La mera appartenenza di una società ad un gruppo non presuppone mai l’esistenza di vantaggi compensativi ex se

Corte di Cassazione, sezione prima penale, Sentenza 13 maggio 2019, n. 20494.

La massima estrapolata:

La mera appartenenza di una società ad un gruppo non presuppone mai l’esistenza di vantaggi compensativi ex se. Anche se l’interesse della singola società non può prescindere da una visione generale, va sempre valutato, con riferimento ai possibili vantaggi che l’atto di gestione può arrecare al gruppo societario di appartenenza, quello che produce un effetto patrimoniale negativo, che si trasforma in episodio distrattivo in conseguenza del fallimento della singola società. Ancorché il singolo atto gestorio possa avere contenuto distrattivo, infatti, l’amministratore, che lo ha posto in essere, potrà sempre provare, in presenza del gruppo, l’esistenza di un derivato vantaggio compensativo a favore delle altre società del gruppo.

Sentenza 13 maggio 2019, n. 20494

Data udienza 12 giugno 2018

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MAZZEI Antonella Patrizia – Presidente

Dott. SIANI Vincenzo – Consigliere

Dott. VANNUCCI Marco – rel. Consigliere

Dott. CENTONZE Alessandro – Consigliere

Dott. CAIRO Antonio – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
(OMISSIS), nato a (OMISSIS);
avverso la sentenza del 28/06/2016 della CORTE APPELLO di ROMA;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Dott. MARCO VANNUCCI;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.ssa DI NARDO Marilia che conclude chiedendo declaratoria di inammissibilita’ del ricorso.
E’ presente l’avvocato (OMISSIS), del, foro di ROMA, in difesa di (OMISSIS) che conclude per l’accoglimento dei motivi di ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1. Per quanto qui ancora interessa:
la (OMISSIS) s.r.l. venne dichiarata fallita dal Tribunale di Roma con sentenza emessa il 8 febbraio 1995;
la (OMISSIS) s.r.l. venne dichiarata fallita dal Tribunale di Roma con sentenza emessa il 11 febbraio 1994;
la (OMISSIS) s.r.l. venne dichiarata fallita dal Tribunale di Roma con sentenza del 24 febbraio 1994;
la (OMISSIS) s.r.l. venne dichiarata fallita dal Tribunale di Roma con sentenza emessa il 11 gennaio 1995;
la (OMISSIS) s.r.l. venne dichiarata fallita dal Tribunale di Roma con sentenza emessa il 28 settembre 1994;
la (OMISSIS) s.r.l. venne dichiarata fallita dal Tribunale di Roma con sentenza emessa il 8 marzo 1995;
la (OMISSIS) s.r.l. venne dichiarata fallita dal Tribunale di Roma con sentenza emessa il 28 febbraio 1994;
la (OMISSIS) s.r.l. venne dichiarata fallita dal Tribunale di Roma con sentenza emessa il 22 agosto 1994;
la (OMISSIS) s.r.l. venne dichiarata fallita dal Tribunale di Roma con sentenza emessa il 10 febbraio 1994;
la (OMISSIS) s.r.l. venne dichiarata fallita dal Tribunale di Roma con sentenza emessa il 2 febbraio 1995;
tali societa’, formanti il c.d. “(OMISSIS)”, erano direttamente ovvero indirettamente controllate da (OMISSIS) che ne fu anche amministratore di fatto.
2. Ancora per quanto qui ancora interessa, questa Corte – Sezione 5, con sentenza n. 7129 del 5 dicembre 2011, dep. 2012, in accoglimento del ricorso proposto dal Procuratore generale presso la Corte di appello di Roma: annullo’ la sentenza emessa dalla Corte di appello di Roma il 2 dicembre 2008 che, in parziale riforma della sentenza resa dal Tribunale di Roma il 18 aprile 2005, ebbe a dichiarare estinti per prescrizione i delitti di bancarotta fraudolenta patrimoniale per distrazione e di bancarotta fraudolenta documentale relativi alle sopra indicate societa’ per la cui commissione (OMISSIS) era stato condannato con la citata sentenza di primo grado; rinvio’ ad altra sezione della Corte di appello di Roma per un nuovo giudizio.
