Corte di Cassazione, sezione prima penale, Sentenza 27 aprile 2020, n. 13072.
Massima estrapolata:
In tema di stupefacenti, sussiste l’interesse del condannato ad ottenere la rideterminazione “in executivis” della pena divenuta illegale a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 32 del 2014 qualora, pur interamente espiata la pena detentiva, non sia stata ancora eseguita quella pecuniaria contestualmente irrogata, atteso che, agli effetti dell’art. 30 della legge 11 marzo 1953, n. 87, il rapporto esecutivo si esaurisce soltanto con l’estinzione di entrambe tali pene. (In motivazione la Corte ha precisato che, nel caso in cui residui da eseguire la sola pena pecuniaria, la rideterminazione ad opera del giudice dell’esecuzione deve investire anche quella detentiva, in funzione della eventuale commisurazione, nell’ipotesi di esecuzione di pene concorrenti, della pena residua da espiare).
Sentenza 27 aprile 2020, n. 13072
Data udienza 3 marzo 2020
Tag – parola chiave: Sostanze stupefacenti – Rideterminazione anche della sanzione pecuniaria – Sentenza della Consulta 32/2014
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SIANI Vincenzo – Presidente
Dott. SARACENO Rosa Anna – Consigliere
Dott. CASA Filippo – Consigliere
Dott. CENTOFANTI Francesco – Consigliere
Dott. CAPPUCCIO Daniele – rel. Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
(OMISSIS), nato a (OMISSIS);
avverso l’ordinanza del 04/09/2019 della CORTE APPELLO di NAPOLI;
udita la relazione svolta dal Consigliere Dr. CAPPUCCIO DANIELE;
lette le conclusioni del PG, il quale ha chiesto dichiararsi l’inammissibilita’ del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
1. Con decreto del 4 settembre 2019 la Corte di appello di Napoli, quale giudice dell’esecuzione, ha dichiarato l’inammissibilita’, ai sensi dell’articolo 666 c.p.p., comma 2, dell’istanza presentata nell’interesse di (OMISSIS) ed intesa alla rideterminazione, per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 32 del 2014, della pena di sei anni di reclusione e 30.000 Euro di multa, irrogata con sentenza della Corte di appello di Palermo del 7 gennaio 2010, diventa irrevocabile l’1 luglio 2010.
Ha, in proposito, esposto che l’istanza costituisce pedissequa riproposizione di altra, avente contenuto analogo, gia’ rigettata in esito a procedimento definito dalla Corte di cassazione con sentenza n. 39724 del 10/09/2015, sul presupposto dell’avvenuta espiazione della pena in epoca precedente all’intervento del giudice delle leggi, sopraggiunto, pertanto, quando il rapporto esecutivo si era ormai esaurito.
Per tale via, ha aggiunto, e’ stasa disattesa la prospettazione della parte, che ancorava la persistenza dell’interesse alla possibilita’ di sottrarre la quota di sanzione ingiustamente patita dal quantum di pena da espiare, eventualmente, ad altro titolo.
2. (OMISSIS) propone, con il ministero dell’avv. (OMISSIS), ricorso per cassazione affidato ad un unico motivo, con il quale deduce violazione di legge e vizio di motivazione per avere il giudice dell’esecuzione trascurato che la nuova istanza non e’ riproduttiva della prima in quanto proposta a seguito dell’emissione, il 24 maggio 2018, da parte della Procura generale presso la Corte di appello di Napoli, di provvedimento di esecuzione di pene concorrenti che comprende anche la sanzione inflitta dalla Corte di appello di Palermo il 7 gennaio 2010, mai eseguita con riferimento alla pena pecuniaria.
3. Il Procuratore generale, con requisitoria scritta, ha chiesto dichiararsi l’inammissibilita’ del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso e’ fondato e merita, pertanto, accoglimento.
2. La Corte di appello di Napoli ha dichiarato, ai sensi dell’articolo 666 c.p.p., comma 2, l’inammissibilita’ dell’istanza di rideterminazione della pena presentata nell’interesse di (OMISSIS) perche’ meramente iterativa di quella in precedenza vagliata, con esito sfavorevole al richiedente, dalla Corte di appello di Palermo.
