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Suprema Corte di Cassazione

sezione VI

sentenza  4 giugno 2014, n. 23352

Ritenuto in fatto

1. È impugnata la sentenza del 18/04/2011 con la quale la Corte d’appello di Venezia ha confermato, in punto di responsabilità dell’imputato e di qualificazione giuridica del fatto, la decisione in data 22/04/2009 del Tribunale di Verona, assunta in esito a giudizio condotto nelle forme ordinarie.
Con tale decisione, M.G. era stato dichiarato colpevole del delitto di cui all’art. 314, comma 1, cod. pen., perché, nella propria qualità di dipendente di un Istituto scolastico con la qualifica di collaboratore, in servizio per due giorni presso una Scuola elementare (8-10/10/2005), avendo la disponibilità di un computer installato per ragioni del servizio, si appropriava dell’energia necessaria per realizzare connessioni internet a siti a pagamento. Era accaduto, in sostanza, che il giorno 8 ottobre, mentre M. si trovava nella Scuola in sostituzione di un collaboratore assente, il computer installato presso una sala comune era stato utilizzato, per circa due ore al mattino e per un’ora al pomeriggio, in guisa da realizzare 53 accessi a siti internet, per una spesa complessiva – come successivamente fatturata dalla società di telefonia all’istituto scolastico – di circa 660 Euro.
1.1. Il fatto era stato accertato la mattina del 10 ottobre, allorquando una impiegata aveva avviato il computer, constatando l’apertura in sequenza di connessioni a siti di contenuto pornografico, che aveva potuto arrestare solo spegnendo la macchina. Il 12 ottobre la polizia giudiziaria aveva direttamente constatato e documentato il fenomeno (mediante immagini dello schermo e stampe), affidando poi il computer ad un ausiliario, il quale aveva copiato su supporto digitale le immagini concernenti le connessioni ed il contenuto dei siti, ed in seguito, su richiesta delle autorità scolastiche, aveva formattato il disco rigido della macchina.
I sospetti si erano concentrati sul M. , il quale era stato interpellato dal dirigente scolastico, ammettendo – secondo quanto poi riferito dallo stesso dirigente – che aveva operato un accesso personale ad internet, non riuscendo poi a fermare una serie di connessioni automatiche, ed impegnandosi a pagare la bolletta del gestore di telefonia (promessa poi non mantenuta).
1.2. In esito al giudizio di primo grado, nel cui ambito era già stata spiegata gran parte degli argomenti posti a sostegno dell’odierno ricorso, M. era stato condannato alla pena di due anni di reclusione, interamente condonata, nonché alla interdizione temporanea dai pubblici uffici.
Proposto appello dal difensore con numerosi motivi, la Corte territoriale ha respinto le varie eccezioni di inutilizzabilità delle prove valutate dal primo giudice, disattendendo anche gli argomenti relativi al merito dell’imputazione, limitandosi a riconoscere le attenuanti generiche e ad operare una conseguente diminuzione delle pene principale ed accessoria, fino alla durata di un anno e sei mesi.
2. Propone personalmente ricorso l’imputato, prospettando censure varie che vengono ricondotte a cinque motivi essenziali di impugnazione.
2.1. Con un primo motivo, proposto in base alle lettere b) ed e) del comma 1 dell’art. 606 cod. proc. pen., si denunciano la violazione dell’art. 314 cod. pen e, comunque, un vizio di motivazione in ordine alla sussistenza del fatto.
