società El. S.r.l. (di seguito, anche “El.”) ha ana oggetto sociale.
Le due società sono partecipate dalla controllante Ge. Hd. s.r.l., che, in qualità di capogruppo, svolge attività di indirizzo, controllo e direzione generale in attività di diversa natura.
El. ha incaricato Ge. di svolgere le attività di recupero dei crediti acquisiti dalla società Vo. N.V., di gestire le relative posizioni e di esigere ed incassare i crediti, in nome e per conto della stessa El., riconoscendole un compenso pari al trenta per cento degli importi recuperati.
I predetti crediti sono stati ceduti ad El. con contratto di cessione di credito pro soluto, sottoscritto in data 29 marzo 2013, trasferendo un portafoglio di crediti individuati in blocco ed in relazione al quale la cedente ha specificato di non garantire l’esistenza dei crediti e di non rispondere dei crediti non azionabili.
2.- L’Autorità garante della concorrenza e del mercato (di seguito, anche solo “Autorità “), in data 17 febbraio 2014, ha comunicato alle Società Ge. ed El. l’avvio di un procedimento istruttorio avente ad oggetto presunte pratiche commerciali scorrette integranti la violazione degli artt. 20, 21, 22, 24 e 25, del decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206 (Codice del Consumo).
In particolare, l’Autorità ha contestato a Ge. le seguenti condotte: i) la richiesta, a mezzo missive, e-mail, telefonate e messaggi, di pagare presunti crediti, non dettagliati, infondati o prescritti o comunque contestati, anche minacciando, in caso di mancato pagamento, azioni legali o specificando che “al fine di ritentare la composizione bonaria del Vostro debito, desideriamo informarvi che abbiamo predisposto la visita di un nostro funzionario che si recherà all’indirizzo su indicato o eventualmente presso il vostro posto di lavoro”; ii) l’invito ai consumatori a contattare un numero telefonico a pagamento, sottoposto ad una onerosa tariffazione, inviando solleciti di pagamento o inviti ad effettuare delle verifiche amministrative (punto II del provvedimento). Veniva “ipotizzata l’ingannevolezza e l’aggressività del comportamento descritto, in quanto contrario alla diligenza professionale ed idoneo a falsare in misura apprezzabile il comportamento economico del consumatore medio cui è diretto, nonché aggressivo in quanto, mediante indebito condizionamento, idoneo a limitare considerevolmente la libertà di scelta o di comportamento del consumatore e pertanto ad indurlo ad assumere una decisione che altrimenti non avrebbe preso” (par. 14 del provvedimento impugnato).
All’esito dell’istruttoria, l’Autorità, nell’adunanza del 18 maggio 2015, ha adottato il provvedimento n. 25033 con cui è stata irrogata alla società Ge..l. una sanzione amministrativa pecuniaria complessiva di 205.000,00 euro.
2.- La Ge. ha impugnato tale provvedimento innanzi al Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, che, con sentenza 6 marzo 2017, n. 3144 ha rigettato il ricorso.
3.- Il ricorrente ha proposto appello.
4.- Si è costituita in giudizio l’Autorità, chiedendo il rigetto dell’appello.
5.- La causa è stata decisa all’esito dell’udienza pubblica del 30 gennaio 2020.

DIRITTO

1.- La questione all’esame della Sezione attiene all’accertamento della legittimità della sanzione pecuniaria irrogata alla società appellante per l’accertata realizzazione di una pratica commerciale scorretta nella fase di recupero di crediti.
2.- Il settore generale delle pratiche commerciali scorrette è disciplinato, sul piano europeo, dalla direttiva 2005/29/Ce e, sul piano nazionale, dagli artt. 18-27-quater del decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206 (Codice del Consumo), con cui è stata data attuazione alla suddetta direttiva.
In relazione all’ambito applicativo soggettivo, l’art. 19, comma 1, prevede che la disciplina in esame si applica alle pratiche commerciali scorrette poste in essere tra professionisti e consumatori.
