In tema di insider trading e ne bis in idem

Corte di Cassazione, sezione quinta penale, Sentenza 30 settembre 2019, n. 39999.

Massima estrapolata:

In tema di insider trading e ne bis in idem, la disapplicazione della disciplina penale potrà avere luogo nell’ipotesi in cui la sanzione amministrativa già inflitta in via definitiva sia strutturata in maniera e misura tali da assorbire completamente il disvalore della condotta, poiché in tal caso il cumulo delle sanzioni risulta radicalmente sproporzionato.

Sentenza 30 settembre 2019, n. 39999

Data udienza 15 aprile 2019

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUINTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VESSICHELLI Maria – Presidente

Dott. MAZZITELLI Caterina – Consigliere

Dott. CATENA Rossella – Consigliere

Dott. BRANCACCIO Matilde – rel. Consigliere

Dott. RICCARDI Giuseppe – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
(OMISSIS), nato a (OMISSIS);
avverso la sentenza del 19/05/2017 della CORTE APPELLO di MILANO;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Dott.ssa BRANCACCIO MATILDE;
udito il Sostituto Procuratore Generale Dott. FIMIANI PASQUALE che ha concluso chiedendo l’annullamento con rinvio alla Corte d’Appello di Milano limitatamente al trattamento sanzionatorio e alla confisca della somma equivalente all’importo utilizzato per gli investimenti.
Rigetto nel resto.
Udito il difensore di parte civile CONSOB, avv. (OMISSIS), in sostituzione, che insiste sulle conclusioni scritte che deposita unitamente alla nota spese.
Uditi i difensori dell’imputato, gli avvocati (OMISSIS) e (OMISSIS), i quali insistono per l’accoglimento del ricorso con o senza rinvio e invocano la declaratoria di improcedibilita’ dell’azione penale.

RITENUTO IN FATTO

1. Con la decisione indicata in epigrafe, datata 19.5.2017, la Corte d’Appello di Milano, ha confermato la sentenza emessa dal Tribunale di Milano il 17.6.2014, con cui (OMISSIS) e’ stato condannato alla pena di anni due di reclusione e alla multa di 50.000 Euro, oltre alle spese processuali, nonche’ alla interdizione dai pubblici uffici e dalle funzioni direttive di persone giuridiche ed imprese oltre all’incapacita’ di contrattare con la P.A. per la durata di due anni, in relazione al reato di abuso di informazioni privilegiate (insider trading) previsto dal Decreto Legislativo n. 58 del 1998, articolo 184, comma 1, lettera a), commesso con l’utilizzazione indebita di informazioni nel compimento di operazioni di compravendita di strumenti finanziari.
In particolare, secondo l’ipotesi di accusa, (OMISSIS), in virtu’ della sua qualita’ di dirigente e socio anziano (senior) dell’area Transaction Services della Deloitte Financial Advisory Services (FAS), societa’ dedita ad attivita’ di consulenza finanziaria, sarebbe entrato in possesso di informazioni riservate sui progetti di Offerte Pubbliche di Acquisto di azioni della S.p.a. (OMISSIS) e della S.p.a. (OMISSIS), nonche’ sul programma di acquisizione del controllo della S.p.a. (OMISSIS), e si sarebbe avvalso di tali conoscenze acquisite in occasione dell’esercizio della sua attivita’ professionale per acquistare azioni di dette societa’ (15.000 della prima; 53.388 della seconda; 84.868 della terza), le cui quotazioni, alla luce delle suddette informazioni, avrebbero ragionevolmente avuto incrementi.
La condanna di primo grado, confermata in appello, prevedeva, altresi’, la confisca della somma in sequestro, pari all’equivalente del profitto del reato e dei beni utilizzati per commetterlo (e cioe’ non solo le plusvalenze realizzate ma anche l’ammontare del capitale investito per ottenerle), e, tra l’altro, il risarcimento dei danni alla parte civile CONSOB quantificati in 100.000 Euro oltre alla rifusione delle spese.
In primo grado erano stati assolti per insussistenza del fatto (e la sentenza e’ stata confermata anche su questo punto) i coimputati (OMISSIS) e (OMISSIS) per i reati loro contestati e specificamente, il primo, al capo b), per il reato di comunicazione di informazioni privilegiate quanto alla OPA su (OMISSIS) e su (OMISSIS), ed entrambi, in concorso, per il reato di abuso di informazioni privilegiate concernenti il progetto di acquisizione del controllo di (OMISSIS) s.p.a.
2. Avverso tale sentenza propone ricorso l’imputato tramite i propri difensori, avv. (OMISSIS) e (OMISSIS), deducendo otto motivi di ricorso.
2.1. Con il primo motivo si eccepisce violazione di legge in relazione all’articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera c) e articolo 125 c.p.p., comma 3, data la nullita’ della sentenza per mancanza di motivazione, ritenuta meramente apparente, nonche’ vizio di motivazione riferito alla lettera e) del medesimo articolo 606 c.p.p. per mancata risposta ai motivi d’appello.
La sentenza impugnata – si dice – non avrebbe assolto al proprio onere motivazionale autonomo; si sarebbe pedissequamente riportata alla sentenza di primo grado, ripresa in ampi stralci e ricalcata nella stessa struttura argomentativa; non avrebbe risposto effettivamente ai motivi d’appello, molto specifici, riproducendo, invece, la decisione del primo giudice con la tecnica del “copia e incolla” e aderendovi in modo apodittico, con mere parafrasi delle ragioni della sentenza confermata.
Il vizio motivazionale sarebbe evidente gia’ dal mero confronto delle due sentenze: quella d’appello per le prime quaranta pagine riproduce in maniera identica il provvedimento di primo grado, mentre le pagine dedicate alla sua autonoma valutazione (da 40 a 54) si compongono di affermazioni apodittiche che si risolvono in meri apprezzamenti adesivi alla sentenza appellata (la difesa cita singoli passaggi motivazionali che sarebbero prova di tale difetto motivazionale).
2.2. Il secondo motivo di ricorso deduce violazione di legge ex articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera b) e vizio di motivazione ai sensi della lettera e) della medesima disposizione in relazione all’articolo 533 c.p.p., poiche’ non si sarebbe raggiunta prova della previa conoscenza da parte dell’imputato dell’incarico di due diligence sulla societa’ (OMISSIS).
Mancherebbe la prova che l’imputato sia stato in possesso dell’informazione privilegiata relativa al progetto di OPA sul titolo ” (OMISSIS)” (che costituirebbe nell’impostazione difensiva elemento costitutivo della fattispecie di reato) e della stessa conoscenza da parte sua dell’incarico di due diligence conferito alla Deloitte FSA con riferimento alla societa’ predetta.
La mera concomitanza temporale tra l’incarico di due diligence conferito alla societa’ di consulenza finanziaria di cui il ricorrente e’ socio senior e gli investimenti da lui posti in essere non costituirebbero prova del previo possesso dell’informazione privilegiata sul progetto di OPA per il titolo ” (OMISSIS)” in contestazione.
Anzi, vi sarebbe prova contraria, poiche’ i testimoni sentiti in dibattimento hanno chiarito, fornendo diversi dettagli, l’estrema segretezza dell’informazione relativa alla operazione all’interno della societa’ di consulenza finanziaria e la circostanza che nessuno ne aveva riferito all’imputato.
In particolare, si e’ accertato che il socio responsabile dell’incarico di consulenza – (OMISSIS) – ha tenuto riservata la notizia, non parlandone all’imputato ne’ inserendola nello stesso planning di lavoro del gruppo di consulenza appositamente formato, proprio per evitare fughe di notizie (si cita in proposito la testimonianza di (OMISSIS), presidente e amministratore delegato della societa’ (OMISSIS)), sicche’ la motivazione delle due sentenze di merito sul punto, che collega la conoscenza dell’informazione proprio all’inserimento di tutti gli incarichi di consulenza dello studio nella rete intranet aziendale, e’ frutto di un travisamento della prova.
Al tempo stesso e’ stato violato il canone dell’oltre ogni ragionevole dubbio per l’affermazione di colpevolezza dell’imputato, agganciando la prova di quest’ultima ad una mera supposizione di possibile conoscenza dell’informazione privilegiata in ragione del suo ruolo nella societa’ di consulenza.
2.3. Il terzo motivo di ricorso deduce violazione di legge e vizio di motivazione (articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera b ed e) quanto alla affermazione di colpevolezza relativa alla quota di contestazione per l’abuso di informazioni privilegiate riferito alla OPA su azioni della (OMISSIS) S.p.a. ed alla mancata prova della conoscenza dell’incarico di consulenza in corso per detta societa’ da parte dell’imputato ricorrente. Le argomentazioni a fondamento dell’eccezione difensiva sono in parte analoghe a quelle gia’ esaminate nel precedente motivo di ricorso (il travisamento della prova testimoniale), in parte legate alla constatazione della incompatibilita’ temporale tra la tempistica delle operazioni di investimento contestate a (OMISSIS) ed il possesso di informazioni privilegiate relative all’OPA in corso da parte sua: infatti, l’imputato ha continuato ad acquistare titoli della (OMISSIS) anche quando la societa’ di consulenza di cui era socio aveva oramai cognizione che l’offerta pubblica non avrebbe avuto un esito positivo.
La Corte d’Appello non ha sciolto la contraddittorieta’ motivazionale tra le conclusioni di colpevolezza raggiunte nei confronti del ricorrente e quelle adottate nei confronti dei coimputati (OMISSIS) e (OMISSIS) che sono stati assolti sulla base di sovrapponibili considerazioni logiche e di fatto.
2.4. Il quarto motivo di ricorso argomenta, analogamente ai precedenti due motivi, violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all’affermazione di colpevolezza dell’imputato quanto all’abuso di informazioni privilegiate riferito all’acquisto delle azioni (OMISSIS) S.p.a.; allo stesso modo che nei riguardi delle altre due societa’ coinvolte, non vi sarebbe prova che il ricorrente fosse a conoscenza del progetto di acquisizione del controllo di detta societa’ e dell’OPA imminente nei suoi riguardi, ne’ dell’incarico di due diligence affidato alla (OMISSIS) FSA di cui era socio senior.
In particolare, si evidenzia che l’incarico di consulenza, benche’ inserito nel planning della (OMISSIS), era riservato e mascherato con un nome convenzionale ((OMISSIS)) non corrispondente a quello reale; anche in relazione ad esso, peraltro, le testimonianze raccolte nel processo si indirizzano nel senso di escludere la consapevolezza dell’incarico di consulenza in capo a (OMISSIS).
Inoltre, gli acquisiti delle azioni da parte sua sarebbero avvenuti ben prima dell’incarico di consulenza affidato alla (OMISSIS), a riprova della loro non ricollegabilita’ ad un utilizzo indebito di informazioni privilegiate acquisite in ragione del proprio ruolo.
Non risponde al vero, infatti, quanto affermato nelle sentenze di merito che l’incarico di consulenza sarebbe stato conferito nel luglio 2008, poiche’ a tale data esso era stato solo ipotizzato, mentre la due diligence sarebbe partita solo tra febbraio e marzo 2009, quando addirittura gli acquisti di (OMISSIS) erano terminati, sicche’, anche in tal caso, vi e’ stato un travisamento della prova.
Del resto, varrebbero per il ricorrente le stesse considerazioni che hanno condotto la Corte d’Appello a confermare l’assoluzione degli imputati (OMISSIS) e (OMISSIS) per la medesima operazione, proprio in ragione della mancata prova della sua conoscenza dell’informazione privilegiata, e la circostanza che l’operativita’ del ricorrente sul mercato si colloca in un periodo temporale del tutto al di fuori del lancio dell’OPA su (OMISSIS).
2.5. Il quinto motivo di ricorso argomenta illogicita’ della motivazione in relazione alla diversa valutazione operata dalla Corte d’Appello quanto alle vicende processuali, invece sovrapponibili, del ricorrente rispetto agli altri due coimputati assolti.
Il vizio motivazionale del provvedimento impugnato, ereditato dalla sentenza di primo grado in tutto richiamata, sarebbe evidente e legato alla insufficienza dell’unico canone di differenziazione delle posizioni individuato dai provvedimenti di merito, e cioe’ il diverso ruolo di (OMISSIS) – socio anziano e di maggiore esperienza della societa’ di consulenza (OMISSIS) – rispetto agli altri due coimputati, entrambi giovani ed inesperti, per quanto competenti; (OMISSIS), infatti, era tutt’altro che in posizione “sminuita” di conoscenza, poiche’ anzi egli lavorava per la (OMISSIS) stessa e proprio nel gruppo di lavoro per la due diligence nei confronti delle societa’ di cui alla contestazione di reato; (OMISSIS), invece, amico di (OMISSIS), e’ soggetto molto esperto in transazione di titoli ed e’ stato coinvolto direttamente nell’operazione (OMISSIS) come operatore, una volta ottenuta l’informazione privilegiata utile.
2.6. Il sesto motivo di ricorso deduce violazione di legge in relazione al Decreto Legislativo n. 58 del 1998, articolo 181, commi 1 e 3, e articolo 184.
La Corte d’Appello ha rigettato la prospettiva interpretativa proposta dalla difesa secondo cui l’abuso di informazioni privilegiate potrebbe configurarsi solo in presenza di una prossimita’ ravvicinata tra la condotta materiale di sfruttamento dell’informazione privilegiata ed il momento in cui viene lanciata l’operazione oggetto dell’informazione stessa (l’OPA sulle societa’ di cui alla contestazione di reato, nel caso di specie).
Cio’ ha fatto non soltanto interpretando erroneamente la giurisprudenza di legittimita’, ma anche dimenticando che la dottrina piu’ recente lega la configurabilita’ del reato di insider trading alla elisione del margine di rischio nell’operazione su titoli (tipico degli altri operatori “disinformati”), che si ottiene proprio grazie alla conoscenza ed all’utilizzo indebito dell’informazione privilegiata: elisione del rischio che non si sarebbe verificata nel caso di specie, poiche’ la natura dell’incarico di due diligence non consente alcuna formulazione prognostica o previsione sul buon esito finale dell’operazione di OPA.
Inoltre, la Corte d’Appello ha sostanzialmente valorizzato il fatto che, in ogni caso, l’incarico di due diligence rientrerebbe tra quelle operazioni intermedie che, alla luce delle nuove indicazioni fornite dal Regolamento UE n. 596 del 2014 (cd. MAR), entrato in vigore il 3 giugno 2016, hanno inteso la nozione di informazione privilegiata come inglobante, appunto, anche le tappe intermedie del processo che porta alla determinazione della circostanza o dell’evento futuro cui volge l’informazione stessa (in questo caso l’OPA).
Ebbene, tale interpretazione estensiva violerebbe il principio di irretroattivita’ della legge penale, poiche’ detta nozione estesa di informazione privilegiata e, in particolare, del suo carattere necessario di “precisione”, non potrebbe essere applicata ai fatti commessi in epoca antecedente all’entrata in vigore del citato Regolamento Europeo. Oltre alla deduzione di inapplicabilita’ retroattiva della disciplina Europea sfavorevole, il motivo obietta, altresi’, anche l’impossibilita’ in concreto di ritenere che un incarico di due diligence conferito ad una societa’ di consulenza integri una fase intermedia idonea ad essere considerata rilevante come informazione privilegiata.
