La nozione di pertinenze urbanistiche

Consiglio di Stato, Sezione seconda, Sentenza 12 febbraio 2020, n. 1107.

La massima estrapolata:

La nozione di pertinenze urbanistiche, diversa da quella, più ampia, di cui all’art. 817 c.c., viene ritenuta sussistente in caso di opere di modesta entità accessorie rispetto ad altra principale, ed esclusa quando le stesse, da un punto di vista delle dimensioni e della funzione, si connotino per una propria autonomia rispetto all’opera cd. principale e non siano coessenziali alla stessa, tali, cioè, che non ne risulti possibile una diversa destinazione economica.

Sentenza 12 febbraio 2020, n. 1107

Data udienza 3 dicembre 2019

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Seconda
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 5963 del 2009, proposto dal signor Da. Po., rappresentato e difeso dall’avvocato Gi. Ga., con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Fa. in Roma, via (…);
contro
il Comune di (omissis), in persona del Sindaco pro tempore, non costituito in giudizio;
per la riforma
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, sezione staccata di Latina, sez. I, n. 1180/2008, resa tra le parti, concernente ordinanza di sospensione dei lavori e demolizione di opere abusive;
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 3 dicembre 2019 il Cons. Antonella Manzione e preso atto che nessuno è comparso per l’appellante, unica parte costituita;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO

1. Con ricorso n. r.g. 1563/1996 il signor Da. Po. ha impugnato presso il T.A.R. per il Lazio, sezione staccata di Latina, l’ordinanza n. 23 in data 8 giugno 1996 recante sospensione e demolizione di opere edilizie abusive consistenti nell’ampliamento di mq. 1,80, mediante tamponatura sui lati di una preesistente pensilina, di un fabbricato di civile abitazione di sua proprietà ubicato nel Comune di (omissis).
2. L’adì to Tribunale ha respinto il ricorso, compensando le spese di giudizio, avendo ritenuto dirimente, anche allo scopo di escludere la riconducibilità dell’intervento al paradigma della manutenzione straordinaria di cui all’art. 31 della l. 5 agosto 1978, n. 457, vigente ratione temporis, l’aumento di volumetria, seppur minimo, del manufatto cui accede, conseguitone: la consistenza dell’abuso, infatti, al pari dello stato di necessità che ne ha indotto la realizzazione, non esimono comunque il Comune dall’obbligo di adottare l’ingiunzione a demolire a titolo di sanzione. Quanto agli ulteriori motivi di ricorso, in particolare la eccepita incompetenza del Sindaco, non ha ravvisato la necessità di scrutinarli, stante che in forza dell’art. 21 octies della l. 7 agosto 1990, n. 241, il provvedimento, a contenuto necessitato, non avrebbe comunque potuto essere diverso da quello in concreto adottato.
3. Con l’odierno gravame l’interessato ha chiesto la riforma di ridetta sentenza, affidandosi a due motivi di doglianza:
-falsa applicazione del combinato disposto degli artt. 31 e 48 della l. n. 457/1978 e dell’art. 7 della l. 25 marzo 1982, n. 94, di conversione, con modificazioni, del d.l. 23 gennaio 1982, n. 9. Per l’intervento di cui è causa, infatti, sarebbe stata sufficiente un’autorizzazione a titolo gratuito, trattandosi di abuso di modesta entità, di natura pertinenziale, la cui realizzazione si è resa necessaria per rendere concretamente abitabile, fornendola del servizio igienico mancante, la porzione di immobile che il giudice civile aveva destinato all’abitazione del ricorrente e della madre, a seguito della separazione di quest’ultima dal coniuge, dividendo fisicamente in due parti l’originaria casa familiare. L’entità dell’incremento volumetrico, peraltro, pari a complessivi mc. 5,40, in quanto non eccedente il 2 % dell’intero manufatto, rientrerebbe nella soglia di tolleranza degli abusi di cui all’art. 34 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380;
– falsa applicazione dell’art. 21 octies della l. 7 agosto 1990, n. 241: la asserita natura vincolata del provvedimento adottato, avrebbe indotto il giudice di prime cure ad omettere di scrutinare il sollevato vizio di incompetenza, con ciò dando applicazione ad una norma non ancora in vigore al momento dell’adozione dell’atto stesso, in quanto introdotta con la novella attuata con l. 11 febbraio 2005, n. 15.
Per corroborare la propria ricostruzione, in data 18 ottobre 2019 depositava relazione a firma di un tecnico di fiducia che documenta, rappresentandolo anche graficamente, l’incremento volumetrico conseguito all’intervento (addirittura inferiore all’1 % della volumetria originaria dell’immobile, come tale al di sotto della percentuale del 2 % fissata dall’art. 34 del d. P.R. n. 380/2001 quale soglia di tolleranza delle divergenze dalla progettualità assentita).
4. Alla pubblica udienza del 3 dicembre 2019, in vista della quale l’appellante ha depositato memoria per ribadire la propria prospettazione, la causa è stata trattenuta in decisione.