In particolare: i) il consumatore è identificato in qualsiasi persona fisica che “agisce per fini che non rientrano nel quadro della sua attività commerciale, industriale, artigianale e professionale” (art. 18, comma 1, lett. a); ii) il professionista è identificato in “qualsiasi persona fisica o giuridica che, nelle pratiche commerciali oggetto del presente titolo, agisce nel quadro della sua attività commerciale, industriale, artigianale o professionale e chiunque agisce in nome o per conto di un professionista”.
La normativa in esame fa rientrare nel proprio perimetro applicativo anche le cd. microimprese (art. 18, lett. d-bis, cod. cons.).
La ragione giustificativa della normativa imperativa di protezione è rappresentata dall’esigenza di tenere conto della debolezza contrattuale – derivante dallo squilibrio informativo nei rapporti con il professionista – del soggetto che pone in essere atti negoziali per scopi oggettivi di consumo.
In relazione all’ambito applicativo oggettivo, la nozione di “pratica” commerciale scorretta evoca il concetto di “attività “, e non di “atto” negoziale, che pone in essere l’imprenditore o il professionista. Si tratta, pertanto, di un comportamento che ha valenza generale che si inserisce, in quanto tale, nell’ambito di una strategia di impresa o professionale finalizzata a trarre illeciti vantaggi economici con pregiudizio delle parti contrattuali deboli.
L’art. 20 ha previsto che una pratica è scorretta se ricorrono due condizioni: i) la sua contrarietà alla “diligenza professionale”; ii) la sua idoneità “a falsare in misura apprezzabile il comportamento economico, in relazione al prodotto, del consumatore medio che essa raggiunge o al quale è diretta o del membro medio di un gruppo qualora la pratica commerciale sia diretta a un determinato gruppo di consumatori” (comma 1).
Il riferimento alla diligenza professionale deve essere inteso non come richiamo alla colpa ma alla buona fede quale regola di condotta oggettiva alla quale la parte forte deve conformare la propria attività concreta. L’art. 18, lett. h) definisce, infatti, la “diligenza professionale” come “il normale grado della specifica competenza ed attenzione che ragionevolmente i consumatori attendono da un professionista nei loro confronti rispetto ai principi generali di correttezza e di buona fede nel settore di attività del professionista”.
Il riferimento al consumatore medio è coerente con la nozione di “attività ” di rilevanza generale che incide sul mercato e, pertanto, la pratica deve essere idonea a ledere la categoria dei consumatori che operano in quel determinato settore.
Nell’ambito delle pratiche commerciali scorrette, il Codice del consumo distingue quelle ingannevoli e quelle aggressive.
L’art. 21 dispone che “è considerata ingannevole una pratica commerciale che contiene informazioni non rispondenti al vero o, seppure di fatto corretta, in qualsiasi modo, anche nella sua presentazione complessiva, induce o è idonea ad indurre in errore il consumatore medio riguardo ad uno o più dei seguenti elementi e, in ogni caso, lo induce o è idonea a indurlo ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso”.
L’art. 24 prevede che “è considerata aggressiva una pratica commerciale che, nella fattispecie concreta, tenuto conto di tutte le caratteristiche e circostanze del caso, mediante molestie, coercizione, compreso il ricorso alla forza fisica o indebito condizionamento, limita o è idonea a limitare considerevolmente la libertà di scelta o di comportamento del consumatore medio in relazione al prodotto e, pertanto, lo induce o è idonea ad indurlo ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso”.
La giurisprudenza amministrativa ha chiarito che si tratta di un “illecito di pericolo”, con la conseguenza che deve essere effettuato un giudizio pronostico ex ante, avendo riguardo alla “potenzialità lesiva del comportamento posto in essere dal professionista, indipendentemente dal pregiudizio causato in concreto al comportamento dei destinatari, indotti ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbero altrimenti preso” (Cons. Stato sez. VI, 15 luglio 2019 n. 4976; Cons. Stato, Sez. VI, 23 maggio 2019 n. 3347; Cons. Stato, sez. VI, 10 dicembre 2014, n. 6050; Trib. Amm. Reg. Lazio, Roma, sez. I, 8 marzo 2019, n. 3095).