3. Sempre per quanto di residuo interesse, con sentenza emessa il 28 giugno 2016 a definizione del giudizio di rinvio, la Corte di appello di Roma: confermo’ l’accertamento di responsabilita’ di (OMISSIS) quanto alla commissione dei delitti di bancarotta fraudolenta per distrazione di danaro e di beni dai rispettivi patrimoni delle societa’ (OMISSIS) (capo A), (OMISSIS) (capo D), (OMISSIS) (capo G), (OMISSIS) (capo L), (OMISSIS) (capo 0), (OMISSIS) (capo 00), (OMISSIS) (capo R), (OMISSIS) (capo U), (OMISSIS) (capo Z), (OMISSIS) (capo CC), nonche’ dei delitti di bancarotta fraudolenta documentale relativi alle societa’ (OMISSIS) (capo B), (OMISSIS) (capo E), (OMISSIS) (capo H), (OMISSIS) (capo M), (OMISSIS) (capo P), (OMISSIS) (capo S), (OMISSIS) (capo AA) e (OMISSIS) (capo PP); accerto’ che tali reati vennero commessi in esecuzione del medesimo disegno criminoso; concesse circostanze attenuanti generiche ritenute equivalenti alle aggravanti contestate; ridetermino’ la pena da infliggere in misura pari a sei anni di reclusione; confermo’ nel resto le statuizioni, anche civili, contenute nella sentenza di primo grado.
3.1 In risposta a motivo di appello dell’imputato, la sentenza afferma che: la disciplina recata dall’articolo 2497 c.c. in tema di responsabilita’ da direzione e coordinamento fra societa’ non ha inciso in maniera sostanziale sull’autonomia patrimoniale delle singole societa’ del gruppo e sugli obblighi incombenti sui relativi amministratori ai sensi dell’articolo 2380-bis c.c.; per escludere la natura distrattiva di una operazione infragruppo e’ necessario che l’imputato fornisca evidenza del vantaggio compensativo conseguito dalla societa’ che subisce il depauperamento derivante dalla sua appartenenza al gruppo; nel caso concreto, il fallimento a catena delle societa’ del gruppo al cui vertice vi era il ricorrente dimostra di per se’ l’illiceita’ delle operazioni di trasferimento di beni e danaro operate in assenza di corrispettivo in stato di incipiente insolvenza, in quanto le singole vicende decettive non possono che prescindere dalla considerazione degli interessi del gruppo societario; nel caso di specie, i fatti distrattivi contestati sono qualificabili come bancarotta fraudolenta patrimoniale per distrazione, non anche quale infedelta’ patrimoniale (articolo 2634 c.c., comma 3), dal momento che nessun vantaggio, di natura compensativa, derivo’ alle societa’ del gruppo dagli atti distrattivi di beni e danaro in favore delle altre societa’ del gruppo; invero, la deduzione dell’imputato di avere impiegato i beni per finalita’ aziendali “e’ assiomatica e radicalmente contraddetta dall’assenza di riscontri contabili (nei casi in cui le scritture risultano reperite) ovvero dalla mancanza del corredo documentale, perche’ gravemente deficitario, non conferito alle curatele ovvero oggetto di implausibili denunzie di furto (come nel caso del fallimento (OMISSIS) s.r.l.)”.
3.2 Per quanto riguarda il trattamento sanzionatorio, la motivazione e’ nel senso che: all’imputato sono da concedere circostanze attenuanti generiche, in considerazione della distanza temporale dai fatti; tali circostanze sono equivalenti alle contestate circostanze aggravanti, avendo l’imputato “orgogliosamente avocato a se’ le fondamentali scelte finanziarie e gestionali del gruppo”; il reato piu’ grave e’ quello di bancarotta fraudolenta per distrazione di danaro e beni dal patrimonio della (OMISSIS) s.r.l (capo R).; per tale reato e’ confermata la pena di quattro anni di reclusione inflitta con la sentenza di primo grado; tale pena e’ aumentata, ex articolo 81 c.p., di due mesi di reclusione per ciascuno dei delitti rispettivamente indicati nei capi di imputazione A, D G, O, OO, di un mese e quindici giorni per ciascuno dei delitti rispettivamente indicati nei capi di imputazione L, Z, CC, U e di un mese di reclusione per ciascuno dei delitti, rispettivamente indicati nei capi B, E, H, M, P, S, AA, PP.
