In tema di patteggiamento e la motivazione del rigetto dell’istanza

Corte di Cassazione, sezione terza penale, Sentenza 15 maggio 2020, n. 15216.

Massima estrapolata:

In tema di patteggiamento, la motivazione del rigetto dell’istanza di cui all’art. 448 cod. proc. pen. per incongruità della pena indicata dalle parti non deve essere necessariamente espressa potendo essere implicitamente desunta dalla irrogazione, all’esito del giudizio, di un trattamento sanzionatorio in assoluto più elevato rispetto a quello oggetto della richiesta di definizione del giudizio secondo il rito speciale. (Fattispecie in cui la misura finale della pena irrogata all’esito dei procedimenti di merito, anche se ridotta di un terzo per l’eventuale applicazione della diminuente per il rito, non avrebbe potuto aritmeticamente raggiungere la misura oggetto della proposta congiunta).(Vedi n. 8494/94, Rv. 198782).

Sentenza 15 maggio 2020, n. 15216

Data udienza 13 dicembre 2019

Tag – parola chiave: Violenza sessuale – A danno di minore – Testimonianza – della persona offesa – Valutazione – Condanna dell’imputato – Principio dell’oltre ogni ragionevole dubbio – Silenzio e contumacia dell’imputato – Verifica di ipotesi alternative alla ricostruzione dei fatti – Obbligo del giudice – Esclusione