Ha, specificamente, segnalato che, in quella sede, l’istante aveva dedotto di avere interesse alla rideterminazione, a dispetto dell’intervenuta esecuzione della pena, nella prospettiva di potersi avvalere dell’istituto della fungibilita’ in caso di eventuali, ulteriori condanne definitive.
3. Il vaglio critico della decisione impugnata postula la nitida messa a fuoco dell’oggetto del precedente incidente di esecuzione e dell’estensione della preclusione che ne e’ conseguita.
E’ opportuno, dunque, precisare che la Corte di cassazione, nella motivazione della sentenza n. 39724 del 10/09/2015, con cui venne rigettato il ricorso di (OMISSIS) avverso l’ordinanza reiettiva dell’originaria richiesta di rideterminazione della pena, reputo’ – dopo avere tracciato le coordinate ermeneutiche che governano la rideterminazione in executivis conseguente ad una pronunzia della Corte costituzionale incidente sulla misura del trattamento sanzionatorio – le considerazioni difensive “destituite di giuridico pregio, poiche’, oltre a non essere correlate, se non in termini di generico dissenso, con gli indicati principi e, per l’effetto, con il contenuto della decisione impugnata, neppure esprimono, rinviando in modo aspecifico all’affermata esistenza di altre condanne e pendenze, la sussistenza di un interesse concreto e attuale del ricorrente ad avere una decisione che, apprezzando la sua richiesta, si traduca, in termini di attualita’, riferiti alla specifica posizione esecutiva dedotta, nella rimozione di una situazione di svantaggio processuale ovvero nel conseguimento di una utilita’ processuale, secondo condivisi principi (tra le altre, Sez. U, n. 6624 del 27/10/2011, dep. 2012, Marinaj, Rv. 251693)”.
L’istanza introduttiva dell’incidente di esecuzione nell’ambito del quale e’ stato emesso il provvedimento impugnato muove, invece, dal rilievo che, in epoca successiva alla menzionata decisione della Corte di cassazione, e precisamente il 19 febbraio 2016, e’ divenuta definitiva la condanna di (OMISSIS) alla pena di nove anni di reclusione.
La circostanza trova conferma nel certificato del casellario giudiziale e, tra l’altro, ha giustificato lo spostamento della competenza verso la Corte di appello di Napoli, che ha emesso il provvedimento divenuto irrevocabile per ultimo.
Essa, come rivendicato dall’odierno ricorrente sin dalla proposizione dell’istanza ex articolo 666 c.p.p., costituisce elemento di novita’ idoneo, in potenza, a superare l’intrinseco deficit di concretezza ed attualita’ che ha inciso sull’esito sfavorevole del precedente incidente di esecuzione.
Nella medesima direzione si colloca, peraltro, l’inserimento della pena della cui rideterminazione si discute, ancora da eseguire nella porzione pecuniaria, nel provvedimento di esecuzione di pene concorrenti emesso dal Procuratore generale presso la Corte di appello di Napoli il 24 maggio 2018, cioe’ dopo l’introduzione del piu’ recente incidente di esecuzione ma prima della discussione, in camera di consiglio, dell’istanza poi rigettata dalla Corte di appello partenopea.
Pertinente si palesa, al riguardo, il richiamo al condiviso indirizzo ermeneutico secondo cui “L’interesse concreto ed attuale del condannato alla rideterminazione della pena inflitta con sentenza irrevocabile sulla base di parametri edittali piu’ favorevoli vigenti a seguito di dichiarazione di illegittimita’ costituzionale di una norma penale riguardante il trattamento sanzionatorio, sussiste non solo se la pena non sia stata ancora interamente espiata, ma anche quando una quota della pena espiata in eccesso rispetto alla sopravvenuta cornice edittale piu’ favorevole, possa essere imputata alla condanna per altro reato, ai sensi dell’articolo 657 c.p.p., comma 3, sempre che la detenzione in eccesso sia sofferta dopo la commissione del reato per cui si chiede la fungibilita’” (Sez. 6, n. 27403 del 10/06/2016, Crivello, Rv. 267365; Sez. 1, n. 32205 del 26/06/2015, Gomes Toscani, Rv. 264620).
Dalle superiori considerazioni discende, al cospetto di nuovi elementi di fatto cronologicamente sopravvenuti alla decisione, l’inoperativita’ della preclusione derivante dal cosiddetto giudicato esecutivo, pacificamente attestata dalla giurisprudenza di legittimita’ (Sez. 1, n. 7877 del 21/01/2015, Conti, Rv. 262596; piu’ in generale, sulla portata della preclusione processuale in sede esecutiva, cfr. Sez. U, n. 18288 del 21/01/2010, Beschi, in motivazione) e, quindi, la fallacia del ragionamento sotteso alla censurata declaratoria di inammissibilita’ ex articolo 666 c.p.p., comma 2.
4. Occorre, a questo punto, esaminare, nel rispetto delle indicazioni che si traggono dalla giurisprudenza di legittimita’ (Sez. U, n. 42858 del 29/05/2014, Gatto, Rv. 260699; Sez. 4, n. 12261 del 01/02/2018, Occhiuto, Rv. 272346; Sez. 5, n. 15362 del 12/01/2016, Gaccione, Rv. 266564; Sez. 1, n. 32193 del 28/05/2015, Quaresima, Rv. 264257), l’ulteriore profilo controverso, che attiene alla verifica della permanenza – recte: del non esaurimento – del rapporto esecutivo quale condizione necessaria, ai sensi della L. 11 marzo 1953, n. 87, articolo 30, comma 4,, per operare la rideterminazione.
Nella motivazione della gia’ citata sentenza n. 42858 del 29/05/2014, Gatto, le Sezioni Unite hanno precisato il significato del riferimento all’avvenuta esecuzione della sanzione applicata in forza di una norma penale diversa da quella incriminatrice, quale limite alla reversibilita’ degli effetti della declaratoria di illegittimita’ costituzionale, rimarcando che “l’aspetto decisivo, che segna invece il limite non discutibile di impermeabilita’ e insensibilita’ del giudicato anche alla situazione di sopravvenuta declaratoria di illegittimita’ costituzionale della norma applicata, e’ costituito dalla non reversibilita’ degli effetti, giacche’ la L. n. 87 del 1953, articolo 30 impone di rimuovere tutti gli effetti pregiudizievoli del giudicato non divenuti nel frattempo irreversibili, ossia quelli che non possono essere rimossi, perche’ gia’ “consumati”, come nel caso di condannato che abbia gia’ scontato la pena”.
Le Sezioni Unite, ponendosi in continuita’ con l’orientamento gia’ espresso dalla Corte Costituzionale con le sentenze nn. 127 del 1966 e 58 del 1967, hanno, al riguardo, rilevato come il rapporto esecutivo penale tragga origine dal titolo irrevocabile di condanna e si concluda soltanto con l’espiazione, oppure con l’estinzione della pena.
Ergo, se l’esecuzione e’ perdurante, il rapporto esecutivo non puo’ ritenersi esaurito e risente degli effetti della norma dichiarata costituzionalmente illegittima, che dovranno essere rimossi con un intervento del giudice dell’esecuzione, cui compete in linea generale assumere le decisioni, aventi efficacia giurisdizionale, su ogni questione inerente al rapporto esecutivo; al contrario, qualora non vi sia piu’ un’esecuzione pendente per il suo definitivo esaurimento, l’ordinamento non consente l’esperimento di “alcuna azione o rimedio, secondo i principi invocabili in materia” (Corte Cost., n. 58 del 1967).
5. Con riferimento al caso di specie, sostiene il ricorrente che dall’integrale espiazione della sanzione detentiva non e’ derivato l’integrale esaurimento del rapporto esecutivo, a cio’ ostando l’omessa riscossione di quella pecuniaria, pari a 30.000 Euro e, proprio in quanto ancora dovuta, inserita dal Procuratore generale presso la Corte di appello di Napoli nel provvedimento di esecuzione di pene concorrenti del 24 maggio 2018.
Il rapporto esecutivo viene unitariamente riferito, in questa prospettiva, all’intero trattamento sanzionatorio, in coerenza, peraltro, con gli effetti della sentenza della Corte costituzionale n. 32 del 2014 che – diversamente da quanto accaduto con la piu’ recente pronunzia n. 40 del 2019, pure afferente alla cornice edittale del reato ex Decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, articolo 73 – hanno riguardato sia la reclusione che la multa.
6. In questo senso si e’ orientata, in passato, la giurisprudenza di legittimita’ in alcuni dei – invero rari – casi in cui la questione dell’incidenza della riscossione della multa sul rapporto esecutivo e’ stata, sia pure incidentalmente, esaminata, statuendo, specificamente, che la rideterminazione in melius, in sede esecutiva, di una multa gia’ pagata non abilita l’interessato ad ottenere la restituzione della differenza tra quanto versato e l’importo rideterminato, risultato inibito, appunto, dall’avvenuto esaurimento del rapporto esecutivo conseguente alla corresponsione della sanzione pecuniaria (Sez. 1, n. 39237 del 19/04/2017, Malorgio, Rv. 271047).
7. Di segno opposto e’ una piu’ recente decisione di questa Sezione che, con riferimento a fattispecie analoga a quella in esame, ha ritenuto “inammissibile l’istanza rivolta al giudice dell’esecuzione di rideterminazione della pena illegale, derivante da dichiarazione di illegittimita’ costituzionale di una norma penale incidente sulla commisurazione del trattamento sanzionatorio, qualora la pena detentiva sia stata interamente eseguita, in quanto, agli effetti della L. 11 marzo 1953, n. 87, articolo 30, il rapporto esecutivo si esaurisce con l’espiazione di detta pena, a nulla rilevando che debba ancora essere riscossa l’eventuale pena pecuniaria contestualmente irrogata” (Sez. 1, n. 20248 del 19/10/2018, dep. 2019, Rv. 275811).
Tale decisione muove dalla considerazione che la sentenza delle Sezioni Unite n. 42858 del 29/05/2014, Gatto, e tutto il filone giurisprudenziale successivo, che ne ha ricalcato ed elaborato le linee ermeneutiche, circoscrivono il loro ambito applicativo alla sola pena detentiva, in quanto l’elaborazione giuridica ivi illustrata si fonda principalmente sul richiamo ai seguenti principi: a) la forza del giudicato derivante dall’esigenza di porre un limite all’intervento dello Stato nella sfera individuale; b) il “diritto fondamentale alla liberta’ personale”; c) l’esigenza di rideterminare la pena “non interamente espiata”.
Tanto, a dimostrazione del fatto che il valore dell’intangibilita’ del giudicato soccombe rispetto al diritto fondamentale alla liberta’ personale qualora debbano essere rimossi gli effetti ancora perduranti della violazione conseguente all’applicazione di tale norma incidente sulla determinazione della sanzione, dichiarata illegittima dalla Corte costituzionale dopo la sentenza irrevocabile.
La cosa giudicata, dunque, non osterebbe alla rideterminazione del trattamento sanzionatorio stabilito con la sentenza irrevocabile di condanna, nei casi in cui la pena debba subire modificazioni necessarie imposte dal sistema a tutela dei diritti primari della persona, in ossequio ad un principio di piu’ ampia portata, gia’ stabilito dalla Corte costituzionale con le sentenze nn. 115 del 1987, 267 del 1987 e 282 del 1989.
Il massimo consesso nomofilattico avrebbe, in altri termini, espresso principi che, in quanto evocativi dei temi della liberta’ personale e della pena detentiva, non potrebbero essere estesi sic et simpliciter alla pena pecuniaria.
8. Ritiene il Collegio che la questione controversa meriti soluzione opposta a quella avallata dall’indirizzo ermeneutico teste’ richiamato – e ripreso, da ultimo, da Sez. 1, n. 51274 del 03/10/2019, Schiaroli, non massimata – e che debba affermarsi la possibilita’ di pervenire alla rideterminazione in executivis della pena irrogata sulla base della cornice edittale del Decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, articolo 73, vigente prima del deposito della sentenza Corte costituzionale n. 32 del 2014, nelle ipotesi in cui, interamente espiata la pena detentiva, non sia stata, invece, eseguita quella pecuniaria.
Se e’ vero, infatti, che la cedevolezza del giudicato costituisce portato del rango costituzionale del bene, la liberta’ personale, che reclama preminente tutela, non e’ meno vero, per converso, che l’esecuzione della pena pecuniaria e’ suscettibile di incidere, in modo diretto o indiretto, su tale diritto fondamentale, per come e’ dato apprezzarsi dalla seguente, sintetica esposizione volta ad enucleare, attraverso il riferimento alla normativa storicamente succedutasi ed agli interventi della Corte costituzionale, i non marginali, ancorche’ in larga misura indiretti, riflessi dell’esecuzione della pena detentiva sulla liberta’ personale del condannato.
9. E’ noto come l’ordinamento distingua le pene principali limitative della liberta’ personale (arresto, reclusione, ergastolo, permanenza domiciliare, lavoro di pubblica utilita’) da quelle pecuniarie (ammenda, multa), per il rispettivo contenuto, integrato, in un caso, dalla limitazione piu’ o meno durevole della liberta’ personale e, nell’altro, dal pagamento di una somma di denaro in favore dello Stato.
Il diverso grado di afflittivita’ delle sanzioni trova pendant nella differente rilevanza costituzionale degli interessi colpiti, la liberta’ personale rientrando nel novero dei diritti inviolabili dal quale e’, invece, escluso il patrimonio.
Nel testo originario del codice penale, la separazione tra le pene limitative della liberta’ personale e le pene pecuniarie era tratteggiata da una linea di confine non sempre chiaramente visibile.
L’articolo 136 c.p. prevedeva, infatti, che qualora, a causa dell’insolvibilita’ del condannato, non fosse possibile dare esecuzione alla pena della multa o dell’ammenda, queste dovessero essere convertite, rispettivamente, nella reclusione per non oltre tre anni e nell’arresto per non oltre due anni.
Tale disciplina dimostrava che anche le pene pecuniarie erano suscettibili di incidere sulla liberta’ personale, sia pure in maniera indiretta, attraverso i meccanismi di conversione.
L’entrata in vigore della Costituzione indusse l’insorgere di perplessita’ sulla conformita’ alla Corta fondamentale di detta normativa, connotata da tangibile diseguaglianza di trattamento in pregiudizio dei condannati economicamente svantaggiati.
La relativa questione di legittimita’ costituzionale fu, in prima battuta, dichiarata non fondata con la sentenza n. 29 del 1962 in ragione della preminente rilevanza costituzionale del principio di inderogabilita’ della sanzione, idoneo a giustificare l’aggravio di pena provocato alla conversione delle pene pecuniarie.
Un primo passo nella direzione opposta fu compiuto con la sentenza n. 149 del 1971, dichiarativa dell’illegittimita’ costituzionale dell’articolo 136 c.p., comma 1, nella parte in cui ammetteva, per i reati commessi dal fallito in epoca anteriore alla dichiarazione di fallimento, la conversione della pena pecuniaria in pena detentiva prima della chiusura della procedura fallimentare.
Fu, quindi, la sentenza n. 131 del 1979 a portare a compimento il percorso attraverso la complessiva dichiarazione di incostituzionalita’ dell’articolo 136 c.p..
Nell’occasione, la Consulta, preso atto che il principio di inderogabilita’ della pena giustificava meccanismi di conversione delle pene pecuniarie che, inevitabilmente, cagionavano la disuguale afflittivita’ tra pene pecuniarie e pene convertite, affermo’, discostandosi notevolmente dalla pronunzia del 1962, che, nell’ambito del bilanciamento di interessi tra il principio di inderogabilita’ e quello di uguaglianza, il primo non puo’ far premio sul secondo fino al punto di legittimare la conversione delle pene pecuniarie in quelle detentive, stante la superiore afflittivita’ delle seconde.
Invito’, di conseguenza, il legislatore ad introdurre una nuova disciplina per il caso di insolvibilita’ del condannato, tale da realizzare un piu’ equilibrato bilanciamento di interessi.
Il suggerimento fu raccolto con l’approvazione della L. 24 novembre 1981, n. 689, che, all’articolo 24, stabili’ che le pene della multa e dell’ammenda, non eseguite per insolvibilita’ del condannato, si convertono in liberta’ controllata, oppure, su richiesta del condannato – evitando in tal modo la creazione di un’ipotesi di lavoro coatto, vietata dall’articolo 4, comma 2, della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo – in lavoro sostitutivo.
Anche la nuova disciplina e’ stata sottoposta, nel tempo, a scrutinio di costituzionalita’, che ha sortito, fatta eccezione per qualche aspetto marginale, esito positivo.
Il riferimento attiene – oltre alle sentenze nn. 440 del 1994 e 1 del 2012, che hanno inciso sul calcolo di conversione – a quella n. 206 del 1996, con cui la Corte Costituzionale ha eliminato l’originario limite posto dal legislatore del 1981 alla possibilita’ di convertire le pene pecuniarie in lavoro sostitutivo, costituito dalla circostanza che la pena inflitta non superasse un milione di lire (oggi 516 Euro), a seguito della quale il condannato insolvente puo’ sempre evitare l’applicazione della liberta’ controllata merce’ la presentazione di richiesta di conversione della pena pecuniaria in lavoro sostitutivo.
Il Decreto Legislativo 28 agosto 2000, n. 274, istitutivo della competenza del giudice di pace anche in materia penale, ha, infine, introdotto una specifica modalita’ di conversione delle pene pecuniarie applicate da detto giudice per il caso di insolvibilita’ del condannato, prevedendo, in particolare, all’articolo 55 che – fatta salva l’ipotesi che, su richiesta del condannato, la pena pecuniaria sia convertita in lavoro sostitutivo – la conversione avviene applicando la pena della permanenza domiciliare.
10. La disamina della regolamentazione dei meccanismi di conversione nel caso di insolvibilita’ del condannato convince del fatto che la pena pecuniaria e’, anche nella sua attuale configurazione, in grado di incidere indirettamente sulla liberta’ personale, sia pure in misura meno pregnante che in passato e diversificata in ragione della tipologia di conversione che, in concreto, viene realizzata.
Piu’ specificamente, il grado di limitazione della liberta’ personale, minimo nel caso di conversione della pena pecuniaria in lavoro sostitutivo, si accresce in quelli di conversione in liberta’ controllata o in permanenza domiciliare, secondo quanto riconosciuto dalla stessa Corte Costituzionale nel dichiarare, con la gia’ richiamata sentenza n. 206 del 1996, la parziale incostituzionalita’ della L. 24 novembre 1981, n. 689, articolo 102, comma 1.
In motivazione, il giudice delle leggi ha affermato che il lavoro sostitutivo e’ la misura che restringe al massimo la traslazione dell’oggetto della pena dal patrimonio alla liberta’ personale del condannato, dato che gli permette di produrre reddito e di surrogare in tal modo il pagamento della pena pecuniaria, non realizzatosi per mera insolvenza anziche’ per colpa.
Una restrizione alla liberta’ personale minima ma comunque apprezzabile, tanto da giustificare la classificazione, in dottrina, della pena del lavoro sostitutivo, applicabile in via principale dal giudice di pace a norma del Decreto Legislativo 28 agosto 2000, n. 274, articolo 52, quale “pena non detentiva limitativa della liberta’ personale”.
A cio’ va aggiunto che, quantunque la conversione diretta delle pene pecuniarie non eseguibili per insolvibilita’ del condannato in pene detentive sia stata dichiarata costituzionalmente illegittima con la sentenza n. 131 del 1979, il medesimo effetto puo’, nondimeno, prodursi in via secondaria nell’ipotesi, prevista dalla L. 24 novembre 1981, n. 689, articolo 108, di violazione delle prescrizioni inerenti alla liberta’ controllata o al lavoro sostitutivo, conseguenti alla conversione di pene pecuniarie, nella quale la parte della pena convertita non ancora eseguita si converte, a sua volta, in un uguale periodo di reclusione o di arresto, in base alla specie della pena originariamente applicata.
Risulta, in definitiva, confermato che l’applicazione di una pena pecuniaria e’, ad oggi, in grado di determinare la limitazione massima della liberta’ personale, sia pure solo in caso di colpa del condannato, a differenza che in passato, quando l’insolvente subiva il massimo aggravio dell’afflittivita’ della pena incolpevolmente, per il solo fatto di essere nullatenente.
11. Il precedente excursus convince, in definitiva, del fatto che la nozione di esaurimento del rapporto esecutivo ostativo alla rideterminazione della pena deve essere intesa nella sua accezione piu’ ampia, comprensiva sia della sanzione detentiva che di quella pecuniaria.
In questa direzione si e’, del resto, espressa, di recente, questa Sezione con la sentenza n. 8583 del 28/01/2020, non massimata, nella quale e’ stato ulteriormente segnalato, a supporto di siffatta interpretazione, come essa sia coerente con la previsione, all’articolo 657 c.p.p., comma 3, della fungibilita’ della carcerazione sine titulo nel computo, previo ragguaglio, della pena pecuniaria da eseguire.
In concreto, allora, il soggetto che abbia scontato una pena detentiva superiore a quella ricalcolata per effetto dell’intervento del giudice delle leggi e non ancora pagato l’importo dovuto a titolo di multa mantiene interesse alla complessiva rideterminazione del trattamento sanzionatorio quantomeno in vista dell’abbattimento, previa conversione del periodo detentivo espiato in eccesso nella corrispondente pena pecuniaria, del quantum da versare.
Logica conseguenza dell’enunciato approccio euristico e’ che, nel caso di non avvenuta esecuzione della sola multa, la rideterminazione debba interessare anche quella detentiva, eventualmente anche in funzione della commisurazione, in caso di esecuzione di pene concorrenti, della pena residua da espiare.
A quest’ultimo proposito, e’ noto che, in tema di esecuzione delle pene concorrenti inflitte con condanne diverse, opera il principio dell’unita’ del rapporto esecutivo, alla stregua del quale le pene inflitte per reati commessi prima dell’inizio dell’esecuzione vanno, all’esito dell’operazione di cumulo da compiere ai sensi degli articoli 71 e 80 c.p., considerate come pena unica (Sez. 1, 23/04/2004, Di Bella, Rv. 228138).
Il giudizio in ordine all’esaurimento del rapporto esecutivo dipendente dalla condanna interessata dalla pronuncia di incostituzionalita’ richiede, pertanto, l’esame del complessivo rapporto esecutivo che riguarda il condannato, secondo i principi che regolano la materia (Sez. 1, 23/04/2010, Fabiano, Rv. 247076; Sez. 1, 30/06/2014, Facella, Rv. 261197), e verificando poscia, una volta individuato il cumulo parziale che riguarda la pena inflitta con la sentenza oggetto della richiesta di rideterminazione, se la complessiva pena determinata in quel cumulo sia stata o meno interamente espiata.
In questo senso si e’, del resto, espressa la giurisprudenza sopra gia’ richiamata (Sez. 6, n. 27403 del 10/06/2016, Crivello, Rv. 267365; Sez. 1, n. 32205 del 26/06/2015, Gomes Toscani, Rv. 264620), che ha riconosciuto il diritto alla rideterminazione della pena anche nel caso in cui ne possa derivare una porzione di sanzione da imputare, in quando espiata sine titulo, alla esecuzione di altra sentenza di condanna.
12. Alle precedenti considerazioni consegue l’annullamento dell’ordinanza impugnata, con rinvio alla Corte di appello di Napoli perche’ proceda ad un nuovo esame dell’istanza proposta, libero nell’esito ma ossequioso dei principi di diritto sopra esposti.
P.Q.M.
Annulla l’ordinanza impugnata e rinvia per nuovo esame alla Corte di appello di Napoli.
In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.
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