Ipotesi in cui sopraggiungano ragioni ostative all’accoglimento di un ricorso

Consiglio di Stato, Sentenza 2 novembre 2020, n. 6752.

Nell’ambito di un giudizio amministrativo, nell’ipotesi in cui sopraggiungano ragioni ostative all’accoglimento di un ricorso di per sé fondato, il giudice ha ampi poteri discrezionali nella valutazione circa la possibilità che il ricorrente vada ristorato delle spese del giudizio.

Sentenza 2 novembre 2020, n. 6752

Data udienza 1 ottobre 2020

Tag – parola chiave: Processo amministrativo – Giudizio amministrativo – Sopravvenienza di ragioni ostative all’accoglimento del ricorso – Regolamento delle spese

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Terza
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 426 del 2020, proposto da
Si. S.p.A.- Centro Medico di Riabilitazione “Vi. Si.”, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocato Lu. D’A., con domicilio digitale come da PEC indicata in atti;
contro
Azienda Sanitaria Locale Salerno, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocato Ro. Ru., con domicilio digitale come da PEC indicata in atti;
per la riforma parziale della sentenza del TAR Campania, Sezione Staccata di Salerno, Sezione Prima, n. 1929/2019, depositata in data 7 novembre 2019, notificata il 18 dicembre 2019, resa sul ricorso R.G. n. 1235/2019, nella parte in cui l’ASL, soccombente virtualmente in giudizio, è stata condannata al pagamento delle spese di lite nella misura di Euro 300,00.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio di Azienda Sanitaria Locale Salerno;
Visto l’art. 114 cod. proc. amm.;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nella camera di consiglio del giorno 1 ottobre 2020 il Cons. Solveig Cogliani e udito per l’Azienda appellata l’Avvocato Va. Ca. su delega dichiarata di Ro. Ru.;
1 – L’appellante Si. S.p.A. espone di aver proposto ricorso per l’esecuzione della sentenza del Tribunale ordinario di Salerno n. 294/2019, passata in giudicato, che aveva condannato l’ASL Salerno a pagarle la complessiva somma di Euro 144.909,92, a titolo di interessi moratori e legali.
Tuttavia, in vista dell’udienza di discussione del ricorso, l’ASL provvedeva al pagamento integrale di quanto dovuto.
Pertanto, il Tribunale di prime cure dichiarava la cessazione della materia del contendere e, in ragione della soccombenza virtuale, condannava l’Amministrazione al pagamento delle spese di lite, liquidandole in euro 300,00 (“In applicazione del principio della soccombenza virtuale, le spese di giudizio sono poste a carico dell’amministrazione sanitaria e liquidate come in dispositivo”).
Avverso tale capo della sentenza, la Società istante propone appello, deducendo i seguenti motivi: error in iudicando, violazione dell’art. 26 c.p.a. in combinato disposto con gli artt. 91 e 92 c.p.c. e 2233 c.c.) – erronea motivazione, in quanto il T.A.R. avrebbe dovuto attenersi al d.m. n. 55 del 10 marzo 2014; pertanto condannando l’Amministrazione al pagamento delle spese determinate in ragione dello scaglione di riferimento individuato con riguardo al valore della causa, nella somma di Euro 2.462,00.
Con la memoria ex art. 73 c.p.a. la parte appellante ha rimodulato tale somma in Euro 2.492,00, affermando la spettanza del valore medio relativo al predetto scaglione. Chiede, dunque, il passaggio in decisione, insistendo per la riforma parziale della sentenza con la condanna al pagamento della suindicata somma da liquidarsi al difensore antistatario, unitamente alle spese del presente grado di giudizio.
L’Amministrazione si è costituita per resistere, chiedendo la conferma della sentenza di primo grado, in considerazione del comportamento tenuto dalla stessa e la circostanza che – a suo dire – la Società aveva agito in giudizio, pur sapendo che l’Azienda avrebbe provveduto al pagamento dovuto, sia pure con qualche giorno di ritardo.
La causa è stata trattenuta in decisione all’udienza camerale del 1° ottobre 2020.
II -L’appello è ammissibile e fondato in parte.