DIRITTO

5. Il Collegio ritiene l’appello infondato e come tale da respingere.
6. Va preliminarmente rilevato come l’invocata situazione di necessità sottesa alla realizzazione dell’abuso -la costruzione del servizio igienico a servizio della porzione di fabbricato assegnato al ridotto nucleo familiare composto da madre e figlio in sede di separazione tra i coniugi- potrebbe astrattamente essere invocata in sede penale, anche allo scopo di attenuare eventuali responsabilità per le fattispecie di reato previste dal T.U.E., ma non assume rilievo ai fini dell’attivazione del procedimento sanzionatorio per la tutela del territorio e del suo buon governo, con necessario ripristino dello stato dei luoghi.
Né egualmente può averne la incontestata minima consistenza volumetrica del manufatto aggiuntivo, in assoluto e in termini di incidenza percentuale sulla cubatura di quello originario: l’entità dell’abuso, infatti, non ne cambia la natura illecita, con ciò facendo venire meno l’obbligo per il Comune preposto di intervenire con i provvedimenti sanzionatori previsti dal legislatore allo scopo.
6.1. D’altro canto, proprio l’incontestato aumento di cubatura esclude che possa parlarsi nel caso di specie di manutenzione straordinaria, la cui definizione, riveniente dall’art. 31, comma 1, lett. b), della richiamata l. 5 agosto 1978, n. 457, implica che ” le opere e le modifiche necessarie per rinnovare e sostituire parti anche strutturali degli edifici, nonché per realizzare ed integrare i servizi igienico-sanitari e tecnologici […], non alterino i volumi e le superfici delle singole unità immobiliari”.
7. Nel tentativo di dequotare la natura dell’intervento effettuato, l’appellante, in maniera peraltro non del tutto chiara in quanto finisce per sovrapporre ciascuna ipotesi ricostruttiva, invocandole alternativamente pur di accedere ad un regime autorizzatorio -e conseguentemente sanzionatorio- più blando, invoca anche la categoria delle “pertinenze urbanistiche” di cui all’art. 7 della l. n. 94 del 1982.
Anche tale opzione non risulta condivisibile.
Invero, la nozione di pertinenze urbanistiche, diversa da quella, più ampia, di cui all’art. 817 c.c., viene ritenuta sussistente in caso di opere di modesta entità accessorie rispetto ad altra principale, ed esclusa quando le stesse, da un punto di vista delle dimensioni e della funzione, si connotino per una propria autonomia rispetto all’opera cd. principale e non siano coessenziali alla stessa, tali, cioè, che non ne risulti possibile una diversa destinazione economica (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 3 giugno 2019, n. 3703; sez. VI, 13 marzo 2017, n. 1155).
Nel caso di specie, tuttavia, pur essendo innegabile la modestia dell’intervento, esso appare non “coessenziale” rispetto al manufatto originario, ma “integrato” nello stesso. In sintesi, non è pensabile parlare di “pertinenze” con riferimento ad un ampliamento di superficie abitabile, venendo all’evidenza in tal caso non un rapporto di accessorietà tra immobili, ma di unificazione del secondo nel primo. Diversamente opinando, sarebbe sufficiente funzionalizzare l’incremento costruttivo ad una finalità lato sensu “pertinenziale” -in senso etimologico, piuttosto che tecnico-giuridico- per attrarlo nell’orbita del diverso, e più favorevole, regime giuridico nel tempo riservato a tale specifica categoria di opere.
8. L’appellante invoca infine la lieve entità dell’abuso, ritenendolo riconducibile, per limite di consistenza, alla “fascia” percentuale di tolleranza di cui all’art. 34 del d.P.R. n. 380/2001, laddove (comma 3 bis), esclude la sussistenza di “parziale difformità ” dal titolo abilitativo “in presenza di violazioni di altezza, distacchi, cubatura o superficie coperta che non eccedano per singola unità immobiliare il 2 per cento delle misure progettuali”.