Il diciassettesimo Considerando del Regolamento MAR, infatti, suggerisce le tipologie di situazioni riconducibili allo schema della fase intermedia e in questo elenco non si rinviene alcuna nozione esemplificativa che possa riferirsi all’incarico di consulenza in esame.
2.7. Il settimo motivo di ricorso argomenta violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all’interpretazione del Decreto Legislativo n. 58 del 1998, articolo 184, comma 1, e articolo 187-bis, comma 4, che sarebbe stata piegata sino a riferire al ricorrente la qualifica soggettiva di insider primario laddove egli invece sarebbe un mero insider secondario, per tale motivo sottoposto alla sola responsabilita’ amministrativa prevista dall’articolo 187-bis cit..
Infatti, il ricorrente non avrebbe avuto mai diretta conoscenza degli incarichi in ragione del proprio ruolo di socio senior della (OMISSIS), ne’ sarebbe stato mai iscritto in registri insider delle societa’ coinvolte o della societa’ di consulenza di cui fa parte.
Sarebbe poi solo formalistico l’argomento utilizzato dalla Corte d’Appello secondo cui l’incarico di due diligence era svolto dalla societa’ di consulenza nel suo complesso, sicche’ tutti coloro che prestano in essa attivita’ lavorativa o professionale, i quali vengano in possesso dell’informazione privilegiata, non possono che essere considerati insider primari dal momento che dette informazioni non sono state carpite casualmente ed in contesto avulso da quello lavorativo ma proprio in ragione di esso e della professione svolta a favore della societa’ di consulenza incaricata.
In sintesi, si sostiene che il ricorrente non avesse un incarico istituzionale o funzionale che lo legittimava alla conoscenza degli incarichi di consulenza della (OMISSIS) nella loro totalita’, sicche’ seppur avesse carpito realmente le informazioni privilegiate contestate, in relazione ad esse egli sarebbe un insider solo secondario (un tippee o insider occasionale), escluso dal novero dei soggetti attivi della disposizione di cui all’articolo 184 TUF.
Infatti, secondo le indicazioni del legislatore leggibili dalla novella attuata con la L. n. 62 del 2005, si e’ voluto sanzionare penalmente non qualsiasi asimmetria informativa, ma soltanto l’indebito sfruttamento di una “posizione qualificata” dell’agente rispetto all’informazione privilegiata, come dimostrano gli indici lessicali della citata disposizione penale che sanzionano l’insider che abbia conosciuto la notizia “..in ragione dell’esercizio di un’attivita’ lavorativa..”.
2.8. Un ultimo motivo, infine, eccepisce l’illegittimita’ costituzionale dell’articolo 187, comma 2, TUF in relazione agli articoli 3 e 27 Cost., nella parte in cui prevede la confisca obbligatoria per equivalente dei mezzi strumentali a commettere il reato, nonche’ chiede venga sollevata questione pregiudiziale ex articolo 267 TFUE sempre in relazione a tale previsione.
Deve segnalarsi che la questione di costituzionalita’ e’ stata gia’ proposta dal ricorrente, in sede di giudizio di legittimita’ dinanzi a questa stessa Sezione, allorquando ha subito il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente delle medesime somme in contestazione, nell’ambito della fase cautelare del presente procedimento: la questione, all’epoca, e’ stata dichiarata manifestamente infondata (Sez. 5, n. 28486 del 13/3/2012, Respigo, Rv. 252989).
Oggi la difesa eccepisce che, anche in ragione della avvenuta adozione della Direttiva UE 257/2014 e del Regolamento UE 596/2014, nonche’ della Legge Delega 9 luglio 2015, n. 114, la situazione sarebbe modificata, ne’ si potrebbe in ogni caso ritenere sufficiente la risposta fornita al relativo motivo d’appello dalla Corte milanese, riferita al fatto che gia’ in passato, sotto l’aspetto specifico del procedimento in esame ed in via generale, sono state sempre dichiarate inammissibili dal giudice delle leggi analoghe questioni di costituzionalita’ (cfr. ord. n. 186 del 2010 e n. 252 del 2012 Corte Cost.). Invero, le due pronunce passate sono state dichiarate inammissibili per carenza di determinatezza ed univocita’ del “petitum” (n. 186 del 2010 Corte Cost.) ovvero perche’ si chiedeva alla Corte costituzionale una pronuncia non “a rime obbligate” che coinvolgeva le prerogative del legislatore (evocando una graduabilita’ delle ipotesi di confisca per equivalente dei mezzi utilizzati per commettere il reato, piuttosto che l’obbligatorieta’ tout court).
Pertanto, vi sarebbe spazio, secondo la difesa per sollevare la questione sotto il profilo della alternativa “obbligatorieta’” – “facoltativita’” della confisca prevista dall’articolo 187, comma 2, TUF, chiedendo quest’ultima scelta alla Corte costituzionale, coerentemente alla sua giurisprudenza in materia di natura sanzionatoria della confisca per equivalente, nonche’ al suo orientamento nel senso della necessita’ che ogni sanzione penale risponda ai canoni della proporzionalita’ rispetto al disvalore del fatto illecito ed alla finalita’ rieducativa.
La questione sarebbe ancor piu’ fondata in considerazione della previsione contenuta nell’articolo 30, comma 2, lettera h) del Regolamento UE 596/2014 che ha sostanzialmente previsto l’applicazione delle sanzioni amministrative pecuniarie nella materia in esame solo con riguardo al profitto del reato, non citando mai i mezzi strumentali a commetterlo, che, pertanto, devono ritenersi esclusi dal novero dei beni confiscabili; d’altra parte, la confliggenza della disciplina interna con la citata norma regolamentare dell’Unione Europea, fonda la richiesta di rinvio pregiudiziale alla CGUE.
Nel caso di specie e’ macroscopico come si sia in presenza di una sanzione penale sproporzionata rispetto al disvalore del fatto concreto ascritto all’imputato, nei cui confronti la pena principale e’ stata tenuta entro i limiti edittali; sono state riconosciute le attenuanti generiche ed e’ stato concesso il beneficio della sospensione condizionale, mentre, di contro, egli, per effetto della disposizione di cui all’articolo 187, comma 2, TUF, e’ stato privato di quasi tutto il suo patrimonio.
3. La parte civile CONSOB ha depositato memoria difensiva in data 12.6.2019 per rispondere alle deduzioni del difensore dell’imputato, in relazione a ciascun motivo.
3.1. Quanto ai primi cinque motivi di ricorso della difesa (OMISSIS), la CONSOB obietta la loro manifesta infondatezza e l’argomentare in fatto, facendo leva, inoltre, per valorizzare la tenuta logica e la legittimita’ della sentenza impugnata, sulla giurisprudenza della Cassazione in tema di doppia pronuncia conforme di merito e deducendo, altresi’, la non rispondenza al vero dei deficit motivazionali censurati al giudice di secondo grado, il quale – a dispetto di quanto dedotto dal ricorrente – non ha respinto apoditticamente i motivi d’appello, bensi’ ha analizzato e valutato autonomamente gli elementi di prova; ne’ li ha travisati e neppure ha utilizzato argomenti contraddittori per “risolvere” le posizioni processuali del ricorrente e degli altri due coimputati. Si mettono in risalto le omissioni del ricorso che ha evitato di citare gli elementi che provano i fatti (in particolare, quanto alla consapevolezza in capo all’imputato dell’operazione di OPA sulla (OMISSIS), si fa riferimento alla testimonianza (OMISSIS)).
3.2. Con riferimento al sesto motivo della difesa del ricorrente, la parte civile deduce la manifesta infondatezza e, dunque, anche in tal caso, l’inammissibilita’: le informazioni utilizzate in concreto contestate rivestono natura “privilegiata”, avendo i caratteri della precisione, e sono ricomprese nel dettato dell’articolo 181, comma 1, TUF, che fa riferimento non soltanto all’evento venuto ad esistenza come oggetto dell’informazione abusata, ma anche all’evento che ragionevolmente si verifichera’, coinvolgendo, pertanto, nell’elenco dei fatti penalmente rilevanti anche le vicende intermedie, pericolose proprio perche’ prodromiche al delinearsi dell’informazione privilegiata.
La disposizione e la sua interpretazione sono conformi alla direttiva 2003/6 ed alla direttiva 2003/124, nell’interpretazione della giurisprudenza della CGUE fornita nella causa C-19/11, Markus Ge/ti c. Daimler AG, del 28.6.2012, mentre non ha pregio la tesi difensiva che restringe l’ambito di operativita’ della previsione di reato alle condotte di abuso di informazioni privilegiate che siano ravvicinate all’atto di illecito acquisto degli strumenti finanziari.
3.3. Quanto al settimo motivo di ricorso, egualmente la difesa CONSOB lo ritiene manifestamente infondato poiche’ dall’istruttoria processuale e’ emerso con chiarezza che la conoscenza delle informazioni privilegiate e’ stata acquisita dall’imputato proprio per effetto di dinamiche riconducibili alla sua peculiare posizione lavorativa.
3.4. Infine, sull’eccezione di illegittimita’ costituzionale e sulla ulteriore richiesta di rinvio pregiudiziale alla CGUE riferita alla confisca per equivalente dei mezzi strumentali a commettere il reato, la CONSOB ne rileva l’inammissibilita’ per irrilevanza.
La questione sarebbe, altresi’, inammissibile perche’ manifestamente infondata, basata su una erronea interpretazione dell’articolo 30, comma 2, lettera h), del Regolamento UE n. 596/2014, che prevede la possibilita’ di applicazione da parte degli Stati membri di sanzioni amministrative e altre misure amministrative adeguate, preoccupandosi, in relazione all’adeguatezza, soltanto di stabilire un livello “minimo” della misura “massima” della sanzione, espressamente indicato dal Regolamento, senza porre alcuna limitazione al legislatore interno che voglia eventualmente prevedere misure piu’ gravose per i casi piu’ allarmanti.
Inoltre, la disposizione invocata si riferisce solo alle sanzioni amministrative pecuniarie e non alla confisca, chiaramente distinguendo tra le prime e “le altre misure amministrative”.
4. In data 9.6.2018 la difesa del ricorrente ha depositato una memoria contenente un motivo nuovo riferito al passaggio in giudicato della Delib. CONSOB 2 gennaio 2012, n. 18070, con la quale sono state emesse sanzioni amministrative sostanzialmente penali ai sensi del Decreto Legislativo n. 58 del 1998, articolo 187-bis (TUF), chiedendo dichiararsi il divieto di bis in idem e di disapplicare la norma penale in ossequio all’articolo 50 CDFUE, dichiarando l’improcedibilita’ dell’azione penale ex articolo 529 c.p.p..
La difesa rappresenta che in data 7.11.2017 la Seconda Sezione Civile della Corte di cassazione ha emesso sentenza di inammissibilita’ dell’impugnazione proposta dall’imputato avverso la decisione della Corte d’Appello di Milano n. 2278 del 2014 di conferma delle sanzioni comminate nei suoi confronti con la Delib. CONSOB n. 18070 del 2012, con conseguente irrevocabilita’ delle sanzioni amministrative disposte nei suoi confronti.
Tali sanzioni consistono in:
– sanzione amministrativa pecuniaria di Euro 150.000 ai sensi dell’articolo 187-bis TUF (vicenda OPA (OMISSIS));
– sanzione amministrativa pecuniaria di Euro 150.000 ai sensi dell’articolo 187-bis TUF (vicenda OPA (OMISSIS));
– sanzione amministrativa pecuniaria di Euro 225.000 ai sensi dell’articolo 187-bis TUF (vicenda acquisizione controllo (OMISSIS));
– sanzione amministrativa accessoria, ai sensi dell’articolo 187-quater, comma 1, TUF per un periodo di mesi nove;
– confisca dei beni oggetto di sequestro, per 1.193.914 Euro, ai sensi del Decreto Legislativo n. 58 del 1998, articolo 187-sexies, gia’ in sequestro ai sensi dell’articolo 187-octies comma 3, lettera d, dello stesso D.Lgs..
Alla luce della entita’ delle predette sanzioni amministrative, la difesa del ricorrente ne deduce la natura sostanzialmente penale, in ossequio ai principi consolidati dettati dalla giurisprudenza Europea (i cd. Engel criteria), e chiede che il Collegio dichiari l’improcedibilita’ dell’azione penale nel processo in corso, in base all’articolo 50 CDFUE.
Si argomenta, in proposito, l’identita’ dei fatti oggetto dei due procedimenti sanzionatori – amministrativo e penale – avvalorata dalla identita’ formale delle contestazioni mosse nei confronti dell’imputato.
La difesa ricostruisce l’evoluzione della giurisprudenza costituzionale, Europea e della Corte di cassazione sui principali temi interpretativi connessi al doppio binario sanzionatorio previsto dal Testo Unico per i reati finanziari e, in relazione a tali parametri interpretativi ritiene che le doppie sanzioni nei confronti dell’imputato siano state inflitte in maniere indipendente, per la mancanza di meccanismi di raccordo che garantiscano una portata afflittiva di esse “proporzionata nel quadro di una strategia unitaria”. La Corte Europea, infatti, ha ricordato che il cumulo di sanzioni penali e “amministrative sostanzialmente penali” e’ consentito solo se, nell’irrogare la seconda sanzione, le autorita’ competenti si assicurino che la severita’ dell’insieme delle sanzioni inflitte non ecceda la gravita’ del reato.
Il motivo nuovo di ricorso, pertanto, conclude per la sussistenza di un tasso di afflittivita’ e gravita’ tale delle sanzioni amministrative “sostanzialmente penali”, divenute definitive nei confronti del ricorrente nel caso concreto, da adempiere in modo efficace alle funzioni repressive e dissuasive proprie delle sanzioni penali, soprattutto perche’ l’onere afflittivo in parola non e’ stato preso affatto in considerazione dai giudici penali nel merito per parametrare a questo la loro sanzione, nonostante la notevolissima misura della confisca per equivalente deliberata da CONSOB.
Una nuova sanzione penale, pertanto, violerebbe il divieto di ne bis in idem.
5. La CONSOB, in risposta al motivo “nuovo” depositato dal ricorrente, riferito alla sussistenza di una ipotesi di bis in idem, ha depositato ulteriore memoria in data 22.6.2018 con cui evidenzia i caratteri sulla base dei quali il cumulo di sanzioni penali ed amministrative sostanzialmente penali non determina violazione del divieto di bis in idem, sottolineando che le sentenze Garlsson e Menci della Corte di Giustizia hanno affermato che l’articolo 50 CDFUE “osta” a una normativa nazionale che consente di celebrare un procedimento riguardante una sanzione amministrativa pecuniaria di natura penale per condotte illecite integranti una manipolazione del mercato, in relazione alle quali e’ gia’ stata pronuncia una condanna penale definitiva, nei limiti in cui tale condanna, tenuto conto del danno causato alla societa’ dal reato commesso, sia idonea a reprimere tale reato in maniera efficace, proporzionata e dissuasiva: tale valutazione di idoneita’ spetta al giudice nazionale.
La CONSOB, pertanto, sottopone al Collegio indici fattuali dai quali si evince la proporzionalita’ complessiva, rispetto al disvalore del fatto, della sanzione derivante dal cumulo di quella amministrativa sostanzialmente penale gia’ irrevocabile e della sanzione penale inflitta nel presente processo.