4. Per la cassazione di tale sentenza (OMISSIS) ha proposto ricorso mediante due atti: il primo, personalmente sottoscritto dal ricorrente, contiene due motivi di impugnazione; il secondo, sottoscritto dal difensore, avvocato (OMISSIS), critica la sentenza per due motivi.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Con il primo motivo contenuto nell’atto dal ricorrente sottoscritto la sentenza impugnata e’ da questi censurata per non avere preso in alcuna considerazione la propria richiesta, avanzata con i motivi di appello, di applicazione di pena (articoli 444 e 448 c.p.p.) non disposta in primo grado in ragione del dissenso manifestato dal pubblico ministero.
1.1 Il motivo, per come formulato, e’ da un lato non autosufficiente (il ricorrente non indica specificamente: quale fosse il contenuto specifico del motivo di appello; quando avrebbe avanzato la proposta di applicazione di pena; quale fosse il contenuto di tale proposta), e dall’altro, non tiene conto che con la sentenza di primo grado il ricorrente venne assolto dalle accuse di avere commesso i reati descritti, rispettivamente, nei capi di imputazione O1.31 e R10 ed altresi’ prosciolto dalle accuse rispettivamente indicate in dispositivo ed in motivazione per essere i reati estinti per prescrizione; con conseguente inefficacia sopravvenuta della proposta di applicazione di pena (avente per oggetto tutti i reati al ricorrente contestati) e, per tale ragione, non sussistenza di obbligo di motivazione sul punto da parte del giudice di appello.
Il motivo e’ dunque inammissibile.
2. Con il primo motivo dell’atto sottoscritto dal difensore il ricorrente deduce che la sentenza ha fatto erronea applicazione della L. Fall., articoli 216, 219 e 223, in quanto: dalla disciplina contenuta nell’articolo 2497 c.c. non deriva l’obbligo per gli amministratori delle societa’ controllate di non conformarsi alle direttive ad essi impartite dagli amministratori della societa’ controllante; tale disciplina ha scalfito in maniera apprezzabile il principio di autonomia economica e soggettiva delle societa’ controllate e collegate, dal momento che l’articolo 2497 c.c., comma 3, nell’attribuire a soci e creditori della controllata il diritto di aggredire, in subordine, il patrimonio della controllante, evidenzia la stretta interferenza, non solo economica, fra controllante e societa’ satellite; tale norma stabilisce una subordinazione dell’interesse sociale della controllata a quello della holding o di altra societa’ del gruppo, a condizione che tale compressione di autonomia sia giustificata dalla quantomeno fondata previsione di vantaggi compensativi derivanti dall’appartenenza al gruppo; quando si e’ in presenza di spostamenti di risorse infragruppo (mediante pagamenti per cassa; mediante fideiussioni o giro di assegni), la fattispecie e’ quella prevista dall’articolo 2634 c.c., in relazione alla L. Fall., articolo 223, comma 2, n. 1), avente natura speciale rispetto al reato di bancarotta fraudolenta per distrazione contestato ad esso ricorrente anche quale titolare del potere di direzione e coordinamento delle societa’ del “(OMISSIS)”; invero, e’ stata riscontrata la sussistenza di atti dispositivi di beni delle societa’ controllate nell’interesse del gruppo, “per il raggiungimento di vantaggi fondatamente prevedibili, quali la trasformazione dell’attivita’ imprenditoriale del settore commerciale all’ingrosso e al dettaglio in industria alberghiera”; gli atti dispositivi hanno assunto un significato diverso dalla volonta’ distrattiva e la Corte di appello ha omesso di considerare che “qualora il saldo finale delle operazioni compiute nella logica di un interesse del gruppo non dovesse essere positivo, il fatto di reato che si riferisca a rapporti economico-finanziari intercorsi fra societa’ appartenenti al medesimo gruppo dovra’ essere inquadrato nella fattispecie di cui all’articolo 2634 c.c. e L. Fall., articolo 223, e saranno punibili sotto il profilo penale, laddove sia emerso nel giudizio di merito il fine del dolo specifico, accompagnato dalla consapevolezza di causare il dissesto della societa’”; erroneamente il giudice di rinvio ha disatteso la richiesta di esso ricorrente di perizia d’ufficio volta a “dimostrare la direzione infragruppo delle disposizioni che hanno causato il dissesto e avrebbe consentito di conoscere in ordine alla chiusura del fallimento e l’eventuale attivo dello stesso”.
2.1 In linea di principio e’ errata in diritto l’affermazione del ricorrente secondo cui “il fenomeno del gruppo di societa’ disciplinato dagli articolo 2497 c.c. e seguenti abbia apprezzabilmente scalfito il principio di autonomia economica e soggettiva delle societa’ collegate”, dal momento che ciascuna societa’ di capitali che sia parte, per effetto di controllo o collegamento, di un gruppo di societa’ di capitali e’ persona giuridica, svolge la propria attivita’ d’impresa (sia pure in maniera coordinata con quelle proprie delle altre societa’) e risponde solo con il proprio patrimonio delle obbligazioni a contenuto patrimoniale solo verso i propri creditori.
Costituisce invero principio di diritto affatto pacifico nella giurisprudenza di legittimita’ quello secondo cui, in funzione della dichiarazione di fallimento di una societa’ inserita in un gruppo, cioe’ in una pluralita’ di societa’ collegate ovvero controllate da un’unica societa’ holding, l’accertamento dello stato di insolvenza deve essere effettuato con esclusivo riferimento alla situazione economica della societa’ medesima, poiche’, nonostante tale collegamento o controllo, ciascuna di dette societa’ conserva propria personalita’ giuridica ed autonoma qualita’ di imprenditore, rispondendo con il proprio patrimonio soltanto dei propri debiti (in questo senso, cfr. per tutte, Cass. civ., 18 novembre 2010, n. 23344).
Si osserva poi che l’articolo 2497 c.c., nel testo attualmente vigente, relativo alla disciplina della responsabilita’ di societa’ o enti, che esercitano attivita’ di direzione e coordinamento di societa’, nei confronti dei soci (per il pregiudizio arrecato alla redditivita’ ed al valore della partecipazione sociale) e dei creditori di queste ultime (per la lesione cagionata all’integrita’ del patrimonio sociale), responsabilita’ esclusa “quando il danno risulta mancante alla luce del risultato complessivo dell’attivita’ di direzione e coordinamento ovvero integralmente eliminato anche a seguito di operazioni a cio’ dirette”, venne introdotto dal Decreto Legislativo n. 6 del 2003, articolo 5 (recante riforma organica della disciplina legale delle societa’ di capitali e delle societa’ cooperative), intitolato “Nuove norme in tema di direzione e coordinamento di societa’”, e non e’ direttamente applicabile al caso di specie in quanto i fatti accertati vennero tutti commessi prima dell’entrata in vigore di tale disposizione di legge formale (avvenuta il 1 gennaio 2004).
Prima dell’entrata in vigore delle norme recate da tale articolo di legge l’esistenza, nell’esperienza economica delle societa’, di significativi rapporti di collegamento di tipo negoziale ovvero di fenomeni di controllo in senso proprio, da cui derivano il compimento di atti ovvero operazioni rilevanti sotto il profilo giuridico, ha formato oggetto di specifica attenzione da parte della giurisprudenza civile di legittimita’ formatasi in tema, rispettivamente: di responsabilita’ degli amministratori di societa’ di capitali per danni cagionati alla societa’ o ai suoi creditori (articoli 2392 e 2394 c.c., previgenti); di effetti del compimento,da parte degli amministratori dotati di poteri di rappresentanza di tali societa’, di atti estranei ai relativi oggetti sociali (articoli 2384 e 2384-bis c.c. previgenti).
Cosi’, in specifico riferimento alla responsabilita’ sociale degli amministratori di societa’ parte di un gruppo per il compimento di atti dannosi al patrimonio sociale, Cass. civ., 24 agosto 2004, n. 16707 ha, con particolare efficacia dimostrativa, cosi’ ricostruito il regime proprio di tale responsabilita’:
“L’autonomia soggettiva e patrimoniale che pur sempre contraddistingue ogni singola societa’ appartenente ad un gruppo impone all’amministratore di perseguire prioritariamente l’interesse della specifica societa’ cui egli e’ preposto; e dunque non gli consente di sacrificarne l’interesse in nome di un diverso interesse che, se pure riconducibile a quello di chi e’ collocato al vertice del gruppo, non assumerebbe alcun rilievo per i soci di minoranza e per i terzi creditori della societa’ controllata.