In sintesi, non costituirebbe peculato un comportamento occasionale, produttivo di un danno insignificante sul piano patrimoniale, avente ad oggetto un quid non riconducibile al concetto di cosa mobile o di energia elettrica, non comprovatamente attinente ad un utilizzo della rete internet per fini non istituzionali (argomento connesso alla dedotta inutilizzabilità di tutta la documentazione pertinente alle connessioni instaurate). Un collaboratore scolastico, d’altra parte, non potrebbe considerarsi incaricato di pubblico servizio e, alla luce delle sue mansioni (sostanzialmente quelle di un bidello), non avrebbe disponibilità di un computer “per ragioni di servizio”.
2.2. Con un secondo motivo, a norma dell’art. 606, comma 1, lettera e), cod. proc. pen., si denuncia violazione dell’art. 429, commi 1, lettera c) e 2, dello stesso codice.
L’imputazione formalizzata con il decreto di rinvio a giudizio sarebbe imprecisa, non chiarendo a quale “energia” di sarebbe riferita la condotta appropriativa, con conseguente nullità dell’atto introduttivo del giudizio, denunciata sia in apertura del dibattimento di primo grado che coi motivi di appello.
2.3. Viene eccepita, in rapporto all’utilizzazione della documentazione predisposta dall’ausiliario della polizia giudiziaria prima della formattazione del computer, e della successiva sua testimonianza, la violazione degli artt. 191, 354, 360 e 512 cod. proc. pen., nonché dell’art. 117 delle relative disposizioni di attuazione.
Come anticipato, l’ausiliario si era limitato ad effettuare alcuni screen-shot ed a copiare dati individuati a sua discrezione, invece che procedere secondo la procedura prescritta dal novellato comma 2 dell’art. 354 cod. proc. pen., e dunque procedere alla c.d. clonazione dell’hard disk del computer. Trattandosi poi di accertamenti irripetibili, avrebbero dovuto comunque essere attivate le corrispondenti garanzie per la difesa. Né l’irripetibilità potrebbe considerarsi sopravvenuta a norma dell’art. 512 cod. proc. pen., posto che la formattazione del computer era stata effettuata volontariamente e con il consenso della stessa autorità inquirente.
2.4. Analoga eccezione di inutilizzabilità, in rapporto alla violazione degli artt. 191 e 62 cod. proc. pen., e 220 disp. att., viene proposta dal ricorrente con riferimento alla testimonianza indiretta del già citato dirigente scolastico.
Il Giudice di appello ha escluso che, al momento del colloquio con il M. , questi avesse assunto la veste di persona indagata a fini disciplinari. L’assunto sarebbe contraddetto dalle risultanze, dovendosi per altro aver riguardo alla posizione sostanziale dell’interessato, e non alla sua veste formale.
2.5. Con ultimo motivo, segnato da diffusa analisi delle risultanze processuali e della loro concludenza, il ricorrente denuncia mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione del provvedimento impugnato, nella parte in cui addebita al ricorrente la condotta di indebita utilizzazione del computer.
3. In data 23/09/2013 il Difensore dell’imputato ha depositato memoria ex art. 121 cod. proc. pen., assumendo in sostanza – in rapporto al decisum delle Sezioni unite penali circa la qualificazione giuridica dell’abuso di apparati telefonici da parte dei pubblici dipendenti (sentenza n. 19054/2012) – che il fatto ascritto al M. dovrebbe essere riqualificato come peculato d’uso, a norma dell’art. 314, comma 2, cod. proc. pen. Con la conseguenza che, trattandosi di autonoma fattispecie di reato, il termine prescrizionale dovrebbe considerarsi ormai decorso.