A tale conclusione di proporzionalita’ complessiva si arriverebbe anche analizzando i contenuti della Direttiva n. 2014/57/UE in materia di abusi di mercato.
Nel caso di specie, sussisterebbe detta “gravita’”, che determina la necessita’ di irrogare la sanzione detentiva ai sensi della Direttiva citata, in ragione: dell’entita’ della lesione all’integrita’ del mercato causata dall’imputato; della quantita’ e del valore complessivo degli strumenti finanziari negoziati; del profitto e delle plusvalenze conseguiti (pari a 12.500 Euro con riguardo alle azioni (OMISSIS); a 24.715 Euro per operazioni concluse su (OMISSIS); a 130.845 Euro per la plusvalenza realizzata sulle azioni (OMISSIS)).
Infine, la doppia sanzione inflitta in concreto corrisponde anche ai criteri di verifica della non operativita’ del divieto di bis in idem dettati dalla giurisprudenza della Corte EDU con la sentenza A e 8 contro Norvegia del 2016.
6. In data 10.4.2019 il ricorrente, infine, ha depositato, a sua volta, note di replica alla memoria della CONSOB, valorizzando i motivi che dovrebbero indurre ad accogliere il ricorso nel merito, all’esito di una verifica dei vizi motivazionali gia’ denunciati sotto il profilo della assenza di reale risposta all’atto di appello proposto, sostanzialmente ribadendo i primi quattro argomenti di ricorso.
Si evidenzia, in particolare, che mancherebbe la prova del possesso delle informazioni privilegiate in capo al ricorrente: la mera coincidenza temporale tra gli incarichi assunti da (OMISSIS) e gli investimenti effettuati da (OMISSIS) non puo’ assurgere ad elemento idoneo a dimostrare il possesso delle relative informazioni privilegiate.
La Corte d’Appello, inoltre, ha equivocato il passaggio normativo dell’articolo 184 TUF che individua l’insider primario come colui che ha avuto conoscenza dell’informazione privilegiata in ragione dell’esercizio di una attivita’ lavorativa, confondendo tale requisito con la mera prossimita’ lavorativa che sussista con i soggetti i quali hanno effettivamente un legame funzionale con la notizia riservata.
La memoria difensiva, quindi, si dedica ad illustrare meglio la questione di costituzionalita’ dell’articolo 187, comma 2, TUF ed evidenzia che una questione di legittimita’ costituzionale analoga, benche’ relativa all’articolo 187-sexies TUF ed alla confisca amministrativa, e’ stata sollevata da un’ordinanza della Seconda Sezione civile della Corte di cassazione (la n. 54 del 2018 allegata al ricorso), per contrarieta’ agli articoli 3, 42 Cost. e articolo 117 Cost., comma 1, con riferimento all’articolo 1 del Primo Protocollo addizionale alla CEDU nonche’ all’articolo 49 CDFUE.
Tale ordinanza convince delle buone ragioni del ricorrente anche quanto alle sue richieste attinenti all’articolo 187 TUF ed alla confisca penale, tanto piu’ che l’articolo 187-sexies e’ stato di recente modificato dal Decreto Legislativo n. 107 del 2018, che ha espunto dalla disposizione sospettata di incostituzionalita’ proprio il riferimento alla confisca dei beni utilizzati per commettere l’illecito, previsione, viceversa, ancora vigente nel testo non modificato dell’articolo 187 TUF..
L’argomento principale dell’ordinanza e’ riferito al difetto di proporzione e ragionevolezza della confisca cosi’ come congegnata dalle disposizioni richiamate, che non si commisura al profitto illecito generato dal vantaggio conoscitivo presupposto del reato di insider trading bensi’ colpisce in maniera obbligata e non modulabile le ricchezze utilizzate per le illecite operazioni di mercato, indipendentemente dal profitto che le speculazioni hanno generato.
Nel caso del ricorrente, a fronte di un profitto lordo del reato pari a 168.060 Euro, e’ stata disposta la confisca penale ex articolo 187 dei beni utilizzati per commettere il reato per 1.324.736 Euro.
La difesa chiede, pertanto, anche il rinvio dell’udienza di trattazione del processo dinanzi al Collegio per attendere le decisioni della Corte costituzionale.
Si argomentano, quindi, ulteriormente rispetto a quanto esposto con il motivo nuovo di ricorso, le ragioni sulla base delle quali si chiede di pronunciarsi per la sussistenza di una ipotesi di bis in idem.
La nota si chiude ribadendo in sequenza subordinata le richieste della difesa: annullare la pronuncia impugnata con o senza rinvio in accoglimento dei motivi principali di ricorso; annullare la medesima pronuncia senza rinvio una volta riconosciuto il carico afflittivo sostanzialmente penale delle sanzioni CONSOB come gia’ assorbente l’intero disvalore del fatto; rimettere la questione di legittimita’ costituzionale della confisca per equivalente dei beni strumentali alla commissione del reato prevista dall’articolo 187 TUF ovvero sollevare in relazione tale norma questione pregiudiziale ai sensi dell’articolo 267 CDFUE per valutarne la compatibilita’ con l’articolo 30, lettera h, della direttiva UE n. 596/2014 in materia di abusi di mercato; annullare con rinvio il provvedimento impugnato ai sensi dell’articolo 187-terdecies TUF e rideterminare in senso favorevole al ricorrente la pena inflitta.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso proposto da (OMISSIS) deve essere accolto, nei termini che si esporranno di seguito, con riferimento al trattamento sanzionatorio, in ordine al quale e’ necessario un nuovo vaglio del giudice di merito, mentre nel resto delle numerose questioni proposte deve essere rigettato.
Anzitutto saranno trattati i motivi di ricorso orientati ad ottenere una rivalutazione del merito della vicenda delittuosa ascritta all’imputato; quindi gli altri motivi e le altre questioni sollevate che non meritano accoglimento.
Infine, sara’ esaminato il problema del ne bis in idem indicando sin d’ora il piano sanzionatorio come quello su cui ricostruire la soluzione piu’ idonea a risolvere il tema del doppio binario di intervento legislativo previsto dal suddetto Testo Unico.
(OMISSIS), infatti, e’ stato contemporaneamente sottoposto al processo penale, tuttora in corso, ed al procedimento amministrativo, promosso per primo dalla CONSOB in relazione alla stessa vicenda ai sensi dell’articolo 187-bis, che prevede l’illecito amministrativo rubricato Abuso e comunicazione illecita di informazioni privilegiate; all’esito del procedimento amministrativo, gli e’ stata inflitta una sanzione definitiva di notevole afflittivita’, di cui si dira’ poi nel dettaglio, divenuta definitiva dopo il passaggio in giudicato successivo all’esito negativo del ricorso in cassazione.
2. I primi quattro motivi di ricorso sono infondati e possono essere trattati insieme, attenendo, in sostanza, il primo, al vizio di motivazione della sentenza complessivamente intesa, gli altri tre a stigmatizzare per parti la valutazione della Corte di merito e del giudice di prime cure sul percorso ricostruttivo della prova della responsabilita’ del ricorrente e sulla idoneita’ della piattaforma probatoria a fondare la sua condanna per il reato di abuso di informazioni privilegiate in relazione a ciascuna delle operazioni di insider trading contestate.
Ebbene, la motivazione della sentenza impugnata non si sottrae all’obbligo di dar conto in via autonoma delle ragioni argomentative che l’hanno condotta a confermare la pronuncia di condanna emessa in primo grado sol perche’ si riporta a quest’ultimo provvedimento, condividendone l’impostazione in una materia, peraltro, alquanto tecnica, che unisce la necessita’ di ricostruire dettagliatamente le condotte materiali ed i contesti di accadimento di esse con l’esigenza di rapportarsi non soltanto alla disciplina penale dettagliata e specialistica del Testo Unico del 1998, ma anche a nozioni di natura economica nonche’ relative al funzionamento dei mercati e delle operazioni finanziarie.
Sulla scia, dunque, della giurisprudenza che ammette la motivazione per relationem purche’ siano rispettate alcune condizioni (Sez. 6, n. 53420 del 4/11/2014, Mairajane, Rv. 261839; Sez. 6, n. 48428 del 8/10/2014, Barone, Rv. 261248; Sez. U, n. 17 del 21/6/2000, Primavera, Rv. 216664), la Corte d’Appello di Milano si e’ adeguatamente rapportata alla pronuncia di primo grado, richiamandone la motivazione ampia e logica nella ricostruzione del reato di insider trading in generale e nella sua concreta manifestazione nella fattispecie di interesse.
I giudici di secondo grado non si sono, peraltro, limitati ad un esercizio motivazionale di richiamo con l’aggiunta di propri ed autonomi spunti argomentativi, ma hanno esposto in maniera soddisfacente la vicenda affatto complessa che si ascrive all’imputato e si snoda nel solco di ben tre diverse condotte contestate ai sensi dell’articolo 184 TUF, per l’abuso di informazioni privilegiate relative alle OPA ovvero alla acquisizione di controllo di tre diverse societa’ quotate in borsa.
La sentenza impugnata ha ricostruito le successive fasi nel corso delle quali il ricorrente, in virtu’ della sua qualita’ di dirigente e socio anziano (senior) dell’area Transaction Services della Deloitte Financial Advisory Services (DFAS) – societa’ dedita ad attivita’ di consulenza finanziaria di rilievo per enti quotati in borsa – e’ stato accertato che abbia acquisito le informazioni privilegiate sulle tre operazioni di finanza straordinaria di impresa riferite all’OPA sulle societa’ (OMISSIS) e (OMISSIS), nonche’ alla acquisizione del pacchetto di controllo della societa’ (OMISSIS), e le abbia utilizzate per fini di profitto personale.
La Corte d’Appello, infatti – e in tal modo si risponde anche ai motivi da due a quattro del ricorso – ha messo in relazione, cosi’ come aveva fatto anche la prima sentenza di merito, gli investimenti effettuati dall’imputato sui tre titoli di interesse, analizzandone modi e tempi, con i periodi e le fasi di evoluzione degli incarichi di consulenza (la cd. due diligence o financial due diligence) – necessariamente affidati ad un soggetto terzo rispetto all’offerente ed ai soggetti interessati all’acquisto societario – volti ad investigare ed approfondire dati ed informazioni relativi all’oggetto delle trattative di OPA e acquisizione del pacchetto di controllo, per verificare la convenienza delle operazioni, negoziare termini e condizioni del contratto, predisporre strumenti di garanzia ed identificare eventuali rischi e problemi connessi: all’esito del confronto, si e’ concordemente concluso, in primo ed in secondo grado, che gli investimenti effettuati ed i periodi e le fasi cognitive ed evolutive degli incarichi di due diligence fossero in diretta rapportabilita’ e che i loro “tempi” fossero certamente sovrapponibili.
Tale convinzione deduttiva e logica, sommata ad una serie notevole di ulteriori e significativi indizi, esaminati per ciascuna delle tre operazioni finanziarie in modo specifico e circostanziato, ha convinto i giudici di merito della bonta’ della ricostruzione prospettata dall’accusa nelle contestazioni e della responsabilita’ del ricorrente per i delitti a lui ascritti, in qualita’ di socio senior di (OMISSIS), con prerogative di conoscenza singolari e direttamente correlabili alla acquisizione della notizia delle operazioni finanziarie oggetto di trattative e di due diligence.
Viceversa, sulla base degli stessi elementi di fatto e di altri specifici, i giudici d’appello si sono convinti dell’insufficienza del quadro indiziario a carico dei coimputati (OMISSIS) e (OMISSIS), il primo, esperto in operazioni finanziarie borsistiche ed amico di vecchia data del secondo; quest’ultimo, dirigente nei team incaricati della consulenza in tutte e tre le operazioni finanziarie (in sostanza, gruppi di lavoro costituiti appositamente, come da prassi, all’interno dell’Area Transaction Services di DFAS). Entrambi i predetti coimputati anche in primo grado erano stati assolti dai reati di insider trading loro ascritti.
Numerosi sono, dunque, gli elementi che hanno costruito la piattaforma indiziaria del processo.
2.1. In particolare, quanto all’incarico relativo all’OPA sulla societa’ (OMISSIS) s.p.a., correttamente la Corte d’Appello, sulla scia della motivazione di primo grado, ha rilevato alcuni dati incontrovertibili che segnalano, quasi gia’ di per se’, la responsabilita’ del ricorrente per il reato di abuso di informazioni privilegiate: l’incarico di due diligence in questo caso, infatti, era stato ottenuto e portato a termine da DFAS nell’arco di pochissimi giorni (dal 6 maggio al 13 maggio 2008, con inizio dei contatti tra la societa’ target e quella di consulenza il 1 maggio 2008) e proprio il giorno 12 maggio 2008 – e cioe’ il giorno prima che l’OPA venisse ufficializzata e resa pubblica al mercato borsistico – (OMISSIS) ha acquistato 15.000 azioni della (OMISSIS), pari al 20,40 % del controvalore del suo portafoglio, che risultava il secondo titolo piu’ importante tra i suoi investimenti (secondo solo ad uno degli altri due titoli oggetto della contestazione di reato: quello (OMISSIS)), ricavando dalla successiva rivendita una plusvalenza di 12.500 Euro.
La Corte d’Appello mette in risalto, altresi’, come logico e inequivoco dato che ricollega l’operativita’ dell’imputato sul titolo (OMISSIS) all’abuso di un’informazione privilegiata in merito, il fatto che su tale titolo l’imputato, nel periodo dal 28.12.2007 al 8.6.2009, non ha mai effettuato investimenti tranne che nella data del 12.5.2008, sfruttando l’impennata di valore che e’ conseguita all’annuncio dell’OPA il giorno dopo.
2.2. Identica sequenza di collegamento tra incarico di due diligence ed investimenti sul titolo si ritrova nel caso dell’OPA su (OMISSIS): il 20.12.2007 DFAS ha avuto notizia dell’incarico; il giorno successivo esso e’ stato iscritto in planning (un pannello accessibile a tutti in (OMISSIS), in cui venivano annotati periodicamente gli incarichi in corso dalla segretaria (OMISSIS)), con il nome della societa’ target in chiaro; dal 28.12.2007 al 23.1.2008 (OMISSIS) ha acquistato – per l’unica volta in un non breve periodo – numerose azioni del titolo, che e’ divenuto il primo del suo portafogli.
2.3. Infine, anche rispetto all’operazione di acquisto del pacchetto di controllo della societa’ (OMISSIS) s.p.a., si riscontra l’evidente coincidenza tra incarico di due diligence acquisito da DFAS e operativita’ sul titolo da parte del ricorrente (il 23.7.2008 si e’ avuta notizia in societa’ dell’incarico, con successivo inserimento in planning con nome non in chiaro – (OMISSIS) – e segnalazione di inizio attivita’ a settembre; dall’8.8.2008 a settembre 2008 sono stati effettuati gli acquisti di azioni del titolo da (OMISSIS), proseguiti sino al marzo 2009, anche per la tipologia borsistica peculiare di esso).
2.4. E’ rilevante evidenziare come in un lasso temporale consistente (il periodo, gia’ citato, dal 28.12.2007 al 8.6.2009) gli unici titoli scambiati dal ricorrente sono stati quelli in relazione ai quali la societa’ di cui era socio senior aveva ricevuto incarichi di consulenza.