Cio’ pero’ non esclude affatto la possibilita’ di tener conto di valutazioni afferenti alla conduzione del gruppo nel suo insieme, purche’ non vengano in tal modo pregiudicati ingiustificatamente gli interessi delle singole societa’.
E, nel valutare se un siffatto pregiudizio in concreto sussista, e’ doveroso tener conto che la conduzione di un’impresa di regola non si estrinseca nel compimento di singole operazioni, ciascuna distaccata dalla precedente, bensi’ nella realizzazione di strategie economiche destinate spesso a prender forma e ad assumere significato nel tempo attraverso una molteplicita’ di atti e di comportamenti. Sicche’ e’ perfettamente logico che anche la valutazione di quel che potenzialmente giova, o invece pregiudica, l’interesse della societa’ non possa prescindere da una visione generale: visione in cui si abbia riguardo non soltanto all’effetto patrimoniale immediatamente negativo di un determinato atto di gestione, ma altresi’ agli eventuali riflessi positivi che ne siano eventualmente derivati in conseguenza della partecipazione della singola societa’ ai vantaggi che quell’atto abbia arrecato al gruppo di appartenenza.
In un simile contesto, tuttavia, l’eventualita’ che un atto lesivo del patrimonio della societa’ trovi compensazione nei vantaggi derivanti dall’appartenenza al gruppo non puo’ essere posta in termini meramente ipotetici.
Se si accerta che l’atto non risponde all’interesse diretto della societa’ il cui amministratore lo ha compiuto e che ne e’ scaturito nell’immediato un danno al patrimonio sociale, potra’ ben ammettersi che il medesimo amministratore deduca e dimostri l’esistenza di una realta’ di gruppo alla luce della quale anche quell’atto e’ destinato ad assumere una coloritura diversa e quel pregiudizio a stemperarsi; ma occorre che una tal prova egli la dia.
Non puo’, viceversa, sostenersi – come sembra fare la corte d’appello – che la mera appartenenza della societa’ ad un gruppo renda plausibile l’esistenza dei suddetti “benefici compensativi” e che, pertanto, competa alla societa’ la quale abbia agito contro il proprio amministratore l’onere di dimostrarne l’inesistenza. Viceversa, la societa’ attrice esaurisce il proprio onere probatorio dimostrando l’esistenza di comportamenti dell’amministratore che ledono il patrimonio dell’ente e percio’ appaiono contrari al suo obbligo di perseguire lo specifico interesse sociale. E’ il medesimo amministratore, se del caso, che deve farsi carico di allegare e provare gli ipotizzati benefici indiretti, connessi al vantaggio complessivo del gruppo, e la loro idoneita’ a compensare efficacemente gli effetti immediatamente negativi dell’operazione compiuta”.
Sostanzialmente nello stesso ordine di concetti, ma in riferimento alla questione relativa all’estraneita’ di atto a contenuto negoziale all’oggetto di societa’ parte di un gruppo, Cass. civ., 11 dicembre 2006, n. 26325, ha enunciato il seguente principio di diritto: “l’atto compiuto dagli amministratori in nome della societa’ e’ estraneo all’oggetto sociale se non e’ idoneo in concreto a soddisfare un interesse economico, sia pure mediato ed indiretto, ma giuridicamente rilevante della societa’. Sebbene l’appartenenza al medesimo gruppo societario consenta, in linea di principio, di riconoscere connessioni economiche rilevanti tra gli interessi, formalmente distinti, dei vari soggetti giuridici che compongono il gruppo (si’ da giustificare attivita’ dirette al perseguimento di un interesse che esula da quello proprio e specifico delle singole societa’, inteso in senso stretto, ma vi e’ ricompreso in senso mediato), tuttavia la mera ipotesi della sussistenza di vantaggi compensativi non e’ sufficiente al fine di affermare la legittimita’ dell’atto sul piano dei limiti imposti dall’oggetto sociale, ma l’amministratore ha l’onere di allegare e provare gli ipotizzati benefici indiretti, connessi al vantaggio complessivo del gruppo, e la loro idoneita’ a compensare efficacemente gli effetti immediatamente negativi dell’operazione compiuta” (nello stesso senso, in riferimento a societa’ collegate tra loro in senso economico e dirigenziale, cfr. Cass. civ., 4 agosto 2006, n. 17696).
In definitiva, anche in riferimento alla disciplina del diritto delle societa’ di capitali anteriore alla riforma alla stessa recata dal Decreto Legislativo n. 6 del 2003, l’esistenza di rapporti di controllo ovvero di collegamento fra societa’ non comporta in astratto un vantaggio, derivante dall’appartenenza al gruppo, che compensi il pregiudizio arrecato al patrimonio sociale della societa’ controllata o collegata,da atto dannoso posto in essere dal relativo amministratore ovvero che collochi l’atto a contenuto negoziale da questi posto in essere nei limiti dell’oggetto sociale proprio di tale societa’: l’esistenza in concreto di tale vantaggio, di natura compensativa del pregiudizio sofferto dalla societa’ controllata ovvero collegata, deve essere allegata e provata da parte dell’amministratore che il fatto specifico deduca.
Nello stesso ordine di concetti si e’ collocata la giurisprudenza penale di legittimita’ formatasi in tema di reati fallimentari, chiamata anche a confrontarsi con l’incidenza, sulla disciplina del delitto di bancarotta per distrazione compiuto dall’amministratore della societa’ fallita, dei fatti costitutivi il delitto di infedelta’ patrimoniale introdotto, con la riformulazione dell’articolo 2634 c.c., dal Decreto Legislativo n. 61 del 2002; alla luce, in particolare, del contenuto precettivo della L. Fall., articolo 223, comma 2, n. 1), nel testo risultante dalla modificazione recata dall’articolo 4 dello stesso Decreto Legislativo n. 61 del 2002.
La disposizione da ultimo indicata prevede l’applicazione della pena prevista dalla L. Fall., articolo 216, comma 1 agli amministratori della societa’ fallita che hanno cagionato o concorso a cagionare il dissesto della societa’ fallita commettendo, per quanto qui interessa, taluno dei fatti previsti dall’articolo 2634 c.c..
Tale articolo del codice civile da un lato sanziona il comportamento degli amministratori di societa’ che, avendo un interesse in conflitto con quello sociale, compiono o concorrono a deliberare atti di disposizione dei beni sociali cagionando intenzionalmente alla societa’ un danno patrimoniale (comma 1) e, dall’altro, precisa che “in ogni caso non e’ ingiusto il profitto della societa’ collegata o del gruppo, se compensato da vantaggi, conseguiti o fondatamente prevedibili, derivanti dal collegamento o dall’appartenenza al gruppo” (comma 3).
E’ stato efficacemente evidenziato, quanto al delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione, che il contenuto del comma 3 del novellato articolo 2634 c.c. “conferisce valenza “normativa” a principi gia’ desumibili dal sistema, in punto di necessaria considerazione della reale offensivita’ della condotta tanto gravemente sanzionata dalle norme fallimentari. A conferma della necessita’ di inserire (come e’ stato rilevato dalla dottrina) il rapporto di gruppo “nella lista delle circostanze da ponderare in sede di verifica della sussistenza della condotta tipica di distrazione, non potendo, in materia, l’analisi giuridica andare comunque distinta dall’analisi economica” della vicenda”; sul rilievo, tuttavia che “proprio il fatto che siffatta analisi ha lo scopo di verificare l’offensivita’ in concreto della condotta rende evidente che non e’ sufficiente, al fine di escludere la riconducibilita’ di un’operazione di diminuzione patrimoniale senza apparente corrispettivo ai fatti di distrazione o dissipazione incriminabili, la mera ipotesi della sussistenza di vantaggi compensativi, ma occorre che gli ipotizzati benefici indiretti della fallita risultassero non solo effettivamente connessi ad un vantaggio complessivo del gruppo. ma altresi’ idonei a compensare efficacemente gli effetti immediatamente negativi dell’operazione compiuta: in guisa tale da non renderla capace d’incidere (perlomeno nella ragionevole previsione dell’agente) sulle ragioni dei creditori della societa’” (cosi’, in motivazione, Cass. Sez. 5, n. 36764 del 24 maggio 2006, Bevilacqua, Rv. 234606).
A tale conclusione la giurisprudenza penale di legittimita’ e’ pervenuta dichiaratamente facendo proprie le considerazioni in diritto contenute nella sopra citata Cass. civ., 24 agosto 2004, n. 16707 (le stringenti argomentazioni in diritto contenute in tale sentenza sono sostanzialmente fatte proprie da Cass. Sez. 5, n. 36764 del 24 maggio 2006, Bevilacqua, cit.) quanto ai presupposti di esistenza dei c.d. “vantaggi compensativi” anche prima dell’entrata in vigore del, novellato, articolo 2497 c.c., si’ da determinare il consolidamento del principio secondo cui l’influenza dei collegamenti della societa’ fallita nell’ambito di un gruppo sulla configurabilita’ dei delitti di bancarotta per distrazione deve essere esaminata nel rispetto dell’autonoma tutela dei creditori della societa’ fallita; con la conseguenza che, a fronte della natura oggettivamente distrattiva di una specifica operazione, l’imputato ha l’onere di allegare l’esistenza di uno specifico vantaggio derivante dall’atto di disposizione patrimoniale, complessivamente riferibile al gruppo, che sia soprattutto, produttivo per la societa’ fallita di benefici, sia pure indiretti, in concreto idonei a compensare efficacemente gli effetti immediatamente negativi dell’operazione stessa per la societa’ fallita e per i suoi creditori (in questo senso, cfr., fra le altre: Cass. Sez. 5, n. 46689 del 30 giugno 2016, Coatti, Rv. 268675; Cass. Sez. 5, n. 29036 del 9 maggio 2012, Cecchi Gori, Rv. 253031; Cass. Sez. 5, n. 48518 del 6 ottobre 2011, Plebani, Rv. 251536; Cass. Sez. 5, n. 1137 del 17 dicembre 2008, dep. 2009, Vianello, Rv. 242546; Sez. 5, n. 41293 del 25 settembre 2008, Mosca, Rv.241599).
In tale ordine di concetti, il motivo, per come dal ricorrente dedotto, e’ manifestamente infondato (e per tale ragione inammissibile: articolo 606 c.p.p., comma 3), non assumendo neppure in questa sede il ricorrente di avere specificamente dedotto nei motivi di appello – come correttamente evidenziato dalla sentenza impugnata – in cosa siano consistiti gli affermati vantaggi, derivanti dall’appartenenza delle societa’ fallite al medesimo gruppo, concretamente compensativi dei pregiudizi patrimoniali derivati ai loro rispettivi patrimoni, costituenti garanzia per i creditori sociali, dagli atti distrattivi, alla cui commissione concorse il ricorrente, su di essi rispettivamente incidenti in senso negativo.
3. Con il secondo motivo dell’atto da lui personalmente sottoscritto il ricorrente censura la sentenza nella parte relativa alla misura della pena, avendo il giudice di appello, una volta neutralizzata la circostanza aggravante di cui alla L. Fall., articolo 219 per effetto delle concesse circostanze attenuanti generiche, confermato la misura, rispettiva, della pena di base e dei singoli aumenti disposta dal giudice di primo grado, senza dar conto delle censure sul punto mosse da esso ricorrente nei motivi di appello; in particolare riferite all’assenza di motivazione fondante tanto la misura della pena c.d. “di base” che quella relativa a ciascun reato c.d. “satellite”.
Con il secondo motivo dell’atto sottoscritto dal difensore del ricorrente la sentenza e’ criticata per avere ritenuto le concesse circostanze attenuanti generiche solo equivalenti alle contestate circostanze aggravanti, irragionevolmente distinguendo la posizione di esso ricorrente da quella degli altri coimputati (per i quali il giudizio e’ stato di prevalenza delle circostanze attenuanti generiche sulle contestate aggravanti), sul solo rilievo che esso ricorrente avrebbe “orgogliosamente avocato a se’ le fondamentali scelte finanziarie e gestionali del gruppo”; con cio’, inspiegabilmente, scambiando uno spontaneo atteggiamento confessorio con una sorta di “rivendicazione narcisistica di paternita’”.
3.1 I due motivi, fra di loro strettamente connessi, sono manifestamente infondati e, per tale ragione, inammissibili (articolo 606 c.p.p., comma 3).
In linea di principio e’ da ribadire il principio secondo cui, in ragione del carattere globale del giudizio di bilanciamento fra circostanze eterogenee il giudice di merito non e’ tenuto a specificare le ragioni che hanno indotto a dichiarare la equivalenza piuttosto che la prevalenza, a meno che non vi sia stata una specifica richiesta della parte, con indicazione di elementi di fatto di consistenza tale da legittimare la richiesta stessa (in questo senso, cfr. Cass. Sez. 7, n. 11210 del 20 ottobre 2017, dep. 2018, Z. Rv. 272460).
Tenuto presente tale ordine di concetti, e’ peraltro da evidenziare che la sentenza impugnata motiva il giudizio di equivalenza’ da essa espresso sul rilievo che il ricorrente aveva avocato a se’ le decisioni di gestione delle societa’ parte del gruppo; in tal guisa implicitamente sottolineando il ruolo di primo piano assunto dal ricorrente nella commissione di tutti i delitti, mentre per gli altri imputati appellanti il giudizio di prevalenza fra circostanze e’ espresso “in considerazione del ruolo comunque gradato ricoperto nelle vicende decettive”. Sotto altro, e concorrente, profilo il ricorrente non deduce in questa sede quali fossero gli elementi di fatto da lui indicati nei motivi di appello alla base della richiesta di un giudizio di bilanciamento fra circostanze a lui piu’ favorevole.
Quanto alla misura della pena, la sentenza impugnata, dopo avere preso atto che la sentenza di primo grado aveva ritenuto sussistenti i presupposti di applicazione dell’articolo 81 c.p., comma 2, determina la pena in misura pari a sei anni di reclusione (pena di base di quattro anni di reclusione per il piu’ grave delitto di cui al capo R, aumentata di due mesi di reclusione per ciascuno dei delitti rispettivamente indicati nei capi di imputazione A, D G, O, OO, di un mese e quindici giorni per ciascuno dei delitti rispettivamente indicati nei capi di imputazione L, Z, CC, U e di un mese di reclusione per ciascuno dei delitti 51(rispettivamente indicati nei capi B, E, H, M, P, S, AA, PP); e cio’, dopo avere rimarcato, nella parte relativa alla concessione delle circostanze attenuanti generiche, “l’indubbia gravita’ dei fatti a giudizio, l’enorme nocumento cagionato ai creditori attestato dall’entita’ delle insinuazioni ai passivi fallimentari, la spiccata intensita’ del dolo dimostrata da tutti i prevenuti”.
Contrariamente a quanto dedotto dal ricorrente, affatto congrua e’ dunque la motivazione alla base della determinazione della misura della pena di base.
Nessun obbligo di motivazione specifica quanto alle rispettive misure dei singoli aumenti di pena (di modesta consistenza) per ciascuno dei c.d. “reati satellite” sussiste poi per il giudice di merito, essendo sufficiente che siano indicate le ragioni a sostegno della quantificazione della pena di base (in questo senso, cfr., per tutte: Cass. Sez. 2, Sez. 2, n. 18944 del 22 marzo 2017, Innocenti, Rv. 270361; Cass. Sez. 3, n. 44931 del 2 dicembre 2016, dep. 2017, Portulesi, Rv. 271787).
4. In conclusione, il ricorso e’ inammissibile.
Tale accertamento non consente che la prescrizione eventualmente maturata dopo il giorno di emissione della sentenza impugnata possa essere officiosamente rilevata, in applicazione dell’articolo 129 c.p.p. e articolo 609 c.p.p., comma 2, (giurisprudenza di legittimita’ costante a partire da Cass. S.U. n. 32 del 22 novembre 2000, D.L., Rv. 217266; nel senso, inoltre, che l’inammissibilita’ del ricorso per cassazione preclude la possibilita’ di far valere, ovvero di rilevare di ufficio, l’estinzione del reato per prescrizione maturata in data anteriore alla pronunzia della sentenza di appello, ma dalla parte non dedotta ne’ dal giudice dell’impugnazione di merito rilevata, la giurisprudenza di legittimita’ e’ del pari costante a partire da Cass. S.U., n. 23428 del 22 marzo 2005, Bracale, Rv. 231164).
Dalla inammissibilita’ del ricorso derivano poi la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali relative al giudizio di legittimita’ e, in mancanza di elementi atti ad escludere la colpa nella determinazione della causa di inammissibilita’ (Corte Cost. sent. n. 186 del 2000), al versamento di una somma di danaro alla Cassa delle ammende che stimasi equo determinare nella misura di duemila Euro (articolo 616 c.p.p.).

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro duemila in favore della Cassa delle ammende.

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