Trattasi tuttavia, come appare chiaro dal tenore letterale della norma, di un’ipotesi di abusivismo minore, intendendosi per tale quello che consegue alla realizzazione di un’opera complessivamente assentita, ma sconfinando dal perimetro della legittimazione ottenuta in misura talmente ridotta, da dovere essere di fatto tollerata (la percentuale di tolleranza, ricorda ancora la Sezione, è stata di recente ampliata dal legislatore, tanto da essere oggi pari al 5 %).
La difformità, cioè, non può certo essere ancorata ad un titolo preesistente da anni, se non addirittura da decenni, in relazione al quale parlare di “parziale difformità ” si palesa di per sé inconciliabile, salvo volere legittimare non divergenze da una progettualità necessariamente attuale, ma qualsivoglia intervento, purché di dimensioni contenute, su immobili costruiti in forza di un titolo edilizio che ha da tempo esaurito la propria funzione ed efficacia, in dispregio delle più elementari regole di corretto sviluppo del territorio (nel caso di specie, la licenza edilizia rilasciata il 31 agosto 1963).
Ciò peraltro anche a voler prescindere dalla circostanza, dirimente, che la normativa invocata non era certo in vigore alla data di adozione del provvedimento impugnato (8 giugno 1996), essendo stata inserita nel -comunque sopravvenuto- d.P.R. n. 380/2001, dal d.l. 13 maggio 2011, n. 70, convertito, con modificazioni, dalla l. 12 luglio 2011, n. 106.
9. Di nessun rilievo, infine, le considerazioni del tecnico di parte circa l’impossibilità di abbattere il fabbricato senza pregiudizio per la statica dell’edificio realizzato legittimamente: la natura soggettiva e personale delle valutazioni avanzate, lungi dal potere integrare i motivi di appello, si collocano doverosamente al di fuori del perimetro degli stessi. Il giudizio espresso in chiave critica della sanzione demolitoria, peraltro, si palesa anche inconferente nel merito, stante che la scelta di sostituire la sanzione pecuniaria a quella demolitoria attiene tipicamente alla fase esecutiva e non a quella della irrogazione, che ne deve costituire comunque il necessario presupposto (sul punto, cfr. ex multis Cons. Stato, sez. VI, 9 luglio 2018, n. 4169).
10. Resta dunque da esaminare il secondo motivo di gravame, con il quale la parte lamenta l’avvenuta applicazione dell’art. 21 octies della l. n. 241/1990, con ciò omettendo di scrutinare l’eccezione di incompetenza del Sindaco, conseguentemente riproposta. Impropriamente, infatti, il giudice di prime cure avrebbe evocato una norma, e un conseguente principio, inserita nella legge sul procedimento amministrativo solo con la novella del 2005, ovvero circa 10 anni dopo l’avvenuta adozione dell’ordinanza impugnata.
11. L’assunto non è condivisibile.
12. Al fine di comprendere l’esatta portata del richiamo effettuato dal T.A.R. per il Lazio all’art. 21 octies della l. n. 241/1990, occorre brevemente richiamarne i contenuti, per come da subito affermati dalla giurisprudenza di questo Consiglio di Stato. Recita dunque il comma 2, primo periodo, della norma in questione: “Non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”.
La disposizione, come da subito affermato dalla dottrina più accorta, non degrada certo un vizio di legittimità a mera irregolarità, ma fa sì che esso non comporti l’annullabilità dell’atto sulla base di valutazioni, attinenti al suo contenuto, effettuate ex post dal giudice circa il fatto che esso non avrebbe potuto essere diverso. “Deve quindi ritenersi che l’entrata in vigore del citato art. 21 octies non abbia inciso sulla categoria dell’irregolarità dell’atto amministrativo, come già definita da dottrina e giurisprudenza, e abbia invece codificato quelle tendenze già emerse in giurisprudenza mirate a valutare l’interesse a ricorrere, che viene negato ove il ricorrente non possa attendersi, dalla rinnovazione del procedimento, una decisione diversa da quella già adottata (sulla base dell’art. 21 octies il provvedimento non è annullabile non perché assoggettato ad un diverso regime di invalidità o irregolarità, ma perché la circostanza