Il Collegio rileva che il tema della liquidazione delle spese di giudizio nel processo amministrativo ha formato oggetto di una rinnovata attenzione nella dottrina e nella giurisprudenza.
L’orientamento più tradizionale aveva tendenzialmente valorizzato il potere discrezionale del giudice, cui spetterebbe il compito di apprezzare le molteplici circostanze idonee ad incidere sulla corretta determinazione della misura dell’onere delle spese posto a carico della parte soccombente.
In tale prospettiva, pertanto, la decisione del giudice di primo grado era ritenuta censurabile in appello solo in presenza di statuizioni assolutamente abnormi, che si potrebbero verificare, alternativamente, tanto nei casi di condanne al pagamento di somme del tutto irrisorie, quanto nelle ipotesi di liquidazioni sproporzionate per eccesso.
Pertanto, secondo questo indirizzo, la sindacabilità in appello della condanna alle spese disposta in primo grado, in quanto espressiva della larga discrezionalità di cui è titolare il giudice in ogni fase del processo, è limitata solo all’ipotesi in cui venga modificata la decisione principale, salvo la manifesta abnormità (Cons. Stato Sez. VI, 22 febbraio 2018, n. 1127), che ricorre solo in situazioni eccezionali, identificate nell’erronea condanna alle spese della parte vittoriosa e nella evidente e macroscopica eccessività o sproporzione della condanna (Consiglio di Stato, IV, 14 marzo 2016, n. 1012; Consiglio giustizia amministrativa per la Regione Siciliana n. 127 del 2016; C.d.S., V, 30 novembre 2015, n. 5400; Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza n. 4669 del 5 luglio 2019; Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza n. 4005 del 14 giugno 2019).
Al di fuori di questi limitati casi, pertanto, rientrerebbe nella discrezionalità del giudice la definizione della misura delle spese processuali, con la conseguente limitazione della censurabilità in appello del capo della decisione pronunciata in primo grado.
Non è estranea a questo orientamento la preoccupazione di non appesantire il giudizio di primo e di secondo grado con l’esame di ulteriori questioni, riguardanti non solo l’an, ma persino il quantum delle spese di giudizio.
Un diverso e recente indirizzo ermeneutico afferma una più incisiva sindacabilità in appello della pronuncia sulle spese.
Si osserva, al riguardo, in primo luogo, che la corretta ed equa determinazione della misura delle spese legali liquidate con la pronuncia che definisce il giudizio concerne una componente niente affatto trascurabile del contenzioso, poiché completa la realizzazione della pretesa fatta valere dalla parte sostanziale vittoriosa, riflettendosi anche sui diritti del difensore ad ottenere un’adeguata remunerazione per la prestazione professionale svolta con successo.
In secondo luogo, il nuovo indirizzo, nel prendere atto di una consolidata prassi del giudice amministrativo, incentrata sulla liquidazione forfettaria delle spese di lite, in base a parametri spesso ritenuti non corrispondenti alle vigenti tariffe forensi, evidenzia la circostanza che i compensi professionali sono soggetti ad una specifica disciplina normativa, intesa a delineare i criteri per un’appropriata determinazione del loro ammontare.
In questa direzione si pone l’analitica disciplina contenuta nel decreto del Ministro della giustizia 10 marzo 2014, n. 55 (Regolamento recante la determinazione dei parametri per la liquidazione dei compensi per la professione forense, ai sensi dell’articolo 13, comma 6, della legge 31 dicembre 2012, n. 247).
Il regolamento disciplina “per le prestazioni professionali i parametri dei compensi all’avvocato quando all’atto dell’incarico o successivamente il compenso non sia stato determinato in forma scritta, in ogni caso di mancata determinazione consensuale degli stessi, comprese le ipotesi di liquidazione”.
Si intende, quindi, che le tabelle riguardano anche i casi di liquidazione disposta dal giudice.
L’art. 2 afferma il principio generale secondo cui “il compenso dell’avvocato è proporzionato all’importanza dell’opera.”
