La cessione volontaria di cui all’art. 12 della legge n. 865 del 1971

Consiglio di Stato, sezione quarta, Sentenza 30 ottobre 2019, n. 7445.

La massima estrapolata:

La cessione volontaria di cui all’art. 12 della legge n. 865 del 1971 costituisce invero un contratto ad oggetto pubblico i cui elementi costituitivi, indispensabili per differenziarla da un normale contratto di compravendita di diritto privato, sono: a) l’inserimento del negozio nell’ambito di un procedimento di espropriazione per pubblica utilità, nel cui contesto la cessione assolve alla peculiare funzione dell’acquisizione del bene da parte dell’espropriante, quale strumento alternativo all’ablazione d’autorità mediante decreto di esproprio; b) la preesistenza non solo di una dichiarazione di pubblica utilità ancora efficace, ma anche di un subprocedimento di determinazione dell’indennità e delle relative offerte ed accettazione, con la sequenza e le modalità previste dall’art. 12 della legge n. 865 del 1971; c) il prezzo di trasferimento volontario correlato ai parametri di legge stabiliti, inderogabilmente, per la determinazione dell’indennità di espropriazione. Ne consegue che, ove non siano riscontrabili tutti i requisiti sopra indicati, non potendosi escludere che l’amministrazione abbia inteso perseguire una finalità di pubblico interesse tramite un ordinario contratto di compravendita, al negozio traslativo non possono collegarsi gli effetti tipici della cessione volontaria disciplinata dall’art. 12 della legge n. 865 del 1971, ossia l’estinzione dei diritti reali o personali gravanti sul bene acquisito dall’amministrazione

Sentenza 30 ottobre 2019, n. 7445

Data udienza 17 ottobre 2019

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Quarta
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 8227 del 2011, proposto da
Ag. Ve. S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Pr. Mi. e Sa. Di Ma., con domicilio eletto presso lo studio di quest’ultimo, sito in Roma, via (…);
contro
Regione Veneto, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via (…);
Comune di (omissis), in persona del legale rappresentante pro-tempore, non costituito in giudizio;
per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto Sezione Prima n. 469 del 21 marzo 2011, resa tra le parti, concernente diniego di dichiarazione di inservibilità all’opera pubblica dei fondi acquisiti dal Comune di (omissis) per la realizzazione di un piano d’insediamenti produttivi.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio della Regione Veneto;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 17 ottobre 2019 il Cons. Giuseppe Chinè e uditi per le parti gli avvocati Pr. Mi. e l’Avvocato dello Stato Al. Pe.;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO

1. Con la sentenza in epigrafe impugnata n. 469 del 21 marzo 2011 il Tribunale amministrativo regionale per il Veneto dichiarava inammissibile il ricorso, proposto dalla odierna appellante, teso ad ottenere l’annullamento del decreto del Presidente della Giunta Regionale del Veneto, n. 619 del 21 aprile 1998, recante il rigetto dell’istanza di dichiarazione di inservibilità all’opera pubblica dei fondi acquisiti dal Comune di (omissis) per la realizzazione di un piano di insediamenti produttivi.
2. La odierna appellante, a sostegno del gravame dinanzi al T.A.R., deduceva:
– di aver ceduto bonariamente, con atto notarile in data 18.04.1975, rep. 32985, al Comune di (omissis) un fondo della superficie catastale complessiva pari a mq. 138.878 sito nel territorio del citato Comune;
– che il fondo in questione era stato inserito, dall’allora vigente Piano di Fabbricazione, in zona a destinazione industriale/artigianale da attuarsi mediante piano d’insediamenti produttivi (p.i.p.) con lo strumento obbligatorio dell’esproprio;
– che il Comune di (omissis), dopo aver acquisito la proprietà del fondo, approvava il progetto di lottizzazione industriale con delibera consiliare n. 218 del 28.04.1975 e dava conseguentemente seguito a minimali lavori di urbanizzazione;
– che nel decennio di efficacia dell’approvato piano attuativo ex art. 27, comma 3 della legge n. 865 del 1971 il Comune non utilizzava l’area ad insediamenti produttivi, di talché essa ricorrente adiva il Tribunale di Rovigo per ottenere la retrocessione dell’immobile ceduto ai sensi dell’art. 63 della legge n. 2359 del 1865;
– il Tribunale di Rovigo, con la sentenza n. 306 del 3.04.1991, accoglieva la domanda della ricorrente, ma tale decisione veniva radicalmente riformata dalla Corte di Appello di Venezia con la sentenza n. 1111 del 5.10.1995, secondo cui non sussistevano nella specie i presupposti in fatto ed in diritto per fare applicazione del citato art. 63, in quanto l’opera pubblica risultava essere stata “realizzata nelle sue strutture essenziali”, sebbene soltanto mediante l’utilizzo di una parte minimale dei terreni a suo tempo individuati come necessari (soltanto 57 mila mq. dei 138 mila mq. complessivi);
– sulla falsariga della decisione della Corte di Appello, la ricorrente invitava il Comune di (omissis) a provvedere, ex art. 61, comma 1, l. n. 2359 del 1865, alla pubblicazione dell’avviso di inservibilità della parte inutilizzata del fondo;
– a fronte dell’inerzia del Comune, la ricorrente, in data 12.12.1997, diffidava la Regione Veneto ad emanare l’invocato decreto d’inservibilità in sostituzione del Comune inadempiente;
– con il decreto n. 619 del 21.04.1998, il Presidente della Giunta Regionale del Veneto rigettava l’istanza per carenza dei presupposti di legge, in quanto alla data della domanda della ricorrente i lavori di attuazione del p.i.p. risultavano ormai completati, come si poteva desumere dalla delibera di Consiglio comunale n. 38 del 28.02.1989 di approvazione del progetto esecutivo di completamento del I° stralcio del p.i.p. e di realizzazione delle opere del II° stralcio, nonché dalla delibera di Giunta municipale n. 632 del 23.08.1989 di aggiudicazione dei relativi lavori.
Tale decreto, ad avviso della ricorrente, veniva emanato in violazione della disciplina della retrocessione quale risultante dagli artt. 60 ss. della legge n. 2359 del 1865, in quanto i fondi ceduti al Comune di (omissis), per quanto accertato dalla Corte di Appello di Venezia, soltanto in parte erano stati utilizzati per la realizzazione dell’opera pubblica, dovendosi ritenere illegittima qualsiasi ulteriore utilizzazione avvenuta dopo la decorrenza del termine decennale dalla dichiarazione di pubblica utilità .
3. Accogliendo una specifica eccezione formulata dalla Regione Veneto, il T.A.R. accertava l’assenza in capo alla ricorrente della legittimazione ad impugnare il decreto del Presidente della Giunta Regionale del Veneto, non sussistendo nella specie i presupposti per la retrocessione dei beni, e ciò in quanto “risulta dagli atti depositati in giudizio che la dichiarazione di pubblica utilità dell’intervento progettato dall’amministrazione comunale è intervenuta successivamente all’atto con il quale l’odierna ricorrente ha ceduto la proprietà dei terreni necessari a favore dell’amministrazione comunale, di modo che il trasferimento della proprietà risulta conseguente ad un atto di compravendita di diritto privato e non per effetto della cessione bonaria cosi come disciplinata dall’art. 12 della legge n. 865/71” (pagg. 9-10). Di qui la declaratoria di inammissibilità del proposto gravame.
4. Avverso la predetta decisione, l’originaria ricorrente, odierna appellante, ha articolato i seguenti motivi di appello:
1) Violazione e/o falsa applicazione degli artt. 7, comma 1, e 35, comma 1, lett. b), c.p.a.; violazione degli artt. 12 l. n. 865/1971 e 60-63 l. n. 2359/1865, interpretati alla luce del principio di strumentalità delle forme, di cui all’art. 156 c.p.c. e dell’art. 3, comma 1, Cost. Ad avviso dell’appellante, il T.A.R. avrebbe innanzitutto errato nell’emettere una pronuncia in rito, in quanto nel caso di specie, al di là della qualificazione del contratto di trasferimento delle aree del 18.04.1975 come tipica cessione volontaria ex art. 12 l. n. 865 del 1971, la ricorrente in primo grado era titolare di una posizione di interesse legittimo, azionabile dinanzi al giudice amministrativo; nel merito, avrebbe dovuto riconoscere la piena equipollenza, sul piano giuridico ed effettuale, del citato contratto di trasferimento delle aree al contratto di cui all’art. 12 l. n. 865 del 1971;
2) Violazione e/o falsa applicazione dell’art. 35, comma 1, c.p.a.; violazione del divieto di motivazione c.d. postuma del provvedimento amministrativo, come enucleato dal combinato disposto dell’art. 3 l. n. 241 del 1990 e degli artt. 24, commi 1 e 2 e 97, primo comma Cost. La Regione Veneto, con le proprie difese articolate dinanzi al T.A.R. e, segnatamente, con l’eccezione di inammissibilità del gravame proposta dall’Avvocatura dello Stato, avrebbe violato il divieto di integrazione postuma della motivazione del provvedimento amministrativo impugnato, e ciò in quanto il decreto impugnato non menziona nel suo apparato motivazionale il motivo di rigetto dell’istanza basato sulla non riconducibilità del contratto del 18.04.1975 all’istituto pubblicistico della cessione volontaria.
Riproponeva, altresì, per l’ipotesi di riforma in grado di appello della declaratoria di inammissibilità del ricorso di primo grado, tutte le censure già formulate con l’originario gravame e ritenute assorbite dal T.A.R.
5. La Regione Veneto, costituitasi in giudizio per il tramite dell’Avvocatura Generale dello Stato con memoria difensiva del 9.12.2011, ha dedotto l’infondatezza dell’appello e ne ha chiesto la integrale reiezione.
6. Sia appellante che la Regione Veneto hanno depositato ulteriori memorie illustrative e di replica alle deduzioni ed eccezioni di controparte.
7. Alla udienza pubblica del 17 ottobre 2019 l’appello è stato discusso e trattenuto per la decisione.

DIRITTO

1. L’appello è infondato e va pertanto respinto, nei termini di seguito precisati.
2.1 Con il primo motivo di appello, l’appellante, censurando formalmente il dispositivo della pronuncia in rito resa dal T.A.R., denuncia nella sostanza l’errore in cui sarebbe incorso il giudicante di primo grado per non aver assimilato il contratto di trasferimento di fondi del 18.04.1975, rep. 32985, ad una cessione volontaria ex art. 12 della legge n. 865 del 1971.
Argomentando dal principio di strumentalità delle forme di cui all’art. 156, comma 3, c.p.c., l’appellante deduce che la non riconducibilità di un atto entro un determinato schema giuridico è determinata soltanto dalla mancanza di quegli elementi o requisiti che impediscano il raggiungimento dello scopo al quale esso è per legge preordinato: pertanto, con riferimento alla fattispecie in esame, la vis expansiva e la cogenza di detto principio generale, in quanto diretto corollario dei canoni costituzionali di uguaglianza formale e di buona amministrazione, imporrebbero di assimilare all’istituto della cessione volontaria ex art. 12 della legge n. 865 del 1971, sul piano della natura, degli effetti e della disciplina, tutte le tipologie di accordi tra privati ed amministrazioni pubbliche che, a prescindere dal momento storico in cui intervengono, presentino i seguenti caratteri: a) producano l’effetto reale del trasferimento della proprietà piena ed esclusiva di beni immobili dal privato all’amministrazione; b) siano caratterizzati da un “elemento funzionale espresso”, ovvero dalla volontà delle parti di procedere al trasferimento al preciso scopo di destinare gli immobili alla realizzazione di un’opera pubblica; c) il corrispettivo della cessione sia commisurato alla indennità di esproprio, addizionata della maggiorazione di legge (ex art. 12, comma 1, l. n. 865 del 1971). Ne conseguirebbe, ad avviso dell’appellante, che il contratto di trasferimento immobiliare del 18.04.1975, presentando tutti i citati requisiti, avrebbe dovuto essere considerato dal T.A.R. pienamente assimilabile, sul piano sostanziale, alla cessione volontaria di cui all’art. 12 della legge n. 865 del 1971. Di qui l’erroneità della pronuncia gravata e la necessità di sua integrale riforma.
2.2 Il suindicato percorso argomentativo, e le conclusioni che ne fa discendere l’appellante, si pongono in aperto contrasto con arresti giurisprudenziali consolidati, sia presso la giurisdizione ordinaria che amministrativa.
2.3 La cessione volontaria di cui all’art. 12 della legge n. 865 del 1971 costituisce invero un contratto ad oggetto pubblico i cui elementi costituitivi, indispensabili per differenziarla da un normale contratto di compravendita di diritto privato, sono: a) l’inserimento del negozio nell’ambito di un procedimento di espropriazione per pubblica utilità, nel cui contesto la cessione assolve alla peculiare funzione dell’acquisizione del bene da parte dell’espropriante, quale strumento alternativo all’ablazione d’autorità mediante decreto di esproprio; b) la preesistenza non solo di una dichiarazione di pubblica utilità ancora efficace, ma anche di un subprocedimento di determinazione dell’indennità e delle relative offerte ed accettazione, con la sequenza e le modalità previste dall’art. 12 della legge n. 865 del 1971; c) il prezzo di trasferimento volontario correlato ai parametri di legge stabiliti, inderogabilmente, per la determinazione dell’indennità di espropriazione. Ne consegue che, ove non siano riscontrabili tutti i requisiti sopra indicati, non potendosi escludere che l’amministrazione abbia inteso perseguire una finalità di pubblico interesse tramite un ordinario contratto di compravendita, al negozio traslativo non possono collegarsi gli effetti tipici della cessione volontaria disciplinata dall’art. 12 della legge n. 865 del 1971, ossia l’estinzione dei diritti reali o personali gravanti sul bene acquisito dall’amministrazione (cfr. Cass. 22 gennaio 2018, n. 1534; Id. 22 maggio 2009, n. 11955; negli stessi termini, Cons. Stato, sez. IV, 27 luglio 2016, n. 3391).
Pertanto, presupposto indispensabile perché si possa configurare la cessione volontaria, e perché si possano produrre i suoi effetti tipici, è il collegamento tra il rapporto contrattuale ed il procedimento amministrativo di espropriazione per pubblica utilità che vi ha dato origine, il quale funge da essenziale momento genetico e fondamentale presupposto del trasferimento immobiliare. Senza l’apertura di una formale procedura espropriativa non può esserci spazio per la cessione volontaria, e ciò per la semplice ragione che la cessione non potrebbe in tale caso espletare la sua funzione tipica di strumento di acquisizione della proprietà immobiliare in capo all’amministrazione espropriante alternativo rispetto al provvedimento amministrativo autoritativo costituito dal decreto di esproprio (cfr. Cass. 29 marzo 2007, n. 7779).
La causa del contratto pubblicistico di cessione di cui all’art. 12 della legge n. 865 del 1971 va quindi ricondotta ad una modalità alternativa di realizzazione del procedimento espropriativo mediante l’utilizzo di uno strumento privatistico, peraltro soggetto per taluni aspetti – tra cui la determinazione del prezzo di cessione – alla disciplina contenuta in norme di legge imperative (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 7 aprile 2015, n. 1768; Id. 3 marzo 2015, n. 1035; Cass. S.U. 13 febbraio 2007, n. 3040).
Nell’ambito di questa cornice normativa, e nel rispetto dei presupposti suindicati, la conclusione del contratto di cessione rimane comunque soggetta alla disciplina del contratto privatistico, non essendo caratterizzata dalla posizione di preminenza dell’amministrazione pubblica espropriante bensì dall’incontro paritetico delle volontà (cfr. Cass. 17 novembre 2000, n. 14901).
2.4 Traslando i superiori principi all’odierno gravame, non può che rilevare il Collegio l’assenza di un requisito essenziale perché possa ritenersi integrata la fattispecie tipica della cessione volontaria di cui all’art. 12 della legge n. 865 del 1971, ovvero quel collegamento necessario tra una procedura espropriativa per pubblica utilità e quella modalità alternativa di conclusione della medesima procedura costituita dalla cessione volontaria dell’immobile espropriando. Come correttamente argomentato dal T.A.R. con la decisione impugnata, risulta nella specie per tabulas che al momento della conclusione del contratto di trasferimento dell’area (atto pubblico del 18.04.1975, rep. 32985), il procedimento espropriativo non era stato ancora formalmente avviato. Ed invero, il p.i.p. di (omissis), costituente la dichiarazione di pubblica utilità dell’opera, è stato approvato con delibera consiliare n. 218 del 28.04.1975, pertanto 10 giorni dopo l’avvenuto trasferimento delle aree all’amministrazione comunale.
Né a diversa conclusione si può giungere argomentando, come fa l’appellante, che l’atto di trasferimento immobiliare stipulato tra le parti prima della formale apertura del procedimento espropriativo presentava un “elemento funzionale espresso”, ovvero la volontà dei contraenti di trasferire un bene immobile al preciso scopo di destinarlo alla realizzazione di una determinata opera pubblica, e che il prezzo della cessione è stato dalle parti commisurato al valore della indennità espropriativa, addizionata della maggiorazione di legge. Ed invero, le volontà espresse da parte cedente e parte cessionaria all’atto del trasferimento dell’immobile più che integrare l’elemento causale del contratto, sembrano assumere nella specie valenza di meri motivi dell’agire iure privatorum; quanto al criterio scelto volontariamente dalle parti per la determinazione del prezzo, esso non può avere certo la capacità di trasformazione di un contratto di diritto privato stipulato fuori da una procedura espropriativa nella fattispecie traslativa tipizzata dall’art. 12 della legge n. 865 del 1971. E ciò per la semplice ragione che il criterio di determinazione del prezzo di trasferimento del bene stabilito dall’art. 12, comma 1 della legge n. 865 del 1971 presuppone la sussistenza di tutti gli (altri) elementi costitutivi della cessione volontaria, in primis del più volte richiamato collegamento tra procedura espropriativa e negozio di trasferimento del diritto dominicale.
2.5 L’accertata impossibilità giuridica di qualificare il contratto di cessione stipulato tra le parti in data 18.04.1975 alla stregua di cessione volontaria ex art. 12 della legge n. 865 del 1971, disvela la correttezza della conclusione raggiunta dal T.A.R. in punto di inammissibilità del ricorso di primo grado.
Ed invero, la ricorrente in primo grado, si è dapprima rivolta al Sindaco del Comune di (omissis), successivamente al Presidente della Giunta Regionale del Veneto, per ottenere la dichiarazione di inservibilità di parte delle aree cedute con l’atto del 18.04.1975 e successivamente non utilizzate per la realizzazione dell’opera pubblica, onde conseguirne la retrocessione parziale ai sensi degli artt. 60 – 61 della legge n. 2359 del 1865. Essendogli stato opposto il diniego con il decreto regionale n. 619 del 1998, ha proposto gravame dinanzi al T.A.R., facendo valere il proprio interesse ad una pronuncia di annullamento che potesse condurre ad un riesame positivo della propria istanza funzionalmente diretta al riconoscimento della retrocessione parziale delle aree.
Poiché il contratto di trasferimento delle aree del 18.04.1975, per gli argomenti già sopra esaminati, è qualificabile alla stregua di contratto traslativo di diritto privato e non è sussumibile nello schema tipizzato dall’art. 12 della legge n. 865 del 1971, ne discende che non ricorrono nella specie i presupposti previsti dalla fattispecie legale per richiedere la retrocessione parziale, segnatamente per mancanza del principale suo presupposto costitutivo, ovvero l’avvenuto trasferimento delle aree stesse al Comune di (omissis) nell’ambito di un formale procedimento espropriativo.
3.1 Del pari privo di fondamento si palesa anche il secondo motivo di appello.
3.2 Con esso l’appellante deduce che il T.A.R., accogliendo l’eccezione di inammissibilità del gravame proposta negli scritti difensivi della regione Veneto, avrebbe in realtà permesso alla medesima Regione di integrare illegittimamente in corso di giudizio la motivazione del provvedimento amministrativo impugnato. Difatti, la motivazione del decreto regionale n. 619 del 1998 non fa menzione alcuna alla impossibilità di ricondurre il contratto di trasferimento delle aree del 18.04.1975 alla cessione volontaria di cui all’art. 12 della legge n. 865 del 1971.
3.3 La doglianza non può essere positivamente apprezzata dal Collegio, giacché il giudizio di primo grado si è chiuso con una decisione di inammissibilità resa in accoglimento di una specifica eccezione della difesa regionale. E’, pertanto, evidente che non si è trattato di un caso di integrazione postuma della motivazione del provvedimento amministrativo, bensì – come si è già sopra chiarito – dell’accertamento in giudizio della carenza dei presupposti costitutivi della fattispecie legale per richiedere la retrocessione, da cui il Giudice di primo grado ha desunto elementi per la declaratoria di inammissibilità del gravame.
4. In conclusione, l’accertata infondatezza di tutti i motivi proposti impone la reiezione dell’appello.
5. Per la natura delle questioni esaminate le spese del grado di giudizio possono essere integralmente compensate tra le parti.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
Sezione Quarta, definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge.
Compensa integralmente tra le parti le spese del grado di giudizio.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 17 ottobre 2019 con l’intervento dei magistrati:
Antonino Anastasi – Presidente
Luca Lamberti – Consigliere
Alessandro Verrico – Consigliere
Roberto Caponigro – Consigliere
Giuseppe Chinè – Consigliere, Estensore

 

In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.

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