che il contenuto non possa essere diverso priva il ricorrente dell’interesse a coltivare un giudizio, da cui non potrebbe ricavare alcuna concreta utilità )” (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 17 ottobre 2006, n. 6192). La ratio della norma, cioè, attraverso la derubricazione dei vizi formali dell’atto, è proprio quella di garantire una maggiore efficienza all’azione amministrativa risparmiando antieconomiche ed inutili duplicazioni di attività, laddove il riesercizio del potere non potrebbe comunque portare all’attribuzione del bene della vita richiesto dall’interessato. La circostanza che la violazione delle norme procedurali e formali non abbia influito sul contenuto del provvedimento ne impedisce l’annullamento non perché venga meno la sua antigiuridicità, ma perché il soggetto che lamenta la lesione di un proprio interesse non potrebbe ricevere alcun vantaggio effettivo se questo fosse annullato dal giudice amministrativo. In quest’ottica, cioè, la non annullabilità del provvedimento amministrativo è il riflesso oggettivo del fatto che il giudice amministrativo, una volta acclarata l’effettiva ininfluenza avuta sul provvedimento dalla (dedotta) violazione delle norme procedurali e sulla forma degli atti, deve senz’altro sentenziare la fine immediata del processo per difetto dell’interesse del ricorrente ad ottenere l’annullamento dell’atto impugnato.
12.1. Inquadrata in tali termini, la disposizione è stata ritenuta immediatamente applicabile alle controversie pendenti in quanto considerata norma di natura processuale confermativa di regole già consolidate nella giurisprudenza amministrativa (Cfr. T.A.R. Veneto, sez. II, 11 marzo 2005, n. 935; T.A.R. Sardegna, sez. II, 25 marzo 2005, n. 483; T.A.R. Campania, Salerno, sez. I, 4 maggio 2005, n. 760; T.A.R. Liguria, sez. I, 17 maggio 2005, n. 676; T.A.R. Puglia, Lecce, sez. II, 24 maggio, 2005, n. 2913; T.A.R. Sicilia, Palermo, sez. II, 3 giugno 2005, n. 941; T.A.R. Lazio, sez. I quater, 30 agosto 2005, n. 6359; Cons. Stato, sez.VI, ordinanza 19 aprile 2005, n. 1950; Cons. Stato, sez. IV, 14 giugno 2005, n. 3124).
L’articolo in parola, cioè, recepisce in via legislativa i principi della prova della resistenza, conservazione degli atti, strumentalità delle forme e raggiungimento dello scopo (teoria questa specificamente mutuata dall’art. 156, comma 3, del codice di procedura civile) già elaborati dalla giurisprudenza, ed analizzati dalla dottrina, i quali presentano come elemento comune la tendenza ad un’applicazione non meccanica e formalistica delle norme sul procedimento e sulla forma degli atti, nella convinzione che costituiscano mere irregolarità non invalidanti tutte quelle difformità degli atti dal paradigma normativo che si traducono in vizi meramente formali e di scarso valore sostanziale, tali, pertanto, da non avere una ragionevole incidenza causale sul contenuto del provvedimento finale e da non imporne l’annullamento. Alla sua base si pongono pertanto ragioni di economia dell’azione amministrativa che impongono di non disperdere energie umane e denaro pubblico, ossia, di evitare di procedere ad un annullamento di provvedimenti affetti da vizi di natura formale, laddove l’interesse sostanziale perseguito sia stato comunque raggiunto ed una rinnovazione del procedimento, disposta al fine di formare un atto privo dai predetti vizi formali, condurrebbe poi all’adozione di un atto finale dallo stesso contenuto sostanziale.
13. Chiarito quanto sopra, è evidente che una volta correttamente inquadrato l’intervento effettuato come ampliamento di superficie e cubatura, in quanto tale non riconducibile al paradigma della manutenzione straordinaria ed esclusa per quanto detto la natura pertinenziale dell’opera, la sua avvenuta realizzazione in assenza di titolo (all’epoca, concessione edilizia) ne imponeva l’intimata demolizione, comunque reiterabile a firma dell’organo competente anche a distanza di anni, vista la natura permanente del relativo illecito. Ben ha fatto, quindi, il giudice di prime cure ad evocare la norma sopra richiamata, essendo l’interesse all’annullamento dell’atto sostanzialmente caducato dalla ricostruita doverosità anche contenutistica dello stesso.