L’articolo 4, al comma 1, poi, specifica che “1. Ai fini della liquidazione del compenso si tiene conto delle caratteristiche, dell’urgenza e del pregio dell’attività prestata, dell’importanza, della natura, della difficoltà e del valore dell’affare, delle condizioni soggettive del cliente, dei risultati conseguiti, del numero e della complessità delle questioni giuridiche e di fatto trattate.
In ordine alla difficoltà dell’affare si tiene particolare conto dei contrasti giurisprudenziali, e della quantità e del contenuto della corrispondenza che risulta essere stato necessario intrattenere con il cliente e con altri soggetti.
Il giudice tiene conto dei valori medi di cui alle tabelle allegate, che, in applicazione dei parametri generali, possono essere aumentati di regola sino all’80 per cento, ovvero possono essere diminuiti in ogni caso non oltre il 50 per cento. Per la fase istruttoria l’aumento è di regola fino al 100 per cento e la diminuzione in ogni caso non oltre il 70 per cento.”
Pertanto, le tariffe forensi costituiscono tuttora il parametro che il giudice deve seguire ai fini della corretta liquidazione delle spese, pur essendo stata superata, da tempo, la regola, riguardante il rapporto interno tra professionista e cliente, della inderogabilità delle tariffe forensi.
Vanno considerati, tuttavia, due particolari aspetti.
Anzitutto, in linea di massima la parte che intende far valere la pretesa alla liquidazione delle spese di giudizio in misura conforme alle tariffe forensi dovrebbe allegare, temepestivamente, la propria articolata nota spese, allo scopo di favorire il corretto calcolo della liquidazione, nel contraddittorio con le controparti.
L’omessa presentazione della nota spese, pertanto, potrebbe giustificare, di per sé, l’adesione implicita alla liquidazione forfettaria determinata autonomamente dal giudice, senza che questi sia poi gravato dell’obbligo di spiegare partitamente le ragioni della decisione assunta, a meno che il discostamento dalle tariffe forensi non sia del tutto sproporzionato.
In secondo luogo, va tenuto fermo il principio secondo cui il giudice ha il potere di stabilire, motivatamente, la compensazione parziale delle spese, così riducendo, di fatto, l’onere posto a carico della parte soccombente.
Non si può escludere che, in concreto, talune statuizioni sulle spese determinate in misura inferiore a quella risultante delle tariffe forensi siano la conseguenza di una implicita compensazione parziale.
Nel caso di specie, tuttavia, la decisione di primo grado ora appellata non esplicita affatto questa scelta di compensazione parziale, pure astrattamente possibile in relazione allo sviluppo della vicenda contenziosa, richiamando, al contrario, il solo criterio della soccombenza virtuale.
Tale capo della decisione, non impugnato dall’amministrazione soccombente, è ormai passato in giudicato e non può essere modificato nel presente grado di giudizio.
Va ancora osservato che nel processo amministrativo sono stati affermati alcuni specifici principi riguardanti la sentenza che accerta la cessazione della materia del contendere, suscettibili di incidere sulla ripartizione e sulla liquidazione delle spese di lite.
In tale contesto, va confermato, se non ampliato, il potere valutativo del giudice, chiamato a tenere conto delle peculiarità concrete della vicenda di volta in volta esaminata. Si afferma, pertanto, che, nell’ambito di un giudizio amministrativo, nell’ipotesi in cui sopraggiungano ragioni ostative all’accoglimento di un ricorso di per sé fondato, il giudice ha ampi poteri discrezionali nella valutazione circa la possibilità che il ricorrente vada ristorato delle spese del giudizio (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza n. 4007 del 14 giugno 2019).
Occorre considerare, infatti, che la cessazione della materia del contendere si verifica nei soli casi in cui la pretesa sostanziale della parte ricorrente è completamente soddisfatta dall’amministrazione nel corso del giudizio.
Questa circostanza potrebbe essere valutata in due modi contrapposti. Da un lato, l’amministrazione, realizzando totalmente l’interesse del ricorrente, riconosce, in definitiva, l’integrale fondatezza della sua pretesa, ed è quindi pienamente soccombente.
Al tempo stesso, però, l’atteggiamento collaborativo dell’amministrazione, tale da rendere superflua la discussione ulteriore del merito del ricorso, deve apprezzarsi favorevolmente, anche ai fini di un ragionevole contenimento delle spese legali, specie nei casi in cui la realizzazione della pretesa del ricorrente è prossima all’avvio del processo e precede la fase decisoria.
In ogni caso, risulta evidente che la cessazione della materia del contendere incide sull’attività del difensore, che, a partire dal momento in cui è a conoscenza del fatto che la determina, di regola non è più tenuto a sviluppare approfondite difese di merito.
Resta riservata al giudice la valutazione delle specificità dei singoli casi, nei quali, nonostante l’intervenuta cessata materia del contendere, siano ancora aperte determinate questioni controverse.
Ciò chiarito, la Sezione intende considerare un ultimo aspetto di carattere generale, concernente l’esatta individuazione del parametro tabellare applicabile nei giudizi di ottemperanza per l’esecuzione di giudicati civili, o amministrativi, di condanna al pagamento di una somma di denaro.
Sotto il profilo strettamente formale e letterale, le tabelle forensi di cui al citato regolamento ministeriale considerano unitariamente i giudizi davanti al TAR e i giudizi dinanzi al Consiglio di Stato, senza prevedere l’ampia differenziazione tabellare considerata per il processo civile, in relazione ai diversi tipi di contenzioso, con riguardo, fra l’altro, al giudizio originato dall’esercizio dell’azione esecutiva.
Tuttavia, un recente filone giurisprudenziale ha ritenuto che la previsione normativa concernente le tariffe per il contenzioso amministrativo debba essere interpretata in modo sistematico: infatti, le tabelle riferite espressamente al giudizio davanti al TAR e al Consiglio di Stato appaiono correlate al giudizio di cognizione, senza considerare il processo di ottemperanza e, tanto meno lo specifico giudizio per l’esecuzione di una pronuncia di condanna al pagamento di una somma di denaro pronunciata da un giudice diverso da quello amministrativo.
In tale ultima ipotesi il giudizio assume una fisionomia tipicamente esecutiva, senza implicare gli accertamenti propri di un processo di cognizione.
In questo senso, allora, il giudizio di ottemperanza per l’esecuzione di una sentenza di condanna al pagamento di una somma di denaro, pronunciata dal giudice ordinario, non può rientrare nella fattispecie tabellare del giudizio dinanzi al Consiglio di Stato o al TAR e deve assimilarsi, piuttosto, al processo esecutivo mobiliare, tenendo conto delle normali caratteristiche di questo giudizio e dell’impegno richiesto al professionista e di tutti gli altri elementi indicati dall’art. 4 del regolamento ministeriale.
Questa Sezione ha ritenuto che le spese per il giudizio di ottemperanza relativo a decreti ingiuntivi non opposti e divenuti esecutivi non possono essere quelle previste per il giudizio di cognizione davanti al TAR dalla tabella n. 21 allegata al D.M. n. 55/2014, atteso che il giudizio di ottemperanza, per i suoi contenuti derivati dal precedente giudizio e per la struttura processuale, presenta un grado di complessità molto minore e paragonabile alle procedure esecutive nell’ambito del processo civile. Nel predetto caso, invece, va fatto riferimento ai parametri dettati per le “procedure esecutive mobiliari” dalla tabella n. 16 allegata al citato D.M. n. 55/2014, nella presupposizione che a queste ultime sia assimilabile il ricorso per l’ottemperanza ad un decreto ingiuntivo esecutivo. Infatti il giudizio di ottemperanza ad una sentenza di condanna al pagamento di una somma di denaro si riduce, in buona sostanza, alla presentazione della mera richiesta che si dia esecuzione al giudicato (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza n. 1247 del 25 marzo 2016).