Ai significativi dati di fatto sopradetti (coincidenze temporali tra investimenti e incarichi; profitto ricavato; assenza di altri investimenti oltre quelli frutto dell’abuso di informazioni privilegiate), che non possono essere rapportati alla mera attivita’ della figura dell’investitore ragionevole ed esperto, il quale lecitamente conti sulle proprie conoscenze tecniche per effettuare determinate operazioni speculative in borsa, la Corte d’Appello aggiunge:
– la prova orale, dalla quale e’ emerso, attraverso l’esame di impiegati ed altri soci di DFAS, che i soci anziani, date anche le dimensioni della societa’ di consulenza, condividevano di fatto le informazioni principali relative agli incarichi “strategici”, per importanza delle operazioni e possibile fatturato a favore della societa’ stessa, a prescindere dal loro, singolo diretto coinvolgimento nell’incarico (tanto che gli incarichi, per la gran parte, erano indicati in planning con nome in chiaro e, quindi, noti a tutti; inoltre, il socio anziano (OMISSIS) ha riferito di riunioni mensili tra i senior per fare il punto sull’andamento della societa’, riunioni nel corso delle quali essi venivano messi al corrente delle operazioni piu’ rilevanti in corso). Si e’ anche accertato dalle testimonianze (di (OMISSIS) in particolare) che (OMISSIS) aveva insistentemente fatto domande all’altro socio anziano, (OMISSIS), ed allo stesso (OMISSIS), sugli incarichi (OMISSIS) e (OMISSIS). La segretaria alle risorse, (OMISSIS), ha evidenziato, poi, come la soglia di riservatezza che ella utilizzava nei confronti dei soci anziani era molto diversa da quella ordinaria, trovando naturale che – per la loro esperienza ed il loro ruolo – essi fossero messi a conoscenza sostanzialmente di tutto cio’ che di rilevante era in corso in DFAS, riferendo anche, specificamente, di aver partecipato ad una conversazione tecnico-operativa sull’operazione (OMISSIS) in cui era presente (OMISSIS). Anche (OMISSIS) ha fornito testimonianza molto rilevante e diretta di conversazioni delle quali e’ stato partecipe e dalle quali era evidente che (OMISSIS) fosse a conoscenza dei tre incarichi di due diligence in relazione ai quali vi e’ contestazione di reato.
– la prova documentale costituita da molte e-mail estrapolate dai computer della (OMISSIS) ed in uso ai soggetti coinvolti, dalle quali si evince l’interesse spasmodico di (OMISSIS) per gli incarichi oggetto dell’abuso di informazioni privilegiate e la circostanza che (OMISSIS) lo considerasse un “maestro” e non avesse problemi a condividere con lui gli sviluppi delle operazioni di consulenza (soprattutto per quella relativa alla societa’ (OMISSIS) sono presenti significativi scambi di e-mail). L’uso di alcune espressioni nelle e-mail da parte di (OMISSIS) e’ certamente sintomatico di quanto (OMISSIS) fosse un punto di riferimento, per lui ed in generale della societa’ di consulenza, e di come questi, nella sua qualita’ di socio senior, era comunque in possesso di informazioni costanti sull’andamento di tutti i rapporti di consulenza gestiti dalla DFAS, a prescindere dal suo diretto coinvolgimento in ciascun singolo incarico.
In sintesi, anche la prova documentale, secondo la logica deduzione dei giudici di merito, conferma che non vi fossero problemi particolari in DFAS ad informare i soci anziani e, per quel che qui interessa, (OMISSIS), degli incarichi di consulenza in atto e della loro finalizzazione, dandosi quasi per scontato che essi non potessero che esserne gia’ a conoscenza per il loro ruolo direttivo nella societa’.
E’ evidente, dunque, che il ricorrente, soggetto certamente rispondente al paradigma del reasonable investitor (investitore razionale o ragionevole), che la disciplina Euro unitaria e quella interna utilizzano per individuare la nozione di informazione privilegiata rispetto al criterio di price sensitive, e cioe’ rispetto alla capacita’ di tale informazione di influire in modo sensibile sui prezzi di strumenti finanziari, non si sarebbe determinato ad effettuare le operazioni speculative che gli vengono contestate se non avesse avuto nel proprio bagaglio di conoscenze le notizie che gli derivavano dal suo ruolo in (OMISSIS).
3. Il quinto motivo di ricorso e’ egualmente infondato.
Si lamenta la differente valutazione della prova che i giudici di merito hanno svolto nei confronti dei coimputati (OMISSIS) e (OMISSIS) rispetto al ricorrente, pur in presenza di elementi di fatto e logici sostanzialmente reciproci e analoghi.
In realta’, sia il primo che il secondo giudice hanno evidenziato lungamente e con motivazione ineccepibile sul piano logico la distanza che separa la posizione probatoria dei due iniziali coimputati da quella di (OMISSIS) (nel provvedimento d’appello vi e’ il richiamo meditato alle parti principali della pronuncia di primo grado relative).
Anzitutto deve essere chiarito che (OMISSIS) non ha mai realizzato investimenti sui titoli per i quali e’ processo e gli e’ stato contestato solo di aver “passato” l’informazione privilegiata all’amico (OMISSIS), il quale, invece, ha operato sui titoli (per le OPA (OMISSIS) e (OMISSIS)) ovvero di aver investito tramite lui.
Tuttavia, nessun contatto specifico relativo all’OPA per il titolo (OMISSIS) e’ risultato tra (OMISSIS) e (OMISSIS); l’elargizione di denaro sospetta, avvenuta tra (OMISSIS) e (OMISSIS), e’ risultata, in realta’, dovuta ad un regalo per il figlio di quest’ultimo, che (OMISSIS) aveva organizzato anche per conto di altri amici; l’indizio riferito alla conoscenza dell’operazione (OMISSIS) e’ labile (una sola email tra i due amici, dal tenore abbastanza oscuro) e non tiene conto del fatto che (OMISSIS), soggetto esperto del settore, aveva gia’ cominciato ad investire sui titoli stessi venti giorni prima dell’inoltro di detta e-mail.
Quanto all’operazione (OMISSIS), la spiegazione alternativa alla ricostruzione accusatoria e’ credibile ( (OMISSIS) era soggetto molto preparato dal punto di vista professionale e spesso “puntava” un titolo per intuito e conoscenza, chiedendo solo all’amico un supporto tecnico, ma non informazioni) e tiene conto, di fatto, del canone valutativo necessario alla affermazione di colpevolezza del superamento dell’oltre ogni ragionevole dubbio, nel caso di specie non configurabile, anche alla luce della circostanza di non contestualita’ temporale tra gli investimenti effettuati da (OMISSIS) con denaro di (OMISSIS) e l’incarico di due diligence che vedeva coinvolto quest’ultimo, cominciato solo tempo dopo alcune delle operazioni svolte dai due amici.
Dalle e-mail scambiate tra i due ed acquisite, peraltro, si evidenzia l’inconciliabilita’ tra la loro preoccupazione per gli investimenti ed il possesso di informazioni privilegiate.
4. Anche la sesta eccezione difensiva e’ infondata.
Si e’ dedotta la violazione di legge ed il vizio di motivazione in relazione al fatto che la Corte d’Appello ha inteso ricondurre l’incarico di due diligence a quelle operazioni intermedie, previste solo dall’articolo 7 del Regolamento UE n. 596 del 2014 MAR, entrato in vigore il 3 giugno 2016 (e recepito nel nuovo testo dell’articolo 180 TUF, introdotto dal Decreto Legislativo n. 107 del 2018, articolo 4, che ha abrogato il precedente articolo 181 TUF, dedicato espressamente alla nozione autonoma di informazione privilegiata secondo il diritto interno, e lo ha sostituito con un richiamo – indicato nella nuova lettera b-ter aggiunta all’articolo 180 TUF – alla nozione di informazione privilegiata contemplata dallo stesso articolo 7, paragrafi da 1 a 4, del citato Regolamento MAR).
Ma tale indicazione della Corte di merito, tuttavia, non si risolve in una interpretazione della legge penale che potrebbe determinare una questione di violazione del principio di irretroattivita’, per l’abbinamento dei fatti contestati ad una nozione successiva e piu’ estesa di informazione privilegiata e del suo carattere necessario di “precisione”.
Piuttosto, la Corte di merito ha utilizzato una nozione di informazione privilegiata gia’ presente, oltre che nell’ordinamento interno, anche nella giurisprudenza della CGUE (cfr. la piu’ volte richiamata sentenza Daimler del 2012) e ritenuta da questa conforme alla Direttiva 2003/6/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio, del 28 gennaio 2003, relativa all’abuso di informazioni privilegiate e alla manipolazione del mercato (abusi di mercato), ed alla direttiva 2003/124/CE della Commissione del 22 dicembre 2003; volendo piuttosto sottolineare – con il richiamo al Regolamento MAR del 2014 – che la lettura della nozione normativa di informazione privilegiata e delle sue ricadute sulla configurabilita’ del reato di cui all’articolo 184 TUF, gia’ presente nella migliore giurisprudenza di Lussemburgo e legata alle previgenti Direttive, e’ stata avallata anche dalla legislazione Europea successiva.
Ed infatti, l’interpretazione del requisito della precisione dell’informazione e’ sempre stata orientata nel senso adottato dalla Corte d’Appello, a prescindere dal Regolamento UE n. 596 del 2014 (cd. MAR), che ha inteso espressamente indicare che la nozione di informazione privilegiata ingloba anche le tappe intermedie del processo che porta alla determinazione della circostanza o dell’evento futuro cui volge l’informazione stessa (in questo caso l’OPA).
Come anche la CONSOB nella sua difesa di parte civile ha ritenuto di evidenziare, le informazioni utilizzate in concreto e contestate a (OMISSIS) rivestono natura “privilegiata”, avendo il carattere della precisione che ne determina l’inclusione nel dettato gia’ vigente dell’articolo 181 TUF, oggi abrogato per effetto del Decreto Legislativo n. 107 del 2018, articolo 4.
Invero, ai fini del citato Regolamento, all’articolo 7, per informazione privilegiata si intende: a) un’informazione avente un carattere preciso, che non e’ stata resa pubblica, concernente, direttamente o indirettamente, uno o piu’ emittenti o uno o piu’ strumenti finanziari, e che, se resa pubblica, potrebbe avere un effetto significativo sui prezzi di tali strumenti finanziari o sui prezzi di strumenti finanziari derivati collegati; b) in relazione agli strumenti derivati su merci, un’informazione avente un carattere preciso, che non e’ stata comunicata al pubblico, concernente, direttamente o indirettamente, uno o piu’ di tali strumenti derivati o concernente direttamente il contratto a pronti su merci collegato, e che, se comunicata al pubblico, potrebbe avere un effetto significativo sui prezzi di tali strumenti derivati o sui contratti a pronti su merci collegati e qualora si tratti di un’informazione che si possa ragionevolmente attendere sia comunicata o che debba essere obbligatoriamente comunicata conformemente alle disposizioni legislative o regolamentari dell’Unione o nazionali, alle regole di mercato, ai contratti, alle prassi o alle consuetudini, convenzionali sui pertinenti mercati degli strumenti derivati su merci o a pronti; c) in relazione alle quote di emissioni o ai prodotti oggetto d’asta correlati, un’informazione avente un carattere preciso, che non e’ stata comunicata al pubblico, concernente, direttamente o indirettamente, uno o piu’ di tali strumenti e che, se comunicata al pubblico, potrebbe avere un effetto significativo sui prezzi di tali strumenti o sui prezzi di strumenti finanziari derivati collegati; d) nel caso di persone incaricate dell’esecuzione di ordini relativi a strumenti finanziari, s’intende anche l’informazione trasmessa da un cliente e connessa agli ordini pendenti in strumenti finanziari del cliente, avente un carattere preciso e concernente, direttamente o indirettamente, uno o piu’ emittenti o uno o piu’ strumenti finanziari e che, se comunicata al pubblico, potrebbe avere un effetto significativo sui prezzi di tali strumenti finanziari, sul prezzo dei contratti a pronti su merci collegati o sul prezzo di strumenti finanziari derivati collegati.
Al medesimo articolo 7, comma 2 si considera che un’informazione ha un carattere preciso se essa fa riferimento a una serie di circostanze esistenti o che si puo’ ragionevolmente ritenere che vengano a prodursi o a un evento che si e’ verificato o del quale si puo’ ragionevolmente ritenere che si verifichera’ e se tale informazione e’ sufficientemente specifica da permettere di trarre conclusioni sul possibile effetto di detto complesso di circostanze o di detto evento sui prezzi degli strumenti finanziari o del relativo strumento finanziario derivato, dei contratti a pronti su merci collegati o dei prodotti oggetto d’asta sulla base delle quote di emissioni.
Nel caso di un processo prolungato che e’ inteso a concretizzare, o che determina, una particolare circostanza o un particolare evento, tale futura circostanza o futuro evento, nonche’ le tappe intermedie di detto processo che sono collegate alla concretizzazione o alla determinazione della circostanza o dell’evento futuri, possono essere considerate come informazioni aventi carattere preciso.
Al medesimo articolo 7, comma 3, una tappa intermedia in un processo prolungato e’ considerata un’informazione privilegiata se risponde ai criteri fissati nel presente articolo riguardo alle informazioni privilegiate.
Al comma 4 e’ chiarito che, per informazione che, se comunicata al pubblico, avrebbe probabilmente un effetto significativo sui prezzi degli strumenti finanziari, degli strumenti finanziari derivati, dei contratti a pronti su merci collegati o dei prodotti oggetto d’asta sulla base di quote di emissioni, s’intende un’informazione che un investitore ragionevole probabilmente utilizzerebbe come uno degli elementi su cui basare le proprie decisioni di investimento.
Se si confronta il testo dell’articolo 7 MAR citato con quello dell’articolo 181 TUF, vigente al momento della commissione dei fatti, non puo’ che rilevarsi la sostanziale e quasi totale corrispondenza di quest’ultimo al primo, fatta salva la aggiunta, nell’articolo 7 MAR, delle informazioni relative a quote di emissioni o ai prodotti oggetto d’asta correlati e l’ipotesi della trasmissione dell’informazione dal cliente alla persona incaricata dell’esecuzione di ordini relativi a strumenti finanziari.
Non puo’ condividersi quanto sostenuto, pertanto, da una parte della dottrina, all’indomani della novella di cui al Decreto Legislativo n. 107 del 2018, circa la non sovrapponibilita’ tra i contenuti delle due norme predette quanto alla inclusione solo successiva alla riformulazione dell’articolo 180 TUF della formazione progressiva dell’informazione all’interno di un processo prolungato: la cd. informazione intermedia.
Sia il precedente testo dell’articolo 181 TUF che l’attuale testo dell’articolo 180 TUF, che “vive”, quanto alla nozione di informazione privilegiata, del richiamo diretto all’articolo 7 del Regolamento MAR, fanno riferimento, infatti, non soltanto all’evento venuto ad esistenza come oggetto dell’informazione abusata, ma anche all’evento che ragionevolmente si verifichera’, coinvolgendo, pertanto, nell’elenco dei fatti penalmente rilevanti anche le vicende – poi definite formalmente “intermedie” dal sedicesimo considerando del Regolamento MAR del 2014 e dall’articolo 7 del Regolamento stesso -, pericolose proprio perche’ prodromiche al delinearsi dell’informazione privilegiata (cfr. l’articolo 181, comma 3 TUF abrogato con l’articolo 7, nuovo comma 2 Regolamento MAR).