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. IZZO Fausto – Presidente

Dott. LIBERATI Giovanni – Consigliere

Dott. CORBETTA Stefano – Consigliere

Dott. SCARCELLA Alessio – rel. Consigliere

Dott. ZUNICA Fabio – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
(OMISSIS), nato a (OMISSIS);
avverso la sentenza del 22/01/2019 della CORTE APPELLO di TRIESTE;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Dr. ALESSIO SCARCELLA;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dr. CUOMO LUIGI, che ha concluso chiedendo l’inammissibilita’ del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza 22.01.2019, la Corte d’appello di Trieste, in parziale riforma della sentenza 4.02.2016 del tribunale di Gorizia, appellata dal (OMISSIS), riconosciuta l’attenuante di cui all’articolo 609 bis c.p., u.c., e le circostanze attenuanti generiche, prevalenti sull’aggravante contestata, rideterminava la pena inflitta in 3 anni e 9 mesi di reclusione, riducendo la pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici in anni 5, confermando nel resto l’appellata sentenza che lo aveva riconosciuto colpevole del reato di violenza sessuale continuata ed aggravata ai danni di una minore, sin dall’eta’ di 11 anni, nonche’ del reato di stato di incapacita’ procurato mediante violenza ex articolo 613 c.p., fatti commessi secondo le modalita’ esecutive e spazio temporali meglio descritte nei capi di imputazione.
2. Contro la sentenza ha proposto ricorso per cassazione l’imputato, a mezzo del difensore di fiducia, iscritto all’Albo speciale previsto dall’articolo 613 c.p.p., articolando quattro motivi di ricorso, di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex articolo 173 disp. att. c.p.p..
2.1. Deduce, con il primo motivo, il vizio di insufficienza e contraddittorieta’ della motivazione in ordine alla valutazione della testimonianza della p.o., attesa l’insussistenza del fatto.
Premette il ricorrente che i giudici di merito avrebbero escluso la responsabilita’ dell’imputato per tutti i fatti di violenza sessuale, fatta eccezione del primo, quello avvenuto allorche’ la minore si trovava nel letto coniugale, datato 2006 nella decisione della Corte territoriale e 2004, nella decisione del primo giudice. Tale fatto si baserebbe esclusivamente sulle dichiarazioni della minore rese nel 2013, con riferimento a fatti del 2004 o 2006, quando la minore aveva 9 o 11 anni. La percezione di fatti avvenuti a tale eta’, osserva la difesa, ed il riferimento degli stessi a 7 o 9 anni di distanza, non potrebbe essere sicuramente dotata di quella forza di convincimento necessaria a supportare una sentenza di condanna. La stessa madre della p.o., avrebbe riferito in realta’ di non aver dato peso all’episodio, potendo lo stesso essere un toccamento casuale della bambina, dovuto al fatto che i tre quella notte avevano dormito nello stesso letto; si tratterebbe, dunque, di un’erronea valutazione della deposizione, che si traduce in difetto motivazionale tale da inficiare la sentenza.
2.2. Deduce, con il secondo motivo, il vizio di contraddittorieta’ della motivazione per mancato riconoscimento della seminfermita’ mentale, e correlato vizio di mancata assunzione di una prova decisiva gia’ richiesta nel giudizio di primo grado.
In sintesi, si rileva che nel corso del primo giudizio era stato sentito il Dott. (OMISSIS), che aveva riferito di un disturbo schizofrenico in capo al reo, riferendo altresi’ che la maturita’ dell’imputato poteva essere paragonata a quella di un adolescente. Non sarebbe quindi comprensibile come il tribunale, senza disporre una perizia psichiatrica, abbia potuto disattendere le affermazioni del c.t.p. Le medesime potevano non apparire persuasive per poter affermare la sussistenza dell’attenuante della seminfermita’, ma certo costituivano motivo tale da indurre il collegio ad un maggior approfondimento, disponendo perizia. Non apparirebbe nemmeno esaustiva la sentenza laddove afferma che le dichiarazioni del c.t.p. soffrono limitazioni e contraddizioni gia’ evidenziate dal primo giudice, ossia di aver escluso test approfonditi e aver dichiarato che sin dal 2012 era specificatamente in cura presso tale Dott. (OMISSIS), che non aveva pero’ evidenziato alcun tipo di scompenso psichico. Detti argomenti non sarebbero per la difesa tali e sufficienti da inficiare gli elementi indiziari, relativi ad una seminfermita’, comunque posti in rilievo dal c.t.p. Peraltro, era stata gia’ formulata nel primo giudizio istanza diretta a disporre perizia psichiatrica, sicche’ la non ammissione si risolverebbe in una mancata assunzione di prova decisiva, inficiando la motivazione delle sentenze di merito.
2.3. Deduce, con il terzo motivo, il vizio di motivazione in ordine alla mancata esclusione dell’aggravante di cui all’articolo 609-ter c.p., n. 2.
Rilevato che il ricorrente e’ stato riconosciuto colpevole di un solo episodio, si osserva che la somministrazione alla minore del farmaco fosse intervenuta solo in date successive, ossia allorche’ la minore era stata affidata di fatto all’imputato. Nel contesto dell’unico episodio per cui e’ intervenuta condanna la minore non aveva assunto alcuna sostanza tale da ingenerare incapacita’ di volere, donde l’aggravante relativa avrebbe dovuto essere esclusa. Detta esclusione andrebbe ad inficiare la determinazione della pena nel giudizio di prevalenza da effettuarsi con riferimento alla sola aggravante di cui all’articolo 609-ter c.p., n. 1, cio’ che potrebbe comportare una riduzione della pena.
2.4. Deduce, con il quarto motivo, il vizio di mancata e contraddittoria motivazione in ordine all’istanza di applicazione della pena ritualmente proposta.
Si duole la difesa in quanto non emergerebbe ne’ dalla prima sentenza ne’ dalla seconda, un’espressa valutazione di non congruita’ della pena proposta ex articolo 444 c.p.p. nella congiunta istanza depositata dal Pm e dalla difesa, determinata in ani 2 di reclusione, subordinata alla sospensione condizionale della pena.

CONSIDERATO IN DIRITTO

3. il ricorso e’ inammissibile.
4. E’ anzitutto affetto da genericita’ per aspecificita’, in quanto non si confronta con le argomentazioni svolte nella sentenza impugnata che confutano in maniera puntuale e con considerazioni del tutto immuni dai denunciati vizi motivazionali le identiche doglianze difensive svolte nel motivo di appello (che, vengono, per cosi’ dire “replicate” in questa sede di legittimita’ senza alcun apprezzabile elementi di novita’ critica), esponendosi quindi al giudizio di inammissibilita’. Ed invero, e’ pacifico nella giurisprudenza di questa Corte che e’ inammissibile il ricorso per cassazione fondato su motivi non specifici, ossia generici ed indeterminati, che ripropongono le stesse ragioni gia’ esaminate e ritenute infondate dal giudice del gravame o che risultano carenti della necessaria correlazione tra le argomentazioni riportate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’impugnazione (v., tra le tante: Sez. 4, n. 18826 del 09/02/2012 – dep. 16/05/2012, Pezzo, Rv. 253849).
5. Lo stesso e’ inoltre da ritenersi manifestamente infondato, atteso che la Corte d’appello ha, con motivazione adeguata e del tutto immune dai denunciati vizi, spiegato le ragioni per le quali ha disatteso le identiche doglianze difensive esposte nei motivi di impugnazione.
6. Ed invero, quanto al primo motivo, i giudici di appello pervengono a ritenere provata la responsabilita’ penale dell’imputato limitatamente al primo episodio, quello subito negli anni 2006/2007, allorche’ la minore aveva 11 anni. Danno atto che la ricostruzione dell’occorso si fondava sulle dichiarazioni rese dalla minore nel corso dell’esame protetto svoltosi in data 9.10.2013, che, dopo aver collocato nel tempo accuratamente l’accaduto, aveva raccontato di essere svegliata di notte tutta bagnata rendendosi conti di essersi fatta la pipi’ addosso, e, dopo essersi cambiata, si era portata nel lettone dove dormiva la madre insieme all’imputato. La ragazzina si era avveduta ad un certo punto che l’uomo le metteva le mani dentro le mutandine, iniziando a palpeggiarla nelle parti intime, dopo di che, resasi conto di quanto stava accadendo, si era spostata e l’uomo aveva immediatamente ritratto la mano fuori dalle mutandine facendo finta di dormire. A quel punto la ragazzina aveva detto alla madre che tornava nel suo letto e, il giorno dopo, aveva riferito alla madre di quanto accaduto, tanto che la donna aveva ripreso l’imputato ammonendolo che cio’ non accadesse piu’. I giudici hanno escluso la credibilita’ della tesi sostenuta dall’imputato secondo cui egli credeva di essere accanto alla moglie, in quanto non si sarebbe potuto spiegare, se cosi’ fosse stato, il repentino scostamento della mano dell’uomo non appena la ragazza si era accorta del palpeggiamento, tanto piu’ che all’epoca dei fatti, tra l’imputato e la madre della minore vi erano rapporti sessuali normali. I giudici dunque escludono che vi fosse stato un avvicinamento durante la notte ed un errore di questo tipo, non credendo di avere la figlioccia nel letto, essendo l’errore incompatibile con le modalita’ comportamentali dell’uomo, peraltro descritte puntualmente dalla minore che aveva ricordato con precisione l’episodio senza possibilita’ di confonderlo per il tempo trascorso, cosi’ smentendo quanto sostenuto dalla difesa. I giudici, peraltro, ritengono le dichiarazioni della minore non solo intrinsecamente attendibili, ma anche estrinsecamente attendibili perche’ riscontrate da quelle della madre, cui la ragazzina aveva riferito i fatti il giorno dopo, provocando le rimostranze della madre verso l’imputato evidenziandogli come fosse incredibile la tesi che questi si fosse sbagliato, non essendo la madre di statura analoga a quella della moglie, ed altre considerazioni similari. I giudici, del resto, puntualizzano come l’imputato non avesse nemmeno fornito una versione alternativa dei fatti, rimanendo in silenzio durante il processo, richiamando correttamente il principio, gia’ affermato da questa Corte, secondo cui il giudice, per dichiarare colpevole “al di la’ di ogni ragionevole dubbio” l’imputato che sia rimasto contumace o si sia avvalso del diritto al silenzio rinunciando cosi’ a prospettare una sua versione dei fatti, non ha l’obbligo di verificare le ipotesi alternative alla ricostruzione dei fatti quale emergente dalle risultanze probatorie (in motivazione la Corte ha precisato che il giudice non e’ tenuto a tale verifica in quanto l’imputato, con tale condotta processuale, non ha offerto al contraddittorio dibattimentale, dichiarandola, la sua verita’ dei fatti stessi: Sez. 3, n. 30251 del 15/07/2011 – dep. 29/07/2011, Allegra, Rv. 251313). A cio’, peraltro, i giudici di appello aggiungono la regola generale, gia’ autorevolmente affermata da questa Corte, per la quale le regole dettate dall’articolo 192 c.p.p., comma 3, non si applicano alle dichiarazioni della persona offesa, le quali possono essere legittimamente poste da sole a fondamento dell’affermazione di penale responsabilita’ dell’imputato, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilita’ soggettiva del dichiarante e dell’attendibilita’ intrinseca del suo racconto, che peraltro deve in tal caso essere piu’ penetrante e rigoroso rispetto a quello cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone (in motivazione la Corte ha altresi’ precisato come, nel caso in cui la persona offesa si sia costituita parte civile, puo’ essere opportuno procedere al riscontro di tali dichiarazioni con altri elementi: Sez. U, n. 41461 del 19/07/2012 – dep. 24/10/2012, Bell’Arte ed altri, Rv. 253214).
E, nel caso di specie, non essendosi nemmeno costituita la p.o. parte civile, denotando cio’ l’assenza di interessi patrimoniali, non poteva che ribadirsi la piena attendibilita’ complessiva della minore, attesa anche la mancanza id motivi di astio o di risentimento e vendetta nei confronti dell’uomo, cui si aggiunge il riscontro rappresentato dalle dichiarazioni della madre.
7. Orbene, al cospetto di tale apparato argomentativo, le doglianze del ricorrente si appalesano manifestamente infondate, in quanto si risolvono nel “dissenso” sulla ricostruzione dei fatti e sulla valutazione delle emergenze processuali svolta dai giudici di merito, operazione vietata in sede di legittimita’, attingendo la sentenza impugnata e tacciandola per presunte violazioni di legge e per un vizio motivazionale con cui, in realta’, si propone una doglianza non suscettibile di sindacato da parte di questa Corte. Deve, sul punto, ribadirsi infatti che il controllo di legittimita’ operato dalla Corte di cassazione non deve stabilire se la decisione di merito proponga effettivamente la migliore possibile ricostruzione dei fatti, ne’ deve condividerne la giustificazione, ma deve limitarsi a verificare se tale giustificazione sia compatibile con il senso comune e con i limiti di una plausibile opinabilita’ di apprezzamento (v., tra le tante: Sez. 5, n. 1004 del 30/11/1999 – dep. 31/01/2000, Moro, Rv. 215745);
8. Quanto al secondo motivo, lo stesso si appalesa parimenti inammissibile.
Ed invero, circa la mancata previsione di una perizia psichiatrica, premesso che e’ pacifico nella giurisprudenza di questa Corte che la mancata effettuazione di un accertamento peritale non puo’ costituire motivo di ricorso per cassazione ai sensi dell’articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera d), in quanto la perizia non puo’ farsi rientrare nel concetto di prova decisiva, trattandosi di un mezzo di prova “neutro”, sottratto alla disponibilita’ delle parti e rimesso alla discrezionalita’ del giudice, laddove l’articolo citato, attraverso il richiamo all’articolo 495 c.p.p., comma 2, si riferisce esclusivamente alle prove a discarico che abbiano carattere di decisivita’ (Sez. U, n. 39746 del 23/03/2017 – dep. 31/08/2017, A e altro, Rv. 270936), deve rilevarsi che i giudici di merito hanno logicamente pretermesso la richiesta di seminfermita’ mentale dell’imputato fondata sulle dichiarazioni rese dal c.t.p., osservando come il primo giudice (pag. 4 sentenza impugnata) non aveva ritenuto convincenti le conclusioni rappresentante dal Dott. Cocchiati in ordine ad una presunta seminfermita’ mentale del reo al momento dei fatti, sia per le contraddizioni intrinseche della c.t.p., sia per lo sviluppo complessivo della condotta dell’imputato, che escludeva la sussistenza di una situazione di incapacita’.
Quanto sopra, dunque, era sufficiente per ritenere non necessario l’espletamento di una perizia psichiatrica, laddove si consideri che la decisione del giudice di merito di respingere la richiesta difensiva di una perizia psichiatrica tendente ad accertare nell’imputato un preteso vizio di mente, e’ incensurabile in Cassazione, trattandosi dell’uso di una facolta’ discrezionale dipendente da un apprezzamento di fatto, quando l’esercizio di tale facolta’ discenda dalla adeguata dimostrazione che non sussistono in atti elementi positivi e specifici tali da far sorgere il dubbio fondato di una minorata capacita’ intellettiva.
E, nel caso in esame, nessun elemento di seria consistenza risultava essere emerso, tale da consentire di ritenere esistente un effettivo rapporto tra il complesso delle anomalie psichiche riscontrate nel reo e il determinismo dell’azione delittuosa da lui commessa, non chiarendo il ricorrente (ne’ tantomeno avendo questi allegato la relazione del c.t.p., come pure sarebbe stato suo onere, al fine di consentire a questa Corte di apprezzare la doglianza di vizio motivazionale sollevata) se tale complesso di anomalie psichiche, al quale asseritamente la difesa riconosce il valore di malattia, avesse avuto un rapporto motivante con il fatto delittuoso commesso.
9. Quanto al terzo motivo, e’ inammissibile, risolvendosi in una vera e propria svista del ricorrente, atteso che sono gli stessi giudici di appello a precisare, dopo aver ritenuto insufficiente la prova della responsabilita’ del ricorrente in ordine agli episodi diversi da quello occorso quando la minore aveva 11 anni di eta’, a chiarire (penultima pagina, sentenza impugnata) che le attenuanti generiche e l’attenuante speciale di cui all’articolo 609-bis c.p., u.c., potevano essere riconosciute in regime di prevalenza “sulla contestata aggravante”, intendendo riferirsi ovviamente a quella di cui all’articolo 609-ter c.p., n. 1, non avendo infatti utilizzato i giudici di appello il plurale, donde appare evidente che gli stessi nell’adottare formula liberatoria con riferimento alle ipotesi di violenza sessuale successive a quella avvenuta nel 2006/2007, abbiano chiaramente inteso riferirsi anche all’aggravante di cui al n. 2 dell’articolo 609-ter c.p., comma 1, residuando infatti per I”unico episodio per cui e’ intervenuta condanna, l’aggravante di cui al n. 1.
10. Quanto, infine, alla mancata motivazione in ordine all’istanza ex articolo 448 c.p.p., trattasi di motivo che non sfugge al giudizio di inammissibilita’.
Sul punto e’ sufficiente rilevare che i giudici di appello, come gia’ il primo giudice, non erano tenuti a motivare in maniera espressa in ordine alla valutazione d’incongruita’ della pena proposta ex articolo 444 c.p.p. congiuntamente dal PM e dal difensore, attestantesi in 2 anni di reclusione, subordinata alla sospensione condizionale della pena.
Ed invero, la circostanza che sia il primo che il secondo giudice abbiano, valutati i criteri di cui all’articolo 133 c.p., ritenuto adeguata la pena finale in 7 anni di reclusione, il primo giudice, ed in 3 anni e 9 mesi di reclusione, i secondi, rende evidente per implicito di come i giudici non potessero ritenere congrua la pena proposta, essendosi attestati su un trattamento sanzionatorio assolutamente piu’ elevato (del resto, la pur ridotta pena inflitta in appello, in misura finale, ove ridotta di un terzo per l’eventuale applicazione del rito, aritmeticamente non avrebbe mai potuto raggiungere l’entita’ della pena finale proposta ex articolo 444 c.p.p.).
Peraltro, si noti, e’ pacifico nella giurisprudenza di questa Corte che il dovere di motivazione della sentenza e’ adempiuto, ad opera del giudice del merito, attraverso la valutazione globale delle deduzioni delle parti e delle risultanze processuali, non essendo necessaria l’analisi approfondita e l’esame dettagliato delle predette ed e’ sufficiente che si spieghino le ragioni che hanno determinato il convincimento, dimostrando di aver tenuto presente ogni fatto decisivo, nel qual caso devono considerarsi implicitamente disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata (tra le tante: Sez. 6, n. 20092 del 04/05/2011 – dep. 20/05/2011, Schowick, Rv. 250105).
11. Alla dichiarazione di inammissibilita’ del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonche’, in mancanza di elementi atti ad escludere la colpa nella determinazione della causa di inammissibilita’, al versamento della somma, ritenuta adeguata, di Euro 2.000,00 in favore della Cassa delle ammende.
12. Segue l’oscuramento dei dati attesa la natura dei reati per cui si e’ proceduto.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro duemila in favore della Cassa delle Ammende.
In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalita’ e gli altri dati identificativi, a norma del Decreto Legislativo n. 196 del 2003, articolo 52, in quanto imposto dalla legge.

 

In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.

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