In tema di società di persone a fronte della pacifica appropriazione da parte dell’amministratore di somme acquisite al patrimonio sociale

Corte di Cassazione, civile, Ordinanza|12 maggio 2021| n. 12567.

In tema di società di persone, a fronte della pacifica appropriazione, da parte dell’amministratore, di somme acquisite al patrimonio sociale, spetta a quest’ultimo dimostrare che tali importi corrispondevano ad utili o compensi a lui dovuti. Infatti, se è vero che nelle società di persone il diritto del singolo socio a percepire gli utili è subordinato, ai sensi dell’art. 2262 cod. civ. alla approvazione del rendiconto, è altrettanto vero che grava sull’amministratore fornire la prova dell’approvazione di rendiconti tali da dar ragione del maturarsi di tale diritto e, in conseguenza, della legittimità dei corrispondenti prelievi operati. Tale onere probatorio vale anche con riguardo al diritto al compenso, giacché, anche per quest’ultimo, è l’amministratore a dover dimostrare che un eventuale storno trova giustificazione nell’esistenza di un credito certo, liquido ed esigibile di pari ammontare

Ordinanza|12 maggio 2021| n. 12567

Data udienza 21 gennaio 2021

Integrale

Tag/parola chiave: Società di persone – Soci – Percezione utili – Amministratore – Appropriazione di somme acquisite al patrimonio sociale – Natura di utili o compensi dovuti – Accertamento – Onere probatorio gravante sull’amministratore – Sussistenza

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCALDAFERRI Andrea – Presidente

Dott. SCOTTI Umberto L. C. G. – Consigliere

Dott. NAZZICONE Loredana – Consigliere

Dott. FALABELLA Massimo – rel. Consigliere

Dott. AMATORE Roberto – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA
sul ricorso 12022/2017 proposto da:
(OMISSIS), elettivamente domiciliato in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), rappresentato e difeso dall’avvocato (OMISSIS), giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
(OMISSIS) S.n.c., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), rappresentata e difesa dall’avvocato (OMISSIS), giusta procura in calce al controricorso;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1743/2016 della CORTE D’APPELLO di CATANZARO, pubblicata il 03/11/2016;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 21/01/2021 dal Cons. Dott. FALABELLA MASSIMO.

FATTI DI CAUSA

1. – (OMISSIS) s.n.c. conveniva in giudizio (OMISSIS), amministratore oramai revocato della societa’, per sentirne dichiarata la responsabilita’ discendente dall’arbitraria sottrazione dalle casse sociali delle somme di Euro 270.000,00 e di Euro 389.002,75, nonche’ dall’illegittimo trattenimento dell’ulteriore importo di Euro 52.750,00 relativo a proventi che avrebbero dovuto confluire nelle disponibilita’ liquide dell’ente. Domandava, pertanto, la condanna del convenuto alla restituzione della complessiva somma di Euro 711.752,75, oltre interessi, nonche’ al risarcimento dei danni causati.
(OMISSIS), nel costituirsi, eccepiva in via preliminare l’inammissibilita’ della domanda a fronte della sussistenza di una clausola arbitrale; sosteneva, inoltre, l’infondatezza della pretesa attorea deducendo di aver trattenuto le somme per pareggiare gli importi precedentemente prelevati dagli altri soci dalle casse sociali, “in acconto superiore al credito”.
Il Tribunale di Paola accoglieva la domanda di restituzione e respingeva quella risarcitoria.
2. – La pronuncia di primo grado era poi impugnata da (OMISSIS) avanti alla Corte di appello di Catanzaro che respingeva il gravame.
3. – Avverso la sentenza della Corte calabra, pronunciata il 3 novembre 2016, ricorre per cassazione, con cinque motivi, (OMISSIS). Resiste con controricorso (OMISSIS) s.n.c.. Il ricorrente ha depositato memoria.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Il primo motivo di ricorso oppone la nullita’ della sentenza e del procedimento per violazione e falsa applicazione del Decreto Legislativo n. 5 del 2003, articolo 1, comma 5, articolo 4, comma 2 e articolo 6, comma 1. Rileva il ricorrente che la Corte territoriale aveva ritenuto validamente introdotto, in primo grado, il giudizio di cui al R.G. n. 14/2010, successivo a quello recante R.G. n. 978/2009, avente lo stesso oggetto e vertente tra le stesse parti. E’ lamentato che il giudice dell’impugnazione non abbia rilevato che il secondo giudizio era stato proposto allorquando non era ancora spirato il termine per il prosieguo del primo, il quale era stato cancellato dal ruolo, giusta Decreto Legislativo n. 5 del 2003, articolo 1, comma 5: secondo l’istante, la Corte di appello avrebbe dovuto d’ufficio dichiarare l’improcedibilita’ della domanda introdotta col secondo giudizio e disporre l’annullamento della sentenza impugnata.
Il motivo e’ inammissibile.
La Corte di appello, con riguardo al tema della mancata costituzione dell’odierno ricorrente, ha osservato che nel fascicolo d’ufficio del procedimento R.G. n. 14/2010 non era dato di rinvenire ne’ la comparsa di risposta, ne’ il fascicolo della parte; ha aggiunto che (OMISSIS), in grado di appello, si era limitato ad unire al fascicolo di parte relativo al giudizio di gravame la memoria di costituzione prevista per il rito societario, priva di relata di notifica, in cui era stato contestato il contenuto dell’atto di citazione della controparte: ha osservato, al riguardo, che il Decreto Legislativo n. 5 del 2003, articolo 5, prevede, invece, che la costituzione in giudizio debba avvenire mediante deposito del fascicolo di parte contenente l’originale o la copia della comparsa di risposta notificata all’attore, la copia della citazione notificata, la procura e i documenti offerti in comunicazione. Secondo il giudice dell’impugnazione, inoltre, non sarebbe stato possibile obiettare che, in presenza della cancellazione della causa dal ruolo (a norma dell’articolo 1, comma 5 Decreto Legislativo cit.), il processo fosse proseguito tra le originarie parti (e che, per conseguenza, rilevasse la regolare costituzione del convenuto nella fase precedente il mutamento del rito): e cio’ in quanto, a seguito della cancellazione dal ruolo della causa R.G. n. 978/2009, la societa’ (OMISSIS) aveva “instaurato un nuovo giudizio notificando un autonomo atto di citazione con conseguente nuova iscrizione a ruolo”.
La censura non coglie, nella sua pienezza, l’argomentazione che qui viene contrastata, la quale ruota intorno all’alterita’ dei due giudizi: il primo introdotto nelle forme del rito ordinario e il secondo in quelle dell’abrogato rito societario. Come e’ evidente, disposta la cancellazione della causa dal ruolo, il primo procedimento avrebbe dovuto essere riattivato dall’attore con la memoria di replica prevista dal Decreto Legislativo n. 5 del 2003, articolo 6; nella fattispecie, invece, la societa’ provvide a notificare una nuova citazione, e quindi a introdurre un nuovo giudizio. L’affermazione del ricorrente secondo cui tale iniziativa avrebbe comportato il prodursi di una litispendenza – per il che, e’ spiegato, il secondo giudizio avrebbe dovuto dichiararsi improcedibile – non puo’ essere condivisa. Non puo’ aversi litispendenza ex articolo 39 c.p.c., comma 1, tra due cause pendenti avanti al medesimo ufficio (per tutte: Cass. 23 settembre 2013, n. 21761). Tra giudizi introdotti avanti allo stesso giudice puo’ operarsi semmai la riunione: nondimeno, in termini generali, il provvedimento di riunione previsto dall’articolo 274 c.p.c., relativo alla stessa causa (riunione obbligatoria) o a cause diverse ma connesse (riunione facoltativa), ovvero dettato da motivi di economia processuale, essendo strumentale e preparatorio rispetto alla futura definizione della controversia, e’ rimesso al potere discrezionale del giudice di merito e non e’ sindacabile in sede di legittimita’ (Cass. 4 ottobre 2004, n. 19840; nel senso che l’inosservanza dell’obbligo di disporre la riunione dei procedimenti relativi alla stessa causa non comporta la nullita’ del giudizio e della sentenza che abbia concluso uno dei procedimenti: Cass. 31 maggio 2006, n. 13001).
Oltretutto, in assenza di riassunzione il procedimento di cui al R.G. n. 978/2009 deve essersi estinto, non essendovi evidenza, relativamente ad esso, di alcuna attivita’ processuale consistente nella (tempestiva) notifica di scritti difensivi o dell’istanza di fissazione di udienza: al momento della pronuncia di primo grado del procedimento R.G. n. 14/2010, pertanto, questo era l’unico giudizio pendente avanti al Tribunale di Paola tra le odierne contendenti, vertente sulla responsabilita’ di (OMISSIS) per mala gestio. Tale circostanza – merita aggiungere – sarebbe stata decisiva anche nel caso in cui i procedimenti fossero stati introdotti avanti a giudici diversi: infatti, laddove trova applicazione la disciplina di cui all’articolo 39 c.p.c., la questione relativa alla sussistenza della litispendenza deve essere decisa con riguardo alla situazione processuale esistente al momento della relativa pronuncia (Cass. 22 dicembre 2016, n. 26862; Cass. 31 marzo 2011, n. 7478), sicche’ il giudice successivamente adito deve respingere la relativa eccezione allorquando a tale data il giudizio preventivamente instaurato non sia piu’ pendente per intervenuta estinzione (Cass. 1 dicembre 2010, n. 24376; Cass. 16 gennaio 2006, n. 721; si vedano inoltre le pur datate Cass. 28 aprile 1989, n. 2000 e Cass. 16 aprile 1984, n. 2462, per le quali l’estinzione di un processo per inattivita’ delle parti puo’ essere accertata incidenter tantum dal giudice di un diverso processo, e quindi, in caso di litispendenza, anche da quello che e’ stato investito per secondo della medesima causa)
2. – Col secondo mezzo e’ dedotta la nullita’ della sentenza del procedimento per violazione o falsa applicazione del Decreto Legislativo n. 5 del 2003, articolo 5, L. n. 69 del 2009, articolo 54, commi 5 e 6, oltre che dell’articolo 163 c.p.c., n. 7 e la nullita’ dell’atto di citazione; e’ altresi’ denunciata la violazione degli articoli 159 e 161 c.p.c., nonche’ dell’articolo 183 c.p.c. e dell’articolo 24 Cost.. Osserva il ricorrente che la Corte di appello, dopo aver osservato che il giudizio R.G. n. 14/2010 era autonomo rispetto al primo (R.G. n. 978/2009), non si era avveduta che esso non era disciplinato dal rito societario, quanto piuttosto dal rito ordinario: e’ in conseguenza rilevato che l’atto introduttivo della causa doveva contenere gli avvertimenti di cui all’articolo 163 c.p.c., n. 7, onde la citazione introduttiva, che mancava di essi, era da ritenersi nulla. E’ rilevato che cio’ aveva impedito ad esso ricorrente di costituirsi ritualmente, nei termini e nelle forme previste per il giudizio ordinario, ai sensi dell’articolo 166 c.p.c. e che da cio’ era inoltre conseguita la mancata deduzione dei mezzi istruttori.
Il motivo e’ privo di fondamento.
L’erronea applicazione delle regole del codice di rito non puo’ pregiudicare o aggravare in modo non proporzionato l’accertamento del diritto, in quanto la pronuncia di merito e’ garanzia di effettivita’ della tutela ex articolo 24 Cost.; inoltre l’articolo 111 Cost., assegna rilievo costituzionale al principio di ragionevole durata del processo al pari di quello del diritto di difesa, sicche’ il contemperamento dei due principi porta ad escludere la correttezza di interpretazioni che prevedano la regressione del processo per il mero rilievo della mancata realizzazione di determinate formalita’, la cui omissione non abbia in concreto comportato limitazioni delle garanzie difensive (Cass. 5 aprile 2018, n. 8422; cfr. pure, in tema, Cass. 17 ottobre 2014, n. 22075 e Cass. n. 27 gennaio 2015, n. 1448). In particolare, dall’adozione di un rito errato non deriva alcuna nullita’, ne’ la stessa puo’ essere dedotta quale motivo di impugnazione, a meno che l’errore di rito non abbia inciso sul contraddittorio o sull’esercizio del diritto di difesa o non abbia, in generale, cagionato un qualsivoglia altro specifico pregiudizio processuale alla parte (Cass. 29 settembre 2005, n. 19136).
Nella specie, l’unico pregiudizio fatto valere dal ricorrente e’ quello che si assume essere derivato dalla mancata presenza, nella citazione attorea, dell’avvertimento di cui all’articolo 163 c.p.c., n. 7. Tale avvertimento non risulta effettivamente previsto dal Decreto Legislativo n. 5 del 2006, articolo 2; nondimeno, l’odierno ricorrente non puo’ opporre che l’erronea applicazione dell’abrogato rito societario lo abbia privato del diritto di difesa che e’ correlato all’indicato avvertimento: questo ha ad oggetto le decadenze riferite alle domande riconvenzionali, alle eccezioni proponibili a norma dell’articolo 38 c.p.c. e alle eccezioni in senso stretto: e’ tuttavia da osservare che nel corso del giudizio non risultano essere state proposte domande riconvenzionali (che l’istante, del resto, nemmeno deduce di aver inteso svolgere) e che nel rito societario le eccezioni non rilevabili d’ufficio e la stessa eccezione di incompetenza possono essere sollevate fino alla seconda memoria difensiva depositata del Decreto Legislativo n. 5 del 2003, ex articolo 7, comma 1 (Cass. Sez. U. 23 gennaio 2017, n. 1641; Cass. 18 aprile 2014, n. 9028). Il ricorrente non e’ stato quindi pregiudicato dalla mancata presenza, nel corpo della citazione attorea, dell’avvertimento concernente le richiamate eccezioni, visto che esse non andavano sollevate, a pena di decadenza, nella comparsa di risposta: oltretutto, una questione di competenza, precisamente riferita al tema della devoluzione della controversia agli arbitri, e’ stata bensi’ affrontata nel corso del giudizio, ma senza che assumessero rilievo profili di preclusione processuale.
2. – Col terzo motivo e’ lamentata la nullita’ della sentenza e del procedimento per violazione dell’articolo 132 c.p.c., articolo 118 disp. att. c.p.c. e articolo 111 Cost.. Il mezzo di censura investe la sentenza impugnata nella parte in cui e’ ivi osservato che dalla lettura dei bilanci sociali non si desumerebbe che esso ricorrente avesse conseguito, alla data di chiusura degli esercizi degli anni 2006, 2007 e 2008, il diritto alla percezione di utili per un importo pari alle somme indebitamente sottratte, ovvero compensi per lo stesso importo. E’ osservato non potersi giustificare, attraverso l’esame solo parziale della situazione contabile della societa’, l’affermazione di responsabilita’ dell’istante e la conseguente sussistenza degli obblighi restitutori.
Col quarto motivo vengono denunciate la violazione o falsa applicazione degli articoli 2260, 2262 e 2303 c.c., nonche’ dell’articolo 2697 c.c.. E’ in sintesi osservato che l’eventuale mancata emersione processuale dei crediti di (OMISSIS) dagli ultimi tre bilanci non escludeva che i crediti medesimi potessero trovar riscontro nella precedente contabilita’. Viene rilevato, al riguardo, che il socio della societa’ in nome collettivo ha diritto di percepire la sua parte di utili dopo l’approvazione del rendiconto, senza che sia a tal fine necessaria una Delibera assembleare di approvazione della ripartizione degli utili stessi. E’ dedotto, inoltre, che l’onere della prova della mala gestio della societa’ competeva a quest’ultima e che era errato ritenere che spettasse all’amministratore la prova di aver correttamente adempiuto ai propri obblighi e di aver maturato, nel corso degli anni, crediti nei confronti della societa’ in misura corrispondente alle somme di cui si era riappropriato.
Il quinto mezzo denuncia l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che e’ stato oggetto di discussione tra le parti. Il ricorrente si duole del mancato accertamento dell’inadempimento della societa’, della effettiva consistenza dell’ammontare degli utili a lui spettanti e di ogni altra somma allo stesso dovuta, siccome maturata nel corso degli anni, fino alla presunta illegittima sottrazione, nonche’, infine, della consistenza degli utili spettanti a ciascun socio e dei prelevamenti non autorizzati di contante posti in essere. Viene evidenziato come, sebbene agli atti del giudizio di cui al R.G. n. 14/2010 non fosse presente l’originale della comparsa di risposta, la Corte di appello avrebbe dovuto considerare le difese svolte e i documenti prodotti nel precedente procedimento, acquisendo il pertinente fascicolo (R.G. n. 978/2009).
I tre motivi possono esaminarsi congiuntamente e sono infondati.
La sentenza impugnata e’ censurata nella parte in cui la Corte di appello ha osservato che la societa’ attrice aveva prodotto in giudizio i bilanci relativi agli anni 2006, 2007 e 2008, i quali erano stati regolarmente approvati, e ha inoltre rilevato che dalla lettura degli stessi non emergeva la maturazione, in capo a (OMISSIS), di “utili per un importo pari alle somme indebitamente sottratte, ovvero compensi all’amministratore per uguale importo”.
Cio’ detto, la deduzione del ricorrente secondo la quale il giudice distrettuale avrebbe preso in esame elementi contabili parziali, laddove avrebbe dovuto verificare l’ammontare degli utili e dei compensi maturati dall’amministratore nel corso degli anni, non coglie nel segno.
Infatti, a fronte della pacifica appropriazione, da parte dell’amministratore, di somme acquisite al patrimonio sociale, spettava al detto soggetto dimostrare che tali importi corrispondevano a utili o compensi a lui dovuti.
Se e’ vero, in particolare, che nelle societa’ di persone il diritto del singolo socio a percepire gli utili e’ subordinato, ai sensi dell’articolo 2262 c.c., alla approvazione del rendiconto (Cass. 4 luglio 2018, n. 17489; Cass. 31 dicembre 2013, n. 28806), e’ altrettanto vero che gravava sull’amministratore fornire la prova dell’approvazione di rendiconti che dessero ragione del maturarsi di tale diritto (e, in conseguenza, della legittimita’ dei corrispondenti prelievi). Analoghe considerazioni possono formularsi con riguardo al diritto al compenso, giacche’, anche sul punto, era l’odierno ricorrente a dover dimostrare che lo storno attuato trovava giustificazione nell’esistenza di un credito certo, liquido ed esigibile di pari ammontare.
Tale conclusione puo’ dirsi imposta dalla natura contrattuale della responsabilita’ dell’amministratore: questa Corte, con riguardo alle societa’ di capitali, ha gia’ avuto modo di rilevare che la responsabilita’ degli amministratori sociali per i danni cagionati alla societa’ amministrata ha natura contrattuale sicche’ la societa’ (o il curatore, nel caso in cui l’azione sia proposta L. Fall., ex articolo 146) e’ tenuto ad allegare le violazioni compiute dagli amministratori ai loro doveri, come pure a provare il danno e il nesso di causalita’ tra la violazione e il danno, mentre spetta agli amministratori provare, con riferimento agli addebiti contestatigli, l’osservanza dei predetti doveri (Cass. 31 agosto 2016, n. 17441). La stessa conclusione si impone con riferimento alle societa’ di persone.
A fronte di disponibilita’ patrimoniali pacificamente fuoriuscite dall’attivo della societa’, questa, nell’agire per il risarcimento del danno nei confronti dell’amministratore, puo’ dunque limitarsi ad allegare l’inadempimento, consistente nella distrazione delle dette risorse, mentre compete allo stesso amministratore la prova del suo adempimento, consistente nella destinazione delle attivita’ patrimoniali all’estinzione di debiti sociali (come quelli eventi ad oggetto gli utili di esercizio e i compensi spettantigli) o il loro impiego per lo svolgimento dell’attivita’ sociale, in conformita’ della disciplina normativa e statutaria. Puo’ menzionarsi, al riguardo, un arresto della giurisprudenza di legittimita’ in fattispecie analoga: infatti, proprio muovendo dalla natura contrattuale della responsabilita’ dell’amministratore sociale, questa Corte ha precisato che la societa’ richiedente il risarcimento del danno, o il curatore, in caso di sopravvenuto fallimento di quest’ultima, sia tenuta a dedurre l’inadempimento dell’amministratore quanto alle giacenze di magazzino, restando poi a carico del convenuto l’onere di dimostrare l’utilizzazione delle merci nell’esercizio dell’attivita’ di impresa (Cass. 10 agosto 2016, n. 16952).
In assenza di riscontri in tal senso, non vale, poi, eccepire che la Corte di appello avrebbe dovuto prendere in esame le difese svolte e i documenti prodotti nel giudizio per cui era stato disposto il mutamento del rito, e che non fu riassunto: e’ evidente, difatti, che, risultando i due giudizi indipendenti l’uno dall’altro, nessuna norma consentiva di riversare in modo automatico le allegazioni e le prove del procedimento R.G. n. 978/2009 in quello di cui al R.G. n. 14/2010.
3. – In conclusione, il ricorso e’ respinto.
4. – Per le spese di giudizio opera il criterio della soccombenza.

P.Q.M.

La Corte;
rigetta il ricorso; condanna parte ricorrente al pagamento, in favore della parte controricorrente, delle spese del giudizio di, legittimita’, che liquida in Euro 7.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge; ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2002, articolo 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, articolo 1, comma 17, da’ atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.

 

In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.

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