Una siffatta interpretazione dell’articolo 181 TUF oggi abrogato risulta conforme alla direttiva 2003/6 ed alla direttiva 2003/124, nell’interpretazione della giurisprudenza della Corte di Lussemburgo fornita nella causa C-19/11, Markus Gelti c. Daimler AG, del 28.6.2012.
E’ noto, infatti, che la Corte di Giustizia Europea gia’ in quella sentenza ha chiarito che gli articoli 1, punto 1, della direttiva 2003/6/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio, del 28 gennaio 2003, relativa all’abuso di informazioni privilegiate e alla manipolazione del mercato (abusi di mercato), e 1, paragrafo 1, della direttiva 2003/124/CE della Commissione del 22 dicembre 2003, recante modalita’ di esecuzione della direttiva 2003/6 per quanto riguarda la definizione e la comunicazione al pubblico delle informazioni privilegiate e la definizione di manipolazione del mercato, devono essere interpretati nel senso che in una fattispecie a formazione progressiva diretta a realizzare una determinata circostanza o a produrre un certo evento possono costituire informazioni aventi un carattere preciso ai sensi di tali disposizioni non solo la detta circostanza o il detto evento, bensi’ anche le fasi intermedie di tale fattispecie collegate al verificarsi di questi ultimi.
Dunque, nessun dubbio che la nozione di informazione privilegiata abbia sempre contemplato anche quella di informazione intermedia privilegiata direttamente riferibile ad una fase di prognosi in cui la precisione dell’informazione si ricollega (anche) a circostanze o ad eventi che si possono ragionevolmente prevedere che verranno ad esistenza.
Secondo la difesa, inoltre, vi sarebbe possibilita’ di configurare il reato di cui all’articolo 184 TUF solo quando sussista un rapporto di prossimita’ ravvicinata tra la condotta materiale di sfruttamento dell’informazione privilegiata ed il momento in cui viene lanciata l’operazione oggetto dell’informazione stessa (l’OPA sulle societa’ di cui alla contestazione di reato, nel caso di specie).
La prospettiva difensiva non puo’ essere accolta.
L’interpretazione della nozione di informazione privilegiata fornita negli anni dalla giurisprudenza di legittimita’ (per tutte cfr. Sez. 5, n. 49362 del 7/12/2012, Consorte, Rv. 254063), coerentemente all’indicazione fornita dalla Corte di Giustizia Europea (cfr. la citata sentenza Daimler del 2012), infatti, evidenzia, quanto al carattere della “precisione”, che un’informazione si ritiene di carattere preciso se, come detto:
a) si riferisce ad un complesso di circostanze esistente o che si possa ragionevolmente prevedere che verra’ ad esistenza o ad un evento verificatosi o che si possa ragionevolmente prevedere che si verifichera’;
b) e’ sufficientemente specifica da consentire di trarre conclusioni sul possibile effetto del complesso di circostanze o dell’evento di cui alla lettera a) sui prezzi degli strumenti finanziari.
La comunicazione di informazioni privilegiate e’ punibile, cioe’, con riferimento ad eventi accaduti o a circostanze che siano in atto “esistenti”, oppure in relazione a circostanze od eventi ragionevolmente prevedibili nel futuro, rimanendo esclusa solo quando ha ad oggetto un complesso di circostanze inesistenti, falsamente date come attuali, poiche’ in tal caso la fattispecie concreta esula dal modello descrittivo tracciato dalla norma.
Quanto al carattere di price sensitive delle informazioni in tal modo fornite, il criterio dettato dal Decreto Legislativo n. 58 del 1998, articolo 181, comma 3, lettera b, e dal comma 4 – vigente all’epoca dei fatti e riprodotto sostanzialmente per intero dall’articolo 7, commi 2 e 4, Regolamento MAR – e’ perfettamente applicabile al caso di specie: non puo’ che convenirsi, infatti, sul punto che un ragionevole investitore, raggiunto dalla notizia che sono in corso OPA o acquisizioni di posizioni privilegiate in relazione ad importanti aziende quotate in borsa, di tal che e’ prevedibile un verosimile rialzo della loro quotazione sul mercato, sia portato a trarne elementi di valutazione sui quali fondare le proprie decisioni di investimento.
Il piano di intervento repressivo, dunque, voluto dal legislatore Euro unitario e da quello interno non e’ quello invocato dalla difesa della prossimita’ ravvicinata tra la condotta di sfruttamento dell’informazione privilegiata e il momento in cui viene lanciata l’operazione borsistica riservata oggetto dell’informazione stessa, bensi’ quello della prevedibilita’ per un investitore ragionevole che una determinata operazione societaria produca effetti sui prezzi degli strumenti finanziari e, dunque, sia capace di indurre a decisioni di investimento che potremmo dire esse stesse “privilegiate” poiche’ si avvalgono di notizie riservate e sconosciute agli altri operatori di mercato.
Del resto, come noto, la disposizione dell’articolo 184 TUF configura un reato di pericolo che punisce, di per se’, l’utilizzazione dell’informazione privilegiata da parte del suo possessore per compiere investimenti (acquisto, vendita o altre operazioni su strumenti finanziari), giocando sulla sua conoscenza delle dinamiche finanziarie che stanno per coinvolgere l’ente ed il suo patrimonio azionario, circostanza che l’ordinamento presume integri un pericolo per il corretto andamento dei mercati borsistici e la tutela degli investitori.
Non e’ necessario, come invece sostenuto dalla difesa, che, al fine di ritenere sussistente il reato di insider trading, si arrivi alla elisione del margine di rischio nell’operazione su titoli (margine di rischio che sarebbe, invece, “tipico” degli altri operatori “disinformati”), ne’ tantomeno rileva che detta elisione del rischio non si sia verificata nel caso di specie.
Non e’ vero, infatti, che la disposizione penale di cui all’articolo 184 TUF richiede una simile forma di certezza del buon fine dell’attivita’ di investimento come portato dell’informazione privilegiata: la certezza di assenza del rischio borsistico, data anche la irrequietezza e le complicate dinamiche dei mercati, oramai strutturali all’epoca che viviamo, potrebbe essere abbinata solo a capacita’ divinatorie e non gia’ al possesso di informazioni pur sempre di natura “tecnico-finanziaria”, per quanto riservate.
Piuttosto, la norma configura un tipico reato di pericolo e di mera condotta, che realizza una tutela anticipata dei beni giuridici protetti (la stabilita’ e la trasparenza dei mercati, nonche’ ovviamente, la tutela degli investitori), a prescindere dal danno arrecato e, dunque, del vantaggio eventualmente conseguito dall’insider, il quale, dunque, sara’ punito anche se con la sua condotta non abbia guadagnato quanto in prognosi si sarebbe aspettato grazie alla conoscenza privilegiata relativa all’investimento effettuato ed anche se, dunque, non abbia del tutto evitato i rischi connessi fisiologicamente alle operazioni speculative borsistiche.
Del resto, ancora una volta soccorre a conferma di quanto si e’ argomentato la Corte di Lussemburgo nella citata sentenza Daimier del 2012, in cui si e’ stabilito anche che l’articolo 1, paragrafo 1, della direttiva 2003/124 deve essere interpretato nel senso che la nozione di “un complesso di circostanze (…) di cui si possa ragionevolmente ritenere che verra’ ad esistere o (…) un evento (…) di cui si possa ragionevolmente ritenere che si verifichera’” riguarda le circostanze o gli eventi futuri di cui appare, sulla base di una valutazione globale degli elementi gia’ disponibili, che vi sia una concreta prospettiva che essi verranno ad esistere o che si verificheranno. Tuttavia, tale nozione non va interpretata nel senso che deve essere presa in considerazione l’ampiezza delle conseguenze di tale complesso di circostanze o di tale evento sul prezzo degli strumenti finanziari in questione: in altre parole, non e’ rilevante la misura del prodotto o del profitto del reato che si e’ “guadagnati” ne’, tantomeno, il margine di rischio che si e’ evitato.
Neppure corrisponde alla realta’ economico-finanziaria l’assunto secondo cui la natura dell’incarico di due diligence non consente alcuna formulazione prognostica o previsione sul buon esito finale dell’operazione di OPA, essendo evidente, invece, che la elevata professionalita’ di una cosi’ nota societa’ di consulenza e l’impegno meticoloso che, nel prestare ausilio all’operazione di finanza privata, mette chi lavora al team per il progetto di OPA (o di acquisizione di posizione di controllo) pongano questi ultimi, e comunque tutti quelli che, in ragione del loro ruolo interno alla societa’, abbiano conoscenza dei contenuti principali e rilevanti degli incarichi in atto, in una condizione tale da essere certamente in grado di valutare le conseguenze sui mercati di quanto si ha in progetto di realizzare.
Si eccepisce, infine, anche l’impossibilita’ in concreto di ritenere che un incarico di due diligence conferito ad una societa’ di consulenza integri una fase intermedia idonea ad essere considerata rilevante come informazione privilegiata.
Il diciassettesimo Considerando del Regolamento MAR, infatti, suggerisce le tipologie di situazioni riconducibili allo schema della fase intermedia e in questo elenco non si rinviene alcuna nozione esemplificativa che possa riferirsi all’incarico di consulenza in esame.
L’obiezione e’ manifestamente infondata.
E’ evidente – per stessa ammissione difensiva – che l’elenco contenuto nel diciassettesimo considerando del Regolamento MAR non ha valore tassativo, ma solo esemplificativo (e’ inequivoco il riferimento lessicale alla formula “ad esempio”), sicche’ il mancato, esplicito inserimento in esso dell’operazione di due diligence come operazione qualificabile di natura intermedia non determina alcuna automatica esclusione di questa dal novero di tali operazioni.
5. Il settimo argomento eccepito si rapporta direttamente a quanto gia’ si e’ esposto nei primi quattro motivi di ricorso ed e’ anch’esso infondato.
Si contesta il ruolo di insider primario del ricorrente e si riferisce la sua posizione, al piu’, a quella di un insider secondario, con esclusione della configurabilita’ della responsabilita’ penale, quindi, e riduzione dell’illecito ad una natura solo di violazione amministrativa (ai sensi dell’articolo 187-bis TUF).
Le argomentazioni addotte dalla difesa rasentano l’inammissibilita’, sia per la loro infondatezza evidente rispetto alla motivazione del provvedimento impugnato ed alla logica ricostruzione dei giudici d’appello che ha portato all’affermazione di colpevolezza, sia per la tendenziale proposizione della questione con ragioni di fatto.
E’ vero che si rappresenta la differenza – tutta giuridica – tra i ruoli di insider primario e secondario, ricostruendone la differente nozione, la diversa struttura ed il non coincidente regime giuridico; tuttavia, tale prospettazione sottende un ribaltamento della ricostruzione di fatto svolta dalla sentenza impugnata coerentemente alla omologa decisione di primo grado e nega, in sintesi, la qualita’ di insider primario sulla base di una asserita diversa lettura degli elementi di fatto analizzati nel processo di merito.
Ebbene, la rilettura difensiva non puo’ trovare ingresso nel giudizio di legittimita’ e, in ogni caso, si scontra con la realta’ probatoria da cui emerge che la conoscenza delle informazioni privilegiate e’ stata acquisita dall’imputato proprio per effetto di dinamiche riconducibili alla sua peculiare posizione lavorativa, poiche’ socio “anziano”, che svolge un ruolo particolarmente rilevante nell’ambito della societa’ di consulenza di cui fa parte e, per tale ragione, disponeva di un accesso facilitato agli elementi informativi attinenti agli incarichi conferiti a quest’ultima.
Non e’ vero, dunque, quanto argomenta la difesa sulla sussistenza di un vizio di violazione di legge (cui corrisponde un analogo vizio di motivazione) in relazione all’interpretazione dell’articolo 184, comma 1, e articolo 187-bis che sarebbe stata piegata sino a riferire al ricorrente la qualifica soggettiva di insider primario laddove egli invece sarebbe un mero insider secondario, per tale motivo sottoposto alla sola responsabilita’ amministrativa prevista dall’articolo 187-bis cit..
Non e’ necessaria, infatti, ai fini della configurabilita’ della fattispecie penale prevista dall’articolo 184 TUF una diretta conoscenza dei contenuti degli incarichi in ragione di un ruolo formale rivestito nella loro trattazione (con relativa iscrizione del nominativo dell’autore della condotta nei registri insider delle societa’ coinvolte nelle attivita’ di due diligence) perche’ si abbia la possibilita’ di essere definiti insider primari: un tale requisito non e’ richiesto dalla disposizione incriminatrice e neppure puo’ desumersi in via interpretativa.
Se e’ vero che non in ogni attivita’ lavorativa prestata, in qualsiasi forma piu’ o meno coinvolgente, all’interno di una societa’ di consulenza che operi per attivita’ di due diligence, potrebbe ravvisarsi quel rapporto qualificato richiesto dalla norma per fondare il formarsi di una conoscenza privilegiata ed individuare un ruolo di insider primario, tuttavia, e’ indubbio che tale ruolo possa essere riconosciuto in capo a colui il quale rivesta in una tale societa’ una qualifica di spicco – come e’ quella di socio senior e, per tale condizione, assuma una speciale autorevolezza e visibilita’ tra i colleghi, con conseguente capacita’ di divenire recettore e collettore delle vicende di singole attivita’ di consulenza delle quali la societa’ abbia ricevuto incarico ed alle quali pure non participi direttamente, tanto da esserne messo al corrente dallo staff di professionisti specificamente ad esse nominati, pur in presenza di ordinarie forme di riservatezza interne tipiche di tali operazioni.
In sintesi, non puo’ considerarsi certo un tippee (e cioe’ un soggetto che abbia ottenuto direttamente o indirettamente informazioni privilegiate da un insider primario) ovvero un insider occasionale colui il quale abbia acquisito l’informazione privilegiata in ragione del suo ruolo interno alla societa’ di consulenza, particolarmente qualificato, ed anzi esclusivamente per tale qualita’, non essendo egli destinatario dello specifico incarico. Sarebbe illogico, peraltro, ritenere che proprio le condotte piu’ pericolose, poste in essere da chi abusi del suo ruolo primario interno e della sua peculiare attivita’ lavorativa per carpire subdolamente ed in modo occulto l’informazione privilegiata, siano escluse dal novero di quelle alle quali si riferisce la disposizione di cui all’articolo 184 TUF, ne’ la formalizzazione dell’incarico di staff interno puo’ essere dirimente al riguardo, dovendo sempre procedersi alla verifica in concreto del nesso esistente tra l’acquisizione dell’informazione privilegiata ed il ruolo professionale e la qualita’ del lavoro svolto.
Nel caso del ricorrente, si rientra perfettamente, quindi, in quella che lo stesso difensore definisce “asimmetria informativa” punibile, configurabile nel caso in cui vi sia stato l’indebito sfruttamento di una “posizione qualificata” dell’agente per ottenere l’informazione privilegiata.
6. L’ottavo motivo di ricorso, in cui si e’ eccepita l’illegittimita’ costituzionale dell’articolo 187, comma 2, TUF in relazione agli articoli 3 e 27 Cost., nella parte in cui detta norma prevede la confisca obbligatoria per equivalente dei mezzi strumentali a commettere il reato, e, al contempo, si e’ chiesto di sollevare questione pregiudiziale ex articolo 267 TFUE sempre in relazione a tale previsione, non puo’ trovare accoglimento.