Il Collegio ritiene di aderire a questo orientamento, che si connette alla giusta esigenza di differenziare il giudizio amministrativo e il connesso impegno del difensore in ragione delle effettive caratteristiche di questo tipo di contenzioso.
L’azione di ottemperanza, in concreto ben potrebbe coinvolgere problematiche assai complesse, specie quando si tratta di attuare gli effetti conformativi di decisioni di annullamento dello stesso giudice amministrativo, ma, normalmente, l’esecuzione delle sentenze di condanna al pagamento di una somma di denaro presenta caratteristiche molto più semplici, che rendono evidente le analogie con i giudizi esecutivi proposti dinanzi al giudice ordinario.
A supporto di questa conclusione si pone, con valore decisivo, anche la previsione dell’articolo 3, del citato decreto del Ministro della giustizia, rubricato Applicazione analogica, secondo cui “1. Nell’ambito dell’applicazione dei precedenti articoli 1 e 2, per i compensi ed i rimborsi non regolati da specifica previsione si ha riguardo alle disposizioni del presente decreto che regolano fattispecie analoghe.”
La lacuna normativa riguardane la misura dei compensi per i giudizi di ottemperanza relativi alle decisioni del giudice ordinario recanti condanna al pagamento di una somma di denaro va colmata facendo riferimento alle tabelle riguardanti la fattispecie analoga del procedimento esecutivo mobiliare.
Alla luce delle considerazioni che precedono possono quindi valutarsi i motivi di appello. La liquidazione delle spese disposta del giudice di primo grado, per la somma di soli euro trecento, non risulta conforme ai parametri indicati dal decreto ministeriale. Tuttavia, alla parte appellante non spetta la somma richiesta, poiché la liquidazione delle spese legali va effettuata sulla base di un diverso e più corretto parametro.
Il Collegio ritiene, infatti, che, nella presente vicenda contenziosa debba applicarsi la tabella relativa al giudizio esecutivo mobiliare, in relazione al valore del credito vantato dal ricorrente.
Anche tenendo conto dell’intervenuta cessata materia del contendere, che ha determinato una oggettiva attenuazione dell’impegno professionale del difensore, la somma derivante dall’applicazione dei parametri del regolamento deve essere ridotta rispetto alla cifra media ed è determinata nella misura complessiva di euro 1.100,00, anziché in euro trecento (300,00).
IV – Per quanto attiene l’onere delle spese del presente grado di giudizio, il Collegio ritiene che esse vadano compensate in ragione della metà, tenuto conto dei non univoci indirizzi interpretativi in materia.
Poiché la controversia in appello attiene al solo credito riguardante le spese di lite e non la controversia di cui al giudizio di ottemperanza proposto dinanzi al TAR e ormai definito, il Collegio ritiene applicabile il parametro della tabella relativa al processo dinanzi al Consiglio di Stato, scaglione del credito di valoro sino a 1.100,00 euro, opportunamente diminuito entro il limite del 50% e arrotondato alla cifra di euro 400,00.
Pertanto, alla parte appellante, per la presente fase, spetta la somma di euro duecento (200/00).
Le spese di lite del primo e del secondo grado vanno distratte in favore del difensore dichiaratosi antistatario.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
Sezione Terza, in accoglimento parziale dell’appello, riforma il capo della sentenza relativo alla liquidazione delle spese di lite del primo grado, poste a carico dell’Azienda soccombente, rideterminandole in euro millecento,00 (1100/00).
Compensa per metà le spese della presente fase di appello, ponendo la restante metà, liquidata in euro 200,00 (duecento/00), a carico dell’Azienda appellata.
Dispone la distrazione delle spese in favore del difensore dell’appellante, dichiaratosi antistatario.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 1 ottobre 2020 con l’intervento dei magistrati:
Marco Lipari – Presidente
Massimiliano Noccelli – Consigliere
Raffaello Sestini – Consigliere
Solveig Cogliani – Consigliere, Estensore
Ezio Fedullo – Consigliere

 

 

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