14. E tuttavia per completezza il Collegio rileva come la prospettata eccezione di incompetenza si palesi infondata anche nel merito.
Nel caso di specie, infatti, l’ordinanza, risalente all’anno 1996, è stata correttamente firmata dal Sindaco e non dal dirigente del settore, in applicazione dell’allora vigente previsione di cui all’art. 4 della l. n. 47/1985, derogatoria in parte qua della prospettazione generale riveniente dall’art. 51 della l. 8 giugno 1990, n. 142.
Che tale fosse la corretta lettura da attribuire al combinato disposto tra le due disposizioni è confermato dalle modifiche successivamente apportate alla richiamata norma ordinamentale, al fine di armonizzare il mutato quadro della separazione tra atti politici e atti gestionali (anche) all’ambito sanzionatorio edilizio, originariamente mantenuto nel suo assetto previgente che vedeva nel Sindaco il deus ex machina della relativa vigilanza sul territorio comunale. Con un primo intervento di riforma, infatti, attuato dalla l. 15 maggio 1997, n. 127, si è attribuita alla competenza dei dirigenti ogni provvedimento, anche in materia edilizia, il cui rilascio presupponesse accertamenti e valutazioni, anche di natura discrezionale, nel rispetto dei criteri predeterminati dalla legge, dai regolamenti, da atti generali di indirizzo, compresi, quindi i provvedimenti conseguenti alla emanazione dell’ordine di demolizione inottemperato (lett. f) dell’art. 51 della l. n. 142/1990).
Solo con la novella attuata con l’art. 2, comma 12, della l. 16 giugno 1998, n. 191, tuttavia, è stata introdotta la lett. f-bis nel comma 3 della richiamata norma al chiaro scopo di attribuire ai dirigenti anche “tutti i provvedimenti di sospensione dei lavori, abbattimento e riduzione in pristino di competenza comunale, nonché i poteri di vigilanza edilizia e di irrogazione delle sanzioni amministrative previsti dalla vigente legislazione statale e regionale in materia di prevenzione e repressione dell’abusivismo edilizio e paesaggistico-ambientale”.
14.1. Pertanto in relazione al potere sanzionatorio di demolizione, l’attribuzione ai dirigenti è avvenuta solo in forza del richiamato art. 2, comma 12, della l. n. 191/1998, con il quale è stato introdotto il comma 3, lett. f-bis, dell’art. 51, l. n. 142/1990: prima di tale data la distinzione posta dal citato art. 51 fra poteri di indirizzo e controllo, spettanti agli organi elettivi, e poteri di gestione amministrativa, attribuita ai dirigenti, non era di per sé idonea a superare il disposto di cui all’art. 4, l. 28 febbraio 1985 n. 47,che attribuiva solo al Sindaco il potere di vigilanza e repressione sull’attività edilizia (cfr. sul punto Cons. Stato, sez. VI, 15 luglio 2013, n. 3834; sez. IV, 24 luglio 2018, n. 4512).
Per dette considerazioni la censura in esame deve essere comunque negativamente apprezzata.
15. Alla luce di quanto sopra detto, pertanto, il Collegio ritiene che l’appello debba essere respinto e per l’effetto debba essere confermata la sentenza del T.A.R. per il Lazio n. 1180 del 2008.
Nulla sulle spese, non essendosi costituito il Comune intimato.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
Sezione Seconda, definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge e, per l’effetto, conferma la sentenza del T.A.R. per il Lazio n. 1180/2008.
Nulla sulle spese.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 3 dicembre 2019 con l’intervento dei magistrati:
Fabio Taormina – Presidente
Giovanni Sabbato – Consigliere
Antonella Manzione – Consigliere, Estensore
Giovanni Orsini – Consigliere
Francesco Guarracino – Consigliere

 

 

In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.

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