Considerato in diritto

1. È fondata la tesi espressa dal Difensore del ricorrente con la memoria recentemente depositata (supra, p.3), e cioè che il reato in contestazione deve essere considerato ormai estinto per intervenuta prescrizione.
L’effetto si connette ad una corretta qualificazione giuridica del fatto, in termini di “peculato d’uso”, per le ragioni che di seguito saranno indicate.
Lo stesso Difensore assume che resterebbero “assorbiti” gli originari motivi di ricorso. In realtà, ed a parte i presupposti per una ipotetica sussistenza delle condizioni di cui al comma 2 dell’art. 129 cod. proc. pen., va rilevato che la maturazione del termine prescrizionale è intervenuta in epoca successiva alla pronuncia della sentenza impugnata. V’è dunque la necessità di verificare che il ricorso qui in esame sia stato proposto in base a motivi consentiti dalla legge e non manifestamente infondati, che altrimenti dovrebbe dichiararsene l’inammissibilità, così come richiesto in udienza dal Procuratore generale.
2. Si è visto che il fatto in contestazione consiste nell’abuso di un computer con connessione internet che il M. avrebbe avuto a disposizione nell’ottobre del 2005, trovandosi nell’edificio che ospitava l’apparecchio in qualità di supplente del collaboratore scolastico usualmente addetto al servizio.
Il tema della qualificazione giuridica da conferirsi all’uso di un mezzo di comunicazione del quale l’agente pubblico abbia il possesso per ragioni dell’ufficio o del servizio è stato prevalentemente affrontato con riguardo all’effettuazione di chiamate telefoniche per ragioni personali. Si ammette, per altro, che il problema si pone in termini analoghi quanto all’abuso della connessione internet utilizzata mediante un computer: anche in questo caso viene sfruttato un apparecchio di proprietà pubblica connesso ad una linea digitale per la cui utilizzazione il fornitore del servizio riscuote un compenso, calcolato a consumo o forfettariamente; anche in questo caso, l’apparecchio viene “restituito” alla destinazione propria nel momento in cui ne cessa l’uso per finalità improprie, senza che altrettanto possa avvenire per l’energia utilizzata, e per la somma di successivo ed eventuale addebito (per l’analogia di qualificazione tra abuso del telefono e abuso della connessione internet di un computer si veda Sez. 6, Sentenza n. 34524 del 02/07/2013, rv. 255810; la stessa analogia era stata già prospettata, per altro, nella decisione delle Sezioni unite di cui appresso).
In relazione all’abuso di linee e apparecchi telefonici, com’è noto, le Sezioni unite di questa Corte hanno indicato nel comma 2 dell’art. 314 cod. pen., e dunque nel c.d. “peculato d’uso”, la norma incriminatrice correttamente applicabile: “la condotta del pubblico ufficiale o dell’incaricato di un pubblico servizio che utilizzi il telefono d’ufficio per fini personali al di fuori dei casi d’urgenza o di specifiche e legittime autorizzazioni, integra il reato di peculato d’uso se produce un danno apprezzabile al patrimonio della P.A. o di terzi, ovvero una lesione concreta alla funzionalità dell’ufficio, mentre deve ritenersi penalmente irrilevante se non presenta conseguenze economicamente e funzionalmente significative” (Sez. U, Sentenza n. 19054 del 20/12/2012, Vattani, rv. 255296).
Di particolare rilievo, in un caso come quello di specie, ove l’abuso dello strumento comunicativo ha implicato un rilevante addebito da parte della società fornitrice del servizio, è l’individuazione dei profili rilevanti del fatto, nell’economia della fattispecie di peculato. Le Sezioni unite hanno valutato se l’oggetto della appropriazione definitiva, rilevante ai sensi del comma 1 dell’art. 314 cod. pen., non debba individuarsi nelle somme al cui esborso l’indebito uso del telefono d’ufficio espone la pubblica amministrazione. Ma la costruzione è stata ritenuta “non accettabile”, giacché “posticipa artificialmente il vantaggio, che il pubblico agente ritrae immediatamente dalla sua indebita condotta, al momento successivo […] in cui la pubblica amministrazione ne sostiene l’onere economico. Le somme di cui si discute non sono certamente oggetto di previo possesso in capo all’infedele funzionario, né il loro esborso è ricollegabile a un suo potere giuridico di disposizione, ma è solo la oggettiva conseguenza di una condotta fattuale che si inserisce nel vincolo esistente fra la pubblica amministrazione e il gestore di telefonia”.
Posta la già riscontrata analogia tra il caso del telefono e quello del computer, si constata quindi la correttezza dell’imputazione elevata contro il M. , nella parte in cui designa quale oggetto dell’appropriazione “l’energia necessaria per l’effettuazione di numerosi collegamenti via internet a siti a pagamento”.
Al tempo stesso, e per altro, deve constatarsi che erroneamente il fatto è stato qualificato a norma dell’art. 314, comma 1, cod. pen., trattandosi piuttosto di un “peculato d’uso”, proprio per le ragioni ampiamente indicate dalle Sezioni unite con riguardo all’abuso del telefono (per una conforme applicazione del principio all’utilizzazione indebita della connessione internet si veda la già citata sentenza n. 34524/2013).
3. L’ipotesi delineata dal comma 2 dell’art. 314 cod. pen. non costituisce una fattispecie diminuente della figura “ordinaria” di peculato, ma un’autonoma previsione di reato (Sez. 6, Sentenza n. 6094 del 27/01/1994, rv. 199187; Sez. 6, Sentenza n. 46244 del 15/11/2012, rv. 254286).
Da ciò consegue l’autonoma determinazione del tempo necessario per la prescrizione, che resta fissato, al lordo della proroga, in sette anni e sei mesi (art. 157, comma 1, cod. pen.).
Nel caso di specie, nell’assenza di rilevanti periodi di sospensione della decorrenza, detto termine può considerarsi spirato nell’aprile 2013, in epoca di molto successiva alla pronuncia della sentenza d’appello.
Si pongono dunque le condizioni per una decisione di annullamento senza rinvio del provvedimento impugnato, visto che non ricorre l’ipotesi dell’art. 129, comma 2, cod. proc. pen., e considerata d’altra parte l’ammissibilità del ricorso.
3.1. In punto di sussistenza del fatto, e di responsabilità dell’odierno ricorrente per il medesimo, non può certo definirsi mancante del tutto la prova a carico del M. . E ciò, si noti, a prescindere dagli accertamenti “tecnici” della cui regolarità si fa questione nei motivi di ricorso o dalla testimonianza del preside della scuola sulle ammissioni che M. avrebbe compiuto alla sua presenza.
La sentenza di primo grado, ripresa e confermata sul punto da quella di appello, enuncia una serie di risultanze: la presenza del M. nell’edificio scolastico alla data delle connessioni, e l’uso del computer da parte sua (constatato dalla teste P. ); l’abitudine dei collaboratori scolastici (M. sostituiva il titolare dell’incarico, assente per malattia) di stazionare nella sala ove si trova anche il menzionato computer; la disponibilità sostanzialmente esclusiva delle chiavi dell’edificio da parte del M. nel pomeriggio di sabato durante il quale erano state effettuate parte delle connessioni.
D’altra parte, il fatto obiettivo delle connessioni a pagamento è stato riscontrato – a prescindere dalle approssimative indagini “tecniche” successivamente attuate – dal personale scolastico che aveva riavviato il computer dopo la pausa domenicale, ed aveva constatato appunto la sequenza dei collegamenti, informandone poi la polizia giudiziaria.
Nella prospettiva di valutazione segnata dall’art. 129 cod. proc. pen., e come del resto sostanzialmente ammesso dalla stessa Difesa con la memoria depositata di recente, non può dirsi evidente che il fatto non sussiste o che l’imputato non l’ha commesso.
La qualifica di incaricato di pubblico servizio in capo al M. , nel momento in cui avrebbe abusato del computer e della relativa connessione, è certamente corretta. In relazione alla analoga figura del “bidello”, questa Corte ha osservato che lo stesso, “accanto a prestazioni di carattere meramente materiale, che sono la maggioranza, svolge anche mansioni di vigilanza, sorveglianza degli alunni, guardiania e custodia dei locali, che non si esauriscono nell’espletamento di un lavoro meramente manuale, ma che, implicando conoscenza e applicazione delle relative normative scolastiche sia pure a livello esecutivo, presentano aspetti collaborativi, complementari e integrativi delle funzioni pubbliche devolute ai capi di istituto e agli insegnanti in materia di sicurezza, ordine e disciplina all’interno dell’area scolastica. Nei limiti di queste ultime incombenze, compete ai bidelli la qualifica di incaricati di un pubblico servizio” (Sez. 6, Sentenza n. 5543 del 07/03/2000, rv. 220523; nello stesso senso, più recentemente, Sez. 3, Sentenza n. 21934 del 24/04/2008, rv. 240052).
Neppure potrebbe dirsi, d’altra parte, che il possesso della cosa posta temporaneamente ad oggetto di appropriazione, ad opera del M. , fosse indipendente dalle ragioni di servizio. Tale possesso “non deve necessariamente rientrare nel novero delle specifiche competenze o attribuzioni connesse con la […] posizione gerarchica o funzionale, essendo sufficiente che esso sia frutto anche di occasionale coincidenza con la funzione esercitata o con il servizio prestato” (Sez. 6, Sentenza n. 17920 del 11/03/2003, rv. 227140; in seguito, nello stesso senso, Sez. 1, Sentenza n. 9179 del 17/01/2008, rv. 239502; Sez. 6, Sentenza n. 34489 del 30/01/2013, rv. 256120; Sez. 6, Sentenza n. 34490 del 12/03/2013, rv. 255799).
3.2. In punto di ammissibilità del ricorso va notato come, se alcuni dei motivi potrebbero considerarsi pertinenti al merito (e dunque diversi da quelli consentiti nella sede di legittimità) o manifestamente infondati, analogo giudizio non possa essere formulato per le questioni poste riguardo alle procedure di acquisizione della prova e di utilizzabilità della prova medesima.
Si allude alla testimonianza indiretta del preside della scuola coinvolta nei fatti (che il ricorrente assume inutilizzabile in connessione al disposto dell’art. 220 disp. att. cod. proc. pen. ed all’asserita natura ispettiva-disciplinare del colloquio intrattenuto con il M. ) e, comunque, alla prospettata elusione, riguardo agli accertamenti effettuati sul computer, delle procedure e delle garanzie specifiche stabilite dal comma 2 dell’art. 354 cod. proc. pen., nel testo riformato dalla legge n. 48/2008.
È appena il caso di notare che non si discute qui del fondamento delle questioni, e men che meno delle implicazioni che il loro parziale o completo accoglimento avrebbe sortito sulla decisione del ricorso, ma solo della loro natura (attinente ad ipotetice violazioni della legge processuale) ed alla loro consistenza, non tale da legittimare una valutazione di infondatezza tanto manifesta da implicare una pendenza solo formale del giudizio di legittimità nel momento di maturazione del termine prescrizionale.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il reato è estinto per prescrizione.

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