3.- Con un primo motivo si assume l’erroneità della sentenza nella parte in cui non ha rilevato l’illegittimità del provvedimento impugnato, in quanto la Ge. non potrebbe rientrare nel campo applicazione della normativa in esame, avendo posto in essere l’attività di recupero crediti quale mera mandataria della società El.. In particolare, si sottolinea, come nei contratti di gestione del credito era previsto che: i) “la gestione delle pratiche sarà periodicamente controllata e riveduta dal personale della committente”; ii) la committente ha diritto di accedere alla sede della Ge.; iii) i testi da inviare ai creditori avrebbe dovuto essere sottoposti alla previa approvazione della mandante.
Il motivo non è fondato.
La normativa di protezione del consumatore in esame si applica, alla luce delle disposizioni sopra riportate, al professionista ovvero a chi agisce per suo conto.
Nella specie risulta che le parti avessero stipulato un contratto di gestione del credito, riconducibile al contratto di mandato all’incasso, con espressa esclusione di qualsiasi vincolo di subordinazione gerarchica della mandataria. La Ge. aveva, pertanto, il potere di agire in piena autonomia, essendo previste forme di controllo che, però, non erano tali da incidere su tale potere. La condotta scorretta, contestata dall’Autorità, è riconducibile, pertanto, unicamente alla Ge..
In ogni caso, le deduzioni svolte dalla società appellante sarebbero, eventualmente, idonee a dimostrare una concorrente responsabilità della El., che l’Autorità ha, in concreto, ritenuto non sussistente, e non anche ad escludere la responsabilità della Ge..
4.- Con un secondo motivo si assume l’erroneità della sentenza nella parte in cu non ha ravvisato l’illegittimità del provvedimento impugnato per violazione dei termini di svolgimento della procedimento di accertamento dell’illecito. In particolare, si assume che essendo l’iter istruttorio iniziato nel 2010, non sarebbe stato rispettato il termine di centottanta giorni per l’avvio del procedimento sanzionatorio.
Il motivo non è fondato.
L’art. 5 del regolamento prevede che l’Autorità ha il termine di centottanta giorni per avviare la procedura e se non viene fatta la comunicazione entro quel termine la richiesta di intervento si intende archiviata, fermo restando il potere dell’Autorità di procedere d’ufficio ad un approfondimento istruttorio.
Questa norma deve essere intesa nel senso che il termine può essere prorogato, come è avvenuto nella specie, dall’Autorità che ritenga necessario svolgere ulteriori accertamenti. Del resto, è la stessa tipologia di contestazioni che, per la loro complessità, presuppone un periodo di accertamento che può andare oltre il termine fissato dal regolamento.
5.- Con il terzo e quarto motivo si assume l’erroneità della sentenza nella parte in cui non ha ravvisato l’illegittimità del provvedimento impugnato in ragione della insussistenza di una pratica commerciale aggressiva. In particolare, si sostiene che: i) la società appellante si sarebbe limitata a chiedere il pagamento di somme dovute, attenendosi a quanto prescritto dai Codici di condotta della categoria di appartenenza, condivisi anche dalle Associazione dei consumatori; ii) il credito prescritto è comunque un credito che può essere richiesto, perché la sua estinzione presuppone una espressa eccezione da parte del debitore.
I motivi non sono, nei limiti di seguito indicati, fondati.
L’attività di richiesta di pagamento è un’attività legittima, cosi come lo è anche la richiesta di pagamenti relativi a diritti di crediti che possono risultare già prescritti.
Nella specie, ciò che assegna valenza scorretta alla pratica è l’avvertimento in ordine al fatto è stata predisposta la “visita” di un “funzionario” che “si recherà all’indirizzo” del consumatore ed “eventualmente” presso il “posto di lavoro”.
E’ questa una condotta che non rientra nelle modalità lecite di riscossione dei crediti, dovendo la stessa essere considerata aggressiva. Non emerge, infatti, alcuna correlazione tra la natura del credito, la visita domiciliare e la previsione contrattuale.
Allo stesso modo non lecita è la richiesta di contattare un numero telefonico a pagamento.
Si tratta, pertanto, di forme indebite di condizionamento idonee ad indurre il consumatore a porre in essere una condotta che altrimenti non avrebbe posto in essere.
6.- Con il quarto motivo si assume l’erroneità della sentenza nella parte in cui non avrebbe ravvisato la violazione delle garanzie convenzionali contemplate dall’art. 6 della Cedu, essendo l’Autorità non un giudice imparziale ma una parte interessata e il primo giudice, essendosi limitato a riprendere le argomentazioni del Tribunale amministrativo, non avrebbe assicurato il “recupero” delle garanzie in sede giurisdizionale.
Il motivo, a prescindere dalla sua genericità, è infondato.
Nello svolgimento del giudizio di primo grado e nel presente giudizio sono state assicurate tutte le forme di garanzie conforme agli standard prescritti dal diritto convenzionale. In mancanza di specifiche e ulteriori contestazioni in ordine ad asserite deficienze di tutela, la censura deve ritenersi non fondata.
6.- Con l’ultimo motivo si assume l’erroneità della sentenza nella parte in cui non ha ritenuto illegittima la sanzione irrogata in quanto: i) non si sarebbe tenuto conto del fatto che già dal 2010 la società appellante avrebbe tenuto una condotta riparatoria; ii) il termine di inizio della condotta contestata dovrebbe farsi decorrere da fine 2012 e non dal 2010; iii) non sarebbe stato assicurato il rispetto del principio di proporzionalità .
Il motivo è in parte fondato.
L’art. 27, comma 9, Cod. cons. ha previsto che l’Autorità, con il provvedimento che vieta la pratica, applica “una sanzione amministrativa pecuniaria da 5.000 euro a 5.000.000 euro, tenuto conto della gravità e della durata della violazione”.
Nella specie è stata irrogata la sanzione di 205.000,00 euro.
Dagli atti del processo risulta che: i) non vi è stata una reale dissociazione dalla condotta ma solo una mera interruzione dell’illecito contestato; ii) il periodo di collocazione temporale della condotta effettuato dall’Autorità risulta corretto.
Ciò che risulta violato è il principio di proporzionalità nella modulazione dell’entità della sanzione.
I profili di scorrettezza della condotta sono rappresentati dal riferimento alla visita di un dipendente della società, nonché alla circostanza che il consumatore dovesse effettuare una telefonata a pagamento per avere ulteriori informazioni.
Non risulta, invece, di per sé illecita la sollecitazione di pagamento anche di crediti potenzialmente estinti, rientrano essa nella ordinaria modalità di riscossione di crediti liquidi ed esigibili.
La Sezione ritiene, pertanto, alla luce di quanto risulta dagli atti del procedimento e del processo, che la sanzione debba essere ridotta di un quarto rispetto a quella concretamente irrogata.
6.- L’esito della controversia giustifica l’integrale compensazione tra le parti delle spese del presente grado di giudizio.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato, in sede giurisdizionale, Sezione Sesta, definitivamente pronunciando:
a) rigetta l’appello proposto con il ricorso indicato in epigrafe nella parte in cui si contesta la sussistenza di una pratica commerciale scorretta;
b) accoglie, in parte nei limiti indicati in motivazione, il suddetto appello nella parte in cui si contesta l’entità della sanzione irrogata;
c) le spese del presente grado di giudizio sono compensate tra le parti.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 30 gennaio 2020 con l’intervento dei magistrati:
Sergio Santoro – Presidente
Vincenzo Lopilato – Consigliere, Estensore
Alessandro Maggio – Consigliere
Dario Simeoli – Consigliere
Davide Ponte – Consigliere

 

 

In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.

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