La confisca per equivalente dei mezzi strumentali a commettere il reato, disposta dall’articolo 187, comma 2, TUF, e’ sanzione che spetta al legislatore decidere di tenere in vita o meno, secondo la sua discrezionalita’ ribadita dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 252 del 2012 e dalla giurisprudenza di questa Corte (cfr. Sez. 5, n. 28486 del 13/3/2012, Respigo, Rv. 252989) ed avvalorata da una constatazione attuale: il Decreto Legislativo n. 108 del 2017 ha modificato l’articolo 187-sexies TUF, che prevede la confisca per equivalente di natura amministrativa come conseguenza dell’illecito amministrativo di cui all’articolo 187-bis TUF, eliminando dall’oggetto del suo fuoco di apprensione i beni utilizzati per commettere l’illecito e limitando tale oggetto al solo profitto derivato da tale illecito (ed al prodotto di esso: quest’ultimo, tuttavia, da ritenersi oggi escluso dalla disposizione alla luce di una pronuncia recentissima della Corte costituzionale, la n. 112 del 2019, di cui si dira’ di qui a poco).
Altrettanto non e’ stato previsto in relazione all’articolo 187 TUF – che costituisce la disposizione equivalente, sul piano penalistico, a quella modificata nell’universo sanzionatorio amministrativo – sicche’ pare difficile negare che il legislatore abbia voluto esprimere, in quest’ultima novella, una volonta’ di differenziare le conseguenze della condotta, a seconda che essa configuri oppure non un illecito (anche) formalmente di natura penale, e che – per far cio’ – abbia volontariamente deciso di non estendere la riformulazione in melius alla confisca per equivalente che segue all’illecito penale.
Si potrebbe convenire con quanti in dottrina hanno manifestato perplessita’ rispetto a tale scelta legislativa diversificata, pur – al contempo – sottolineando la condivisibile ragione di fondo che ha guidato la modifica parziale in esame: e cioe’ espungere dall’arsenale sanzionatorio una misura (quella della confisca per equivalente dei beni utilizzati per commettere l’illecito, vale a dire il capitale investito), di natura formalmente amministrativa e sostanzialmente penale, concordemente tacciata di sproporzione ed eccessivita’ in confronto al disvalore dell’illecito commesso, potendo essa riguardare risorse economiche assai ingenti anche a fronte di un accrescimento patrimoniale modesto per il responsabile.
Tuttavia, la mancata corrispondente modifica dell’articolo 187 TUF, disposizione che tuttora contempla la confisca per equivalente da reato anche dei beni strumentali alla sua commissione, non importa automaticamente un irrimediabile vulnus ai canoni dell’eguaglianza e della ragionevolezza costituzionalmente protetti dall’articolo 3 Cost., poiche’ il legislatore conserva tra le sue prerogative la facolta’ di rispondere agli illeciti amministrativi ed agli illeciti penali in modo differenziato, accentuando la reazione sanzionatoria di questi ultimi nel confronto con i primi.
Puo’ ritenersi, pertanto, non irragionevole – sia pur auspicando una rimeditazione della disciplina al fine di evitare meccanismi di eccessivo rigore sanzionatorio – continuare a prevedere un regime differenziato di confisca per equivalente, con una afflittivita’ maggiore dettata dalla necessita’ di coprire il disvalore della condotta penalmente rilevante prevista dall’articolo 184 TUF in modo rafforzato e distinto rispetto al disvalore che caratterizza la condotta qualificata (almeno formalmente) come mero illecito amministrativo.
Si rammentera’ che la Corte di cassazione, nella citata sentenza Sez. 5, n. 28486 del 13/3/2012, Respigo, Rv. 252989 (nel procedimento cautelare che ha preceduto il processo a carico dell’odierno ricorrente), ha rigettato una analoga istanza volta ad indurre questa Corte di legittimita’ a sollevare questione di illegittimita’ costituzionale della disciplina prevista dall’articolo 187 TUF, in relazione alla possibilita’ di disporre la confisca dei beni strumentali utilizzati per commettere l’illecito penale di abuso di informazioni privilegiate (articolo 184 TUF), fondata sull’assunto della irragionevolezza di ogni sua possibilita’ di graduazione e sulla funzione conservativa del sequestro in evidenza.
Nel far cio’, la Corte di cassazione ha chiarito – con affermazione che il Collegio condivide, sia pur con le precisazioni gia’ poco sopra svolte – che lo scopo della norma, assolutamente chiaro dal suo dettato, e’ quello di impedire che operatori finanziari di pochi scrupoli e particolarmente qualificati, possano porre in essere avventure economiche che si traducono in turbative del mercato cui conseguirebbe corrispondente danno all’economia nazionale, risultato conseguibile solo sottraendo loro le risorse economiche relative (maggiormente discutibile appare l’altra ratio decidendi utilizzata, relativa al fatto che non potrebbe parlarsi di rigidita’ della confisca nel caso dell’articolo 187 TUF, che, per tale ragione sarebbe incostituzionale, in quanto l’entita’ del sequestro e’ determinata dallo stesso autore dell’illecito).
Quanto alla alternativa tra obbligatorieta’ e facoltativita’ della confisca per equivalente, desunta dalla difesa dalla motivazione della sentenza n. 252 del 2012 Corte Cost., vi e’ da dire, anzitutto, che essa risulta formulata non in termini precisi, poiche’ mentre l’eccezione si incentra, sul piano argomentativo, tutta intorno alla sostanziale irragionevolezza e non proporzionalita’ della misura della confisca, si chiede a questa Corte, invece, di valutare la non manifesta infondatezza della questione di legittimita’ costituzionale inerente non gia’ alla sua misura ma alla sua obbligatorieta’.
Inoltre, proprio con riferimento a tale ultima caratteristica della confisca per equivalente, la recentissima sentenza n. 112 del 2019 Corte Cost., che, nelle more del deposito della motivazione della presente pronuncia, e’ stata emessa in risposta alle questioni sollevate dalla Seconda Sezione Civile della Corte di cassazione nell’ordinanza n. 54 del 2018 – evocata anche dalla difesa del ricorrente -, ha sostanzialmente confermato la legittimita’ dello strumento-confisca, pur esercitato senza alcuno spazio per apprezzamenti discrezionali sulla opportunita’ o meno di applicare la sanzione a chi sia stato ritenuto responsabile della commissione di un illecito previsto dal Titolo 1-bis, Capo 3, Decreto Legislativo n. 58 del 1998 (TUF), dando l’obbligatorieta’ per scontata e non smentita rispetto neppure alle modifiche apportate dal Decreto Legislativo n. 107 del 2018.
Quanto all’argomento riferito al contenuto dell’articolo 30, comma 2, lettera h) del Regolamento UE 596/2014, vi e’ da dire che, effettivamente, al comma 2, lettera b) – il riferimento difensivo alla lettera h) e’ impreciso rispetto al caso di specie poiche’ relativo alle sanzioni amministrative pecuniarie -, la disposizione si riferisce, genericamente, alla restituzione dei guadagni realizzati o delle perdite evitate grazie alla violazione, mentre al comma finale (il n. 3) viene stabilito che gli ordinamenti nazionali possano prevedere altri poteri oltre a quelli indicati al precedente comma (paragrafo, per il linguaggio comunitario) 2.
Ebbene, si rivela infondata la richiesta di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia Europea dell’articolo 187, comma 2, TUF, non essendovi alcuna conflittualita’ tra la sua previsione e quella del citato articolo 30 Reg. UE 596/2014 che si riferisce agli illeciti amministrativi ed alle sanzioni ad essi relative, non gia’ agli illeciti penali.
Non risultano di ostacolo gli orientamenti recentissimi della Corte costituzionale, meritoriamente improntati alla salvaguardia delle garanzie fondamentali di rispetto dei principi di ragionevolezza e proporzionalita’ in materia di insider trading, contenuti, tra l’altro, nella gia’ citata sentenza n. 112 del 2019, con cui la Corte ha dichiarato l’illegittimita’ costituzionale dell’articolo 187-sexies TUF sia nel testo originariamente introdotto dalla L. n. 62 del 2005, articolo 9, comma 2, lettera a), sia in quello successivamente modificato introdotto dal Decreto Legislativo n. 107 del 2018, articolo 4, nella parte in cui entrambi non prevedono la limitazione della confisca obbligatoria, diretta o per equivalente, al solo profitto e la estendono, invece, anche al prodotto dell’illecito amministrativo.
Invero, la Corte costituzionale si e’ pronunciata sulla realta’ – parallela a quella della confisca ex articolo 187 TUF, e ad essa non del tutto sovrapponibile – della confisca ex articolo 187-sexies TUF, cui si riferisce l’articolo 30 del Regolamento UE 596/2914 quando disciplina le sanzioni amministrative in materia di abusi di mercato.
Dunque, nessuna conseguenza automatica di incompatibilita’ costituzionale potrebbe derivare da tale sentenza rispetto alla norma oggi censurata dalla difesa poiche’ l’intera motivazione della pronuncia di incostituzionalita’ ruota intorno al sistema sanzionatorio CONSOB e non si estende mai al confronto con quello previsto in ambito penale dallo stesso Testo Unico degli illeciti finanziari.
Del resto, ed infine, la questione di costituzionalita’ proposta e quella di rinvio pregiudiziale sono non decisive nel caso di specie, in cui – come si dira’ al paragrafo successivo – deve essere disposto il rinvio per la verifica della proporzionalita’ complessiva della sanzione irrogata all’esito del processo penale (e dunque anche della quota di essa imputabile alla confisca), alla luce della definitivita’ della sanzione amministrativa inflitta nel parallelo procedimento CONSOB, chiusosi prima di quello penale.
7. La questione ne bis in idem.
Deve essere trattato, infine, l’aspetto dei motivi aggiunti al ricorso e delle memorie ulteriori depositate nell’interesse del ricorrente, attinente alla questione della violazione o meno del superiore principio del ne bis in idem che regola i rapporti tra illecito penale e illecito amministrativo “sostanzialmente penale” nell’ordinamento interno, alla luce dei criteri indicati dalla giurisprudenza delle Corti Europee per stabilire se una fattispecie si inscriva all’interno dell’alveo della matiere penale di accezione Euro unitaria.
7.1. Il ricorrente, infatti, quasi con percorso coevo, e’ stato sottoposto a procedimento penale ed a procedimento amministrativo CONSOB, quest’ultimo chiuso con sentenza della Corte di cassazione civile di rigetto del ricorso proposto (la sentenza n. 26344 del 3 maggio 2017, dep. il 7 novembre 2017), che ha determinato la “definitivita’” della sanzione disposta con Delib. CONSOB 2 gennaio 2012, n. 18070, (definitivita’ che, per giurisprudenza costante, pone un problema di violazione del principio di ne bis in idem convenzionale: Sez. 3, n. 5934 del 12/9/2018, dep. 2019, Giannino, Rv. 275833; Sez. 3, n. 19334 del 11/2/2015, Andreatta, Rv. 264809; Sez. 3, n. 48591 del 26/4/2016, Pellicani, Rv. 268493).
Il problema, come noto, nasce in ragione del fatto che, nonostante la pacifica posizione di criteri di verifica sostanzialistici della natura penale di un illecito e della relativa sanzione da parte della Corte EDU e della Corte di Giustizia Europea, nel nostro ordinamento interno tutt’ora permangono una nozione di illecito penale radicata ad una regola di stretta legalita’ formale ed inscritta in un sistema che stabilisce la riferibilita’ della natura “penale” di una norma al fatto che essa sia formalmente ed espressamente prevista come reato da una legge ed accompagnata da una sanzione catalogabile nel novero delle “pene”.
E’ opportuno anticipare che tale discrasia non puo’ dirsi ad oggi risolta, pur tenuto conto dell’enorme sforzo interpretativo compiuto dai giudici e dalle Corti superiori interne per adeguare ai parametri della legalita’ convenzionale le decisioni rese in materia dai giudici nazionali, nonche’ del radicale cambiamento di prospettiva leggibile negli ultimi anni nella stessa giurisprudenza delle Corti Europee, le quali hanno spostato il fuoco della verifica di compatibilita’ del fenomeno del doppio binario di intervento normativo rispetto ad uno stesso fatto illecito con i principi della CEDU e della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea su di un piano procedimentale e sanzionatorio concreto, piuttosto che basandosi sul confronto tra le disposizioni in astratto considerate.
Del resto, una simile discrasia sarebbe superata solo se e quando il nostro legislatore o, in mancanza, il giudice costituzionale decidessero di estendere la portata dell’articolo 649 c.p.p. anche alle sanzioni derivanti da illeciti formalmente amministrativi ma sostanzialmente penali, secondo la oramai pacifica ed unanime accezione che di questi ultimi forniscono la giurisprudenza Europea e quella interna, prima di tutto di questa Corte di legittimita’.
D’altra parte, e’ la stessa legislazione Euro unitaria a pretendere dagli Stati componenti, in alcuni settori ritenuti evidentemente nevralgici per le sorti economiche e politiche dell’Unione, innalzamenti dei livelli di tutela degli interessi giuridici comuni indicando un doppio percorso di intervento, che si nutra sia di strumenti sanzionatori di ordine amministrativo che di rango penale, percepiti, questi ultimi, come dotati di un effetto dissuasivo maggiore, per la loro portata maggiormente stigmatizzante e simbolica.
E’ sufficiente rammentare in proposito i contenuti della Direttiva 2014/57/UE del 16 aprile 2014 – funzionale all’obiettivo di garantire l’integrita’ dei mercati, proprio incentivando il ricorso alla penalizzazione degli illeciti in materia di abusi di mercato (cfr. i considerando 22 e 23 della Direttiva), poiche’ dal rapporto della Commissione Europea era emerso che la precedente direttiva 2003/6 non era stata attuata in modo adeguato in tutti gli Stati membri, con soglie di tutela limitate a strumenti di intervento amministrativo, che si erano rivelati nella gran parte inefficaci all’intento di contrasto di fenomeni speculativi illegali – nonche’ gli stessi contenuti del citato, coevo Regolamento MAR.
7.2. Orbene, deve ricordarsi che la distanza che separa i concetti di illecito penale convenzionale e di illecito penale secondo il diritto interno ha prodotto una serie di “corti circuiti” nella nostra giurisprudenza di merito e di legittimita’ negli ultimi anni.
Il dibattito interpretativo si e’ aperto con evidenza nel nostro sistema interno per effetto delle sentenze della Corte di Giustizia Europea Aklagaren c. Hans Akerberg Fransson del 26 febbraio 2013, C-617/10 e della Corte EDU del 4 marzo 2014 Grande Stevens c. Italia (cui hanno fatto seguito altre pronunce della Corte di Strasburgo di analogo contenuto e tenore; tra queste, per citare solo le piu’ note: Nykanen contro Finlandia del 20 Maggio 2014, Lucki Dev contro Svezia del 27 Novembre 2014, Kiivari contro Finlandia del 10 febbraio 2015), le quali hanno posto con forza sulla scena Europea e nazionale canoni di applicazione del principio del ne bis in idem – stabilito dalla Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea (CDFUE), all’articolo 50, e dal Protocollo aggiuntivo alla CEDU n. 7, all’articolo 4 – che sembrano proiettarlo verso la massima espansione della sua accezione di “divieto di doppio giudizio” quale regola di garanzia del diritto a non essere puniti o giudicati due volte per lo stesso fatto.
In verita’, prima di tali pronunce, la giurisprudenza Europea aveva dettato non dissimili criteri interpretativi per la declinazione del principio, a partire dalla famosa sentenza della Corte EDU Engel contro Paesi Bassi del 8 giugno 1976, che ha dato il nome agli stessi criteri di Engel, i quali, da allora, definiscono il concetto di illecito di natura “convenzionalmente penale”, riferendone il carattere, oltre che alla qualificazione giuridica della misura sanzionatoria nell’ordinamento nazionale anche e congiuntamente alla natura effettiva della struttura dell’illecito, nonche’ alla natura ed al grado di severita’ ed afflittivita’ della sanzione.
Dal deflagrare della questione “Grande Stevens” nel nostro ordinamento penale sono scaturiti provvedimenti di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, oltre che questioni di legittimita’ costituzionale per violazione del parametro interposto di cui all’articolo 117 Cost..
Ne sono derivate, altresi’, decisioni che propongono nuove e inaspettate aperture della Corte di cassazione al criterio guida del ne bis in idem declinato secondo le indicazioni delle Corti Europee (sulle quali ci si soffermera’ ampiamente di seguito), ma anche, in passato, pronunce di robusta contrarieta’ a qualsiasi “inquinamento” del paradigma legale di illecito penale con i criteri sostanzialistici dettati in campo Europeo dalle Corti di Lussemburgo e, soprattutto, di Strasburgo (cfr. Sez. 1, n. 19915 del 17/12/2013, dep. 2014, Gabetti, Rv. 260686; Sez. 3, n. 25815 del 22/6/2016, Scagnetti, Rv. 267301; Sez. 4, n. 9168 del 6/2/2015, Meligeni, Rv. 262445; Sez. 3, n. 31378 del 14/1/2015, Ghidini, Rv. 264332); non sono mancate, peraltro, aperture di una minima parte della giurisprudenza di merito verso un’accezione di matrice “Europeista” della sanzione penale, con adesione ai cd. “criteri di Engel” ed applicazione diretta della giurisprudenza Europea, che hanno dichiarato la sussistenza del ne bis in idem tra ipotesi di illecito penale ed illecito amministrativo di natura “sostanzialmente penale” dal punto di vista dell’afflittivita’ sanzionatoria (cfr., ad esempio, la sentenza del Tribunale di Ascoli Piceno del 16/3/2016, annullata con rinvio dalla Seconda Sezione Penale di questa Corte, con la pronuncia n. 9184 del 15/12/2016, dep. 2017, Pagano, Rv. 269237).
Deve rammentarsi che i due poli di ragionamento “classici” intorno ai quali si e’ giocata la partita della maggiore o minore espansione dell’operativita’ del principio del ne bis in idem e della sua stessa definizione si riconoscono da sempre nella nozione di idem factum ed in quella di matiere penale.
Quanto alla seconda, si e’ gia’ indicata la soglia piu’ ampia di accezione che ad essa riconosce l’ordinamento Europeo, analizzando la nozione di illecito penale convenzionale, caratterizzata da una ricerca sostanzialistica della sua natura, che prescinda dalle etichette formali dei sistemi giuridici nazionali.
Sul primo concetto – l’idem factum -, valgono tuttora gli insegnamenti delle Sezioni Unite, nella sentenza n. 34655 del 28/6/2005, Donati, Rv. 231799-231800, e quelli proposti dalla Corte costituzionale, da ultimo nella rilevante sentenza n. 200 del 2016, secondo cui l’identita’ del fatto sussiste quando vi sia corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona, anche nelle ipotesi di concorso formale di reati. Si rammentera’, infatti, che la Corte costituzionale, preso atto dello stato del “diritto vivente”, ha dichiarato l’illegittimita’ costituzionale dell’articolo 649 c.p.p., per violazione dell’articolo 117 Cost., comma 1, in relazione all’articolo 4 del Protocollo n. 7 CEDU, nella parte in cui esclude che il fatto sia il medesimo per la sola circostanza che sussiste un concorso formale tra il reato gia’ giudicato con sentenza divenuta irrevocabile e il reato per cui e’ iniziato il nuovo procedimento penale.
Successivamente alla pronuncia della Corte costituzionale, peraltro, la giurisprudenza di legittimita’ si e’ espressamente ad essa ispirata per riaffermare il principio secondo cui l’identita’ del fatto sussiste quando vi sia corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona, anche nelle ipotesi di concorso formale di reati (cfr., tra quelle massimate, Sez. 4, n. 54986 del 24/10/2017, Montagna, Rv. 271717; Sez. 3, n. 21994 del 1/2/2018, Pigozzi, Rv. 273220 e Sez. 6, n. 16846 del 1/3/2018, C., Rv. 273010).
Tuttavia, accanto a tali due poli di ragionamento, dalla fine del 2016 si e’ imposto un nuovo parametro valutativo, che sembra tendere ad assorbire del tutto la verifica sulla sussistenza del bis in idem in presenza dei due presupposti dell’idem factum e della natura sostanzialmente penale di un illecito amministrativo che “doppi” l’illecito penale. Con la sentenza della Corte EDU Grande Chambre, A e B contro Norvegia del 15 novembre 2016, infatti, nasce il nuovo paradigma della connessione sostanziale e temporale sufficientemente stretta (sufficiently close connection in substance and time) tra i procedimenti nei quali si discute di bis in idem, cui si affianca quello, fondamentale, della verifica della esistenza di un unico sistema sanzionatorio “integrato” in cui cio’ che conta per stabilire se vi sia violazione o meno del superiore divieto di un doppio giudizio sul medesimo fatto e’ il risultato di proporzionalita’ complessiva della sanzione inflitta nell’ambito dei due procedimenti.
In estrema sintesi, la pronuncia A e B, pur non sconfessando la giurisprudenza consolidata dei giudici di Strasburgo sulle nozioni di materia penale e di idem factum, utilizza una nuova chiave di valutazione per la verifica della sussistenza di una violazione del divieto di doppio giudizio nell’ordinamento interno di uno Stato membro, nel caso in cui ad una sanzione amministrativa definitiva si affianchi un procedimento penale per lo stesso fatto, nei confronti della stessa persona.
I procedimenti sanzionatori, penale ed amministrativo, possono coesistere qualora si ritenga tra loro una “connessione sostanziale e temporale sufficientemente stretta” che li renda, sostanzialmente, quasi parte di unico sistema sanzionatorio “integrato”.
Non cambiano, dunque, le accezioni dei concetti consolidati di “materia penale” e idem factum, ma si indica quella che potremmo definire una “terza via” per dirimere la questione sulla violazione del principio di ne bis in idem, che affronta il tema – “a monte” – da un punto di vista prettamente processuale-procedimentale, individuando alcuni parametri di riferimento concreto per valutare la sussistenza del nesso temporale e del nesso sostanziale che, se sussistenti, legittimano il duplice procedimento; “a valle”, indicando il criterio finale di verifica della complessiva proporzionalita’ della sanzione, “integrata” poiche’ frutto dell’applicazione congiunta della pena e della sanzione amministrativa nei due procedimenti parallelamente creati.
Ed e’ proprio quest’ultimo il terreno valutativo di maggior novita’ che viene adottato dalla giurisprudenza costituzionale e di legittimita’ piu’ recente, anche alla luce delle ultime, fondamentali decisioni della Corte di Giustizia Europea, con le quali i giudici di Lussemburgo hanno sostanzialmente aderito alla prospettiva della Corte EDU, ampliandone la riflessione interpretativa sotto il profilo del confronto sanzionatorio: il richiamo e’ alle sentenze della Grande Sezione della CGUE del 20 marzo 2018 nelle cause Menci (C-524/15), Garlsson Real Estate SA e altri contro Consob (C-537/16) e (OMISSIS) contro Consob e Consob contro Zecca (nelle cause riunite C-596/16 e C-597/16). Anche la Corte costituzionale, del resto, nella recente sentenza n. 43 del 2018, aveva sottolineato la portata significativamente innovativa della sentenza A e 8, mettendo in luce come, nel passato, scarsa eco avevano avuto altre pronunce della Corte EDU con cui si era ritenuta convenzionalmente legittima la conclusione di un secondo procedimento, nonostante il primo fosse gia’ stato definito, in virtu’ dell’esistenza tra i due di un legame materiale e temporale sufficientemente stretto.
Prima della sentenza A e 8 – afferma la Corte costituzionale – il criterio era stato cosi’ sporadicamente applicato da non poter in alcun modo contribuire a “scolpire” con univocita’ il significato della normativa interposta.
In sintesi, la sentenza A e 8 del 2016 ha costituito un vero e proprio spartiacque per la tutela della garanzia convenzionale del principio di ne bis in idem determinando, come e’ stato detto in dottrina, una trasfigurazione del principio stesso e un’evoluzione rilevantissima della sua fenomenologia.
Prova ne e’, ancora una volta, l’orientamento del nostro giudice delle leggi che, nella sentenza citata, la n. 43 del 2018, ha preso atto della svolta, indicandone le conseguenze.
7.3. Ed infatti, sulla questione sollevata dal Tribunale di Monza in relazione alla legittimita’ costituzionale dell’articolo 649 c.p.p. rispetto al principio di ne bis in idem di matrice convenzionale (il procedimento penale aveva ad oggetto il reato previsto dal Decreto Legislativo 10 marzo 2000, n. 74, articolo 5, comma 1: omessa presentazione di dichiarazione dei redditi), con la citata sentenza n. 43 del 2018, la Corte costituzionale – dopo la pronuncia di inammissibilita’ di analoga questione riferita all’articolo 649 c.p.p. emessa in relazione alla materia degli abusi di mercato, adottata con decisione n. 102 del 12 maggio 2016 Corte Cost. – anzitutto ha riconosciuto al significativo mutamento giurisprudenziale della Corte EDU nella sentenza A e B contro Norvegia la capacita’ di determinare una diversa interpretazione della normativa interposta, anche per il suo provenire dalla Grande Camera della Corte di Strasburgo che le consente di configurare un’opzione di diritto vivente Europeo, secondo l’impostazione della sentenza n. 49 del 2015 Corte Cost.; quindi, sulla base di tali premesse, ha disposto la restituzione degli atti al giudice rimettente ai fini di una nuova valutazione sulla rilevanza della questione di legittimita’ costituzionale.
Se, infatti, il giudizio penale fosse “legato temporalmente e materialmente” al procedimento tributario al punto da non costituire un bis in idem, non vi sarebbe necessita’, ai fini del giudizio principale, di introdurre nell’ordinamento, attraverso la “chiave” dell’articolo 649 c.p.p., alcuna regola che imponga di non procedere nuovamente per il medesimo fatto.
La Corte costituzionale ha spiegato anche le ragioni profonde del mutamento di prospettiva della Corte EDU, osservando come la “rigidita’ del divieto convenzionale di bis in idem, nella parte in cui trova applicazione anche per sanzioni che gli ordinamenti nazionali qualificano come amministrative, aveva ingenerato gravi difficolta’ presso gli Stati che hanno ratificato il Protocollo n. 7 alla CEDU, perche’ la discrezionalita’ del legislatore nazionale di punire lo stesso fatto a duplice titolo, pur non negata dalla Corte di Strasburgo, finiva per essere frustrata di fatto dal divieto di bis in idem”, sicche’, allo scopo di alleviare tale inconveniente, la Corte EDU ha enunciato “il principio di diritto secondo cui il ne bis in idem non opera quando i procedimenti sono avvinti da un legame materiale e temporale sufficientemente stretto (“sufficiently closely connected in substance and in time”), attribuendo a questo requisito tratti del tutto nuovi rispetto a quelli che emergevano dalla precedente giurisprudenza”, precisando che: “legame temporale e materiale sono requisiti congiunti; (…) il legame temporale non esige la pendenza contemporanea dei procedimenti, ma ne consente la consecutivita’, a condizione che essa sia tanto piu’ stringente, quanto piu’ si protrae la durata dell’accertamento; (…) il legame materiale dipende dal perseguimento di finalita’ complementari connesse ad aspetti differenti della condotta, dalla prevedibilita’ della duplicazione dei procedimenti, dal grado di coordinamento probatorio tra di essi, e soprattutto dalla circostanza che nel commisurare la seconda sanzione si possa tenere conto della prima al fine di evitare l’imposizione di un eccessivo fardello per lo stesso fatto illecito”.
Inoltre, secondo la Corte costituzionale, alla luce dei nuovi criteri, si dovra’ anche valutare “se le sanzioni, pur convenzionalmente penali, appartengano o no al nocciolo duro del diritto penale, perche’ in caso affermativo si sara’ piu’ severi nello scrutinare la sussistenza del legame e piu’ riluttanti a riconoscerlo in concreto”.
Pertanto, sottolinea ancora la sentenza n. 43 del 2018, “il ne bis in idem convenzionale cessa di agire quale regola inderogabile conseguente alla sola presa d’atto circa la definitivita’ del primo procedimento ma viene subordinato a un apprezzamento proprio della discrezionalita’ giudiziaria in ordine al nesso che lega i procedimenti, perche’ in presenza di una “dose connection” e’ permesso proseguire nel nuovo giudizio ad onta della definizione dell’altro”.
Naturalmente, come ha sottolineato la sentenza in esame, la decisione non puo’ che passare da un giudizio casistico, affidato all’autorita’ che procede: il giudice interno acquista, in tale prospettiva, la veste fondamentale di garante dell’applicazione corretta dei criteri dettati dalla Corte EDU.
Infine, neppure si puo’ continuare a sostenere – secondo la Corte – che il divieto di bis in idem convenzionale ha carattere esclusivamente processuale, giacche’ criterio eminente per affermare o negare il legame materiale e’ proprio quello relativo all’entita’ della sanzione complessivamente irrogata: se, pertanto, la prima sanzione fosse modesta, sarebbe in linea di massima consentito, in presenza del legame temporale, procedere nuovamente, al fine di giungere all’applicazione di una sanzione che, nella sua totalita’, non risultasse sproporzionata, mentre nel caso opposto il legame materiale dovrebbe ritenersi spezzato e il divieto di bis in idem pienamente operante.
In conclusione, la Corte costituzionale rileva il carattere innovativo che la regola della sentenza A e 8 contro Norvegia ha impresso in ambito convenzionale al divieto di bis in idem: “si e’ passati dal divieto imposto agli Stati aderenti di configurare per lo stesso fatto illecito due procedimenti che si concludono indipendentemente l’uno dall’altro, alla facolta’ di coordinare nel tempo e nell’oggetto tali procedimenti, in modo che essi possano reputarsi nella sostanza come preordinati a un’unica, prevedibile e non sproporzionata risposta punitiva, avuto specialmente riguardo all’entita’ della pena (in senso convenzionale) complessivamente irrogata”, sicche’ “cio’ che il divieto di bis in idem ha perso in termini di garanzia individuale, a causa dell’attenuazione del suo carattere inderogabile, viene compensato impedendo risposte punitive nel complesso sproporzionate”.
7.4. E’ proprio in questa considerazione, attentamente strutturata dalla Corte costituzionale, che si concentra la centralita’ delle affermazioni contenute nella pronuncia A e 8 contro Norvegia, in una prospettiva interpretativa che la Corte di Giustizia Europea, nelle tre sentenze sopra richiamate, ha portato alla definitiva consacrazione e che prelude, verosimilmente, ad un duraturo periodo di stabilita’ interpretativa per la giurisprudenza Europea ed interna sul tema, rassicurata da una declinazione del principio di ne bis in idem che “salva” sia le garanzie individuali che la struttura bifronte della tutela degli interessi dell’Unione Europea, superando problemi di armonizzazione delle legislazioni interne rispetto ai principi declinati dalle Corti sovranazionali (primo tra tutti, quello legato al criterio di legalita’ formale dell’illecito penale rinvenibile anche in quanto previsto dall’articolo 649 c.p.p., norma in relazione alla quale, non a caso, la sentenza Sez. 5, n. 5679 del 9/11/2018, dep. 2019, Erbetta, Rv. 275314 ha dichiarato la manifesta infondatezza della questione di legittimita’ costituzionale proposta dalla difesa, tenuto conto delle affermazioni della Corte costituzionale nella sentenza n. 43 del 2018 e dei criteri dettati dalla sentenza Corte EDU, GC, 15.11.2016, A e B contro Norvegia).
Tenendo conto, dunque, delle tre pronunce dei giudici di Lussemburgo, ed in particolare della sentenza Menci, dotata del piu’ ampio percorso argomentativo, e della sentenza Garisson Real Estate, specificamente riferita al tema del ne bis in idem in rapporto alla disciplina degli abusi di mercato, rilevante nel presente processo, si possono trarre alcuni punti interpretativi di rilievo.
Anzitutto, il richiamo ai consolidati criteri funzionali all’identificazione della natura sostanzialmente penale di una sanzione formalmente amministrativa (criteri assimilabili ai cd. Engel criteria elaborati dalla Corte EDU) e all’accertamento dell’idem factum (sentenza Menci, rispettivamente, §§ 26 ss. e §§ 34 ss.; conforme la sentenza Garisson Real Estate, §§ 28 ss. e 36 ss.).
Quindi, la ricostruzione della portata della tutela accordata dall’articolo 50 CDFUE, che deve essere messa in relazione con l’articolo 52, comma 1, della Carta, in forza del quale, da una parte, eventuali limitazioni all’esercizio dei diritti e delle liberta’ riconosciuti dalla stessa Carta devono essere previste dalla legge e rispettare il contenuto essenziale di detti diritti e liberta’, mentre, dall’altra, nel rispetto del principio di proporzionalita’, possono essere apportate limitazioni solo qualora siano necessarie e rispondano effettivamente a finalita’ di interesse generale riconosciute dall’Unione o all’esigenza di proteggere i diritti e le liberta’ altrui.
Dalla lettura coordinata delle norme indicate, la Corte di Giustizia trae una serie di indicazioni (ulteriori) volte ad individuare le condizioni in presenza delle quali il cumulo di sanzioni sostanzialmente penali (seppur formalmente eterogenee) non integra una violazione del principio del ne bis in idem secondo il diritto dell’Unione Europea, e precisamente:
a) la necessaria base legale della disciplina del cumulo sanzionatorio, con la collegata esigenza che la previsione sia posta attraverso “norme chiare e precise che consentano al soggetto dell’ordinamento di prevedere quali atti e omissioni possano costituire oggetto di un siffatto cumulo di procedimenti e di sanzioni” (sentenza Menci, §§ 42 e 49; conforme la sentenza Garisson Real Estate, §§ 44 e 52);
b) la necessaria complementarieta’ finalistica del cumulo sanzionatorio: un cumulo di procedimenti e di sanzioni di natura penale (formalmente l’una, sostanzialmente l’altra) puo’ essere giustificato allorche’ detti procedimenti e dette sanzioni riguardino “scopi complementari vertenti, eventualmente, su aspetti differenti della medesima condotta di reato interessata, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare” (sentenza Menci, § 44; conforme la sentenza Garlsson Real Estate, § 46);
c) il necessario coordinamento tra i procedimenti, mediante una previsione normativa tale da far si’ che “gli oneri derivanti, a carico degli interessati, da un cumulo del genere siano limitati a quanto strettamente necessario al fine di realizzare l’obiettivo” di interesse generale richiamato (sentenza Menci, § 52; conforme la sentenza Garlsson Real Estate, § 54);
d) la necessita’ – soprattutto – che sussista un canone di proporzionalita’ del complessivo trattamento sanzionatorio, canone che rinviene il proprio fondamento anche nell’articolo 49, comma 3, della Carta, in forza del quale le pene inflitte non devono essere sproporzionate rispetto al reato (sentenza Menci, § 55; conforme la sentenza Garlsson Real Estate, § 56).
Il “garante” di questa nuova dimensione del principio di ne bis in idem e’ senza dubbio il giudice interno: il suo ruolo decisivo di verifica assurge, nella costruzione della Corte di Giustizia – risalente sin ai tempi della sentenza Fransson del 2013 – a condizione imprescindibile del rispetto dei criteri interpretativi dettati e in presenza dei quali, eventualmente, si potrebbe rilevare l’insussistenza della violazione del principio di ne bis in idem.
Secondo la sentenza Menci, “spetta, in definitiva, al giudice del rinvio valutare la proporzionalita’ dell’applicazione concreta della summenzionata normativa nell’ambito del procedimento principale, ponderando, da un lato, la gravita’ del reato (nel caso di specie, tributario) in discussione e, dall’altro, l’onere risultante concretamente per l’interessato dal cumulo dei procedimenti e delle sanzioni di cui al procedimento principale” (cfr. § 59; anche la sentenza Garlsson Real Estate richiama, ai §§ 59 e 61, la necessaria verifica, sul punto, da parte del giudice del rinvio).
7.5. Quanto allo specifico ambito della disciplina degli abusi di mercato, la pronuncia Garlsson Real Estate – intervenuta in un caso, speculare a quello del ricorrente (OMISSIS), in cui la sanzione penale era divenuta definitiva e il giudizio a quo riguardava la sanzione formalmente amministrativa irrogata da CONSOB e ritenuta sostanzialmente penale – ha riconosciuto come sussistenti alcune delle condizioni sopra richiamate.
Per la necessaria “base legale” della doppia sanzione, la Corte di Giustizia ha fatto riferimento alla disciplina prevista in materia dal TUF di cui al Decreto Legislativo n. 58 del 1998, nonche’ alla necessaria complementarieta’ finalistica del cumulo sanzionatorio, identificato, nel caso di specie, alla luce dell’obiettivo di interesse generale sotteso alla normativa statale in tema di abusi di mercato, nella tutela dell’integrita’ dei mercati finanziari dell’Unione e della fiducia del pubblico negli strumenti finanziari: tale obiettivo e’ stato ritenuto adeguato a fondare la limitazione dell’articolo 50 CDFUE, nonche’ sufficientemente proporzionato a tale scopo.
Con riguardo alla proporzionalita’ del complessivo trattamento sanzionatorio, la sentenza Garlsson Real Estate ha osservato che il cumulo di procedimenti e di sanzioni previsto da una normativa nazionale non deve superare i limiti di quanto idoneo e necessario al conseguimento degli scopi legittimi perseguiti dalla normativa di cui trattasi (fermo restando che, qualora sia possibile una scelta fra piu’ misure appropriate, si deve ricorrere alla meno restrittiva).
La Corte ha, altresi’, affermato che in assenza di armonizzazione del diritto dell’Unione in materia, gli Stati possono discrezionalmente stabilire se prevedere un unico procedimento di natura penale o amministrativa ovvero un doppio binario sanzionatorio. La scelta dello Stato membro interessato di prevedere la possibilita’ di un cumulo di procedimenti non e’ in se’ significativa della lesione del criterio di proporzionalita’, salvo altrimenti privare detto Stato della stessa liberta’ di scelta in proposito.
Precisamente, richiamando la direttiva 2003/6, si e’ detto che “la proporzionalita’ di una normativa nazionale, come quella di cui al procedimento principale, non puo’ essere messa in dubbio per il solo fatto che lo Stato membro di cui trattasi abbia optato per la possibilita’ di un cumulo siffatto, a pena di privare detto Stato membro di tale liberta’ di scelta” (§ 49).
Ancora specificamente, sotto il profilo della proporzionalita’, la disciplina interna, secondo la sentenza Garlsson, deve “prevedere l’obbligo per le autorita’ competenti, in caso di irrogazione di una seconda sanzione, di assicurarsi che la severita’ dell’insieme delle sanzioni inflitte non ecceda la gravita’ del reato accertato” (§ 56).
Ed infatti, il cumulo delle sanzioni deve essere accompagnato da norme che garantiscano che la severita’ dell’insieme delle sanzioni inflitte corrisponda alla gravita’ del reato, derivando tale obbligo dall’articolo 52 par. 1 della Carta dei diritti fondamentali e dal principio di proporzionalita’ delle pene sancito dall’articolo 49, par. 3 della stessa Carta.
Tali norme devono contemplare per le autorita’ procedenti, in caso di irrogazione di una seconda sanzione, il dovere di verificare che la severita’ del trattamento sanzionatorio complessivo non ecceda la gravita’ del reato.
7.6. La sentenza (OMISSIS) e (OMISSIS), infine, e’ anch’essa rilevante ai fini di questa decisione perche’ chiude una porzione della vicenda che ha riguardato direttamente il presente processo e stabilisce un principio valido qualora vi sia stata pronuncia assolutoria: si e’ stabilito, infatti, che l’articolo 14, paragrafo 1, della direttiva 2003/6, letto alla luce dell’articolo 50 della Carta, va interpretato nel senso che esso non osta a una normativa nazionale in forza della quale un procedimento inteso all’irrogazione di una sanzione amministrativa pecuniaria di natura penale non puo’ essere proseguito a seguito di una sentenza penale definitiva di assoluzione che ha statuito che i fatti che possono costituire una violazione della normativa sugli abusi di informazioni privilegiate, sulla base dei quali era stato parimenti avviato tale procedimento, non erano provati.
7.7. In questo contesto devono essere inserite le ultime affermazioni rese dalla giurisprudenza di legittimita’ sul tema della verifica di violazioni del principio di ne bis in idem convenzionale.
La Cassazione, con una serie di decisioni relative al tema degli abusi di mercato successive alla sentenza A e B contro Norvegia della Corte EDU, ha dichiarato l’insussistenza della violazione del principio di bis in idem in presenza della oramai nota regola interpretativa della sufficiently close connection in substance and time e di una verifica della natura integrata della sanzione e proporzionata al disvalore del fatto (cfr. ex multis Sez. 2, n. 41007 del 22/5/2018, Bronconi, Rv. 274463; Sez. 3, n. 6993 del 22/9/2017, dep. 2018, Servello, Rv. 272588; Sez. 4, n. 12667 del 13/2/2018, Palmieri, Rv. 272533; Sez. 2, n. 9184 del 2017, cit.).
Questa Sezione ha emesso sul tema tre importanti, recenti pronunce: Sez. 5, n. 49869 del 21/9/2018, Chiarion, Rv. 274604, che chiude la vicenda del processo (relativo a reati di abuso di informazioni privilegiate previsto dall’articolo 184, comma 1, lettera b, TUF) da cui era sorta anche la questione di legittimita’ costituzionale, poi dichiarata inammissibile con sentenza n. 102 del 2016, Corte Cost.; Sez. 5, n. 45829 del 16/7/2018, Franconi, Rv. 274179, riferita ad un’ipotesi di aggiotaggio manipolativo, prevista dall’articolo 185 TUF; Sez. 5, n. 5679 del 19/11/2019, Erbetta, Rv. 275314 che ha applicato i criteri elaborati dalle Corti Europee nell’ambito peculiare di un patteggiamento per una fattispecie di manipolazione del mercato sanzionata sia penalmente, ai sensi dell’articolo 185 TUF, che in seguito a procedimento CONSOB, ai sensi dell’articolo 187-ter TUF.
Tutte e tre le pronunce citate giungono a condividere ed adottare gli approdi delle sentenze Grande Chambre, A e B contro Norvegia del 15/11/2016 e della Corte di Giustizia di Lussemburgo del marzo 2018 (in particolare, quelli delle pronunce Menci e Garlsson Real Estate).
Superata positivamente la verifica della compatibilita’ procedimentale tra i percorsi che hanno portato, da un lato, all’irrogazione della sanzione amministrativa “sostanzialmente penale” in via definitiva e, dall’altro, ad infliggere la pena in relazione alla quale vi e’ ricorso, ovvero alla valutazione sulla sufficiently close connection in substance and time, le tre pronunce si concentrano – ciascuna ovviamente nei propri ambiti e fattispecie – sulla seconda piattaforma di verifica indicata dalle Corti Europee e dalla nostra Corte costituzionale: quella della analisi sulla proporzionalita’ della sanzione complessivamente irrogata, che postula l’esercizio di penetranti poteri del giudice chiamato a leggere la fattispecie concreta.
E cosi’, la sentenza Franconi ha espressamente affermato il principio secondo cui l’irrogazione per il medesimo fatto sia di una sanzione penale che di una sanzione amministrativa definitiva, previste rispettivamente dal Decreto Legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, articoli 185 e 187-ter, non determina la violazione del principio del ne bis in idem, a condizione che il cumulo delle sanzioni risulti proporzionale alla gravita’ del fatto commesso, in conformita’ ai principi espressi nelle sentenze della Corte di Giustizia dell’Unione Europea nella causa C-524/15, Menci; C-537/26, Garlsson Real Estate, nonche’ nella sentenza della Corte EDU A e 8 c. Norvegia del 15.11.2016).
Analizzando il nuovo articolo 620 c.p.p., comma 1, lettera l), si afferma condivisibilmente la possibilita’ di sindacato da parte della Corte di cassazione, anche d’ufficio, sulla proporzionalita’ della sanzione complessiva integrata, sicche’, in tema di abusi di mercato, il giudice di legittimita’, qualora non sia necessario procedere ad ulteriori accertamenti di fatto e facendo riferimento ai criteri di cui all’articolo 133 c.p. (eventualita’ che ricorreva nel caso di specie), puo’ pronunciarsi sulla complessiva proporzionalita’ della sanzione “integrata”.
Nel caso concreto, la Corte ha rigettato il ricorso dell’imputato, ritenendo che sia stato rispettato il criterio di proporzionalita’ del peso derivante dal cumulo delle sanzioni inflitte agli interessati rispetto alla gravita’ dei fatti addebitati, nonche’ il canone di una sanzione limitata, nella sua severita’, allo “strettamente necessario”, in modo da non risultare eccessivamente oneroso per i soggetti sanzionati (le sanzioni penali inflitte agli imputati si erano attestate nel minimo edittale per quanto riguarda la pena detentiva della reclusione e della multa; le sanzioni amministrative pecuniarie “di natura penale” applicate dalla CONSOB, pur essendo superiori al minimo, apparivano molto lontane dalla fascia sanzionatoria piu’ elevata prevista dall’articolo 187-ter ed altrettanto valeva per le sanzioni amministrative accessorie inflitte ai sensi dell’articolo 187-quater: peraltro, nel caso di specie, la Corte ha dichiarato non eseguibili le sanzioni penali di natura pecuniaria, poiche’ inferiori nell’importo a quelle CONSOB gia’ esatte, applicando il criterio compensativo previsto espressamente dall’articolo 187-terdecies TUF, introdotto dal Decreto Legislativo n. 107 del 2018).
La sentenza Erbetta, ultima in ordine di tempo delle tre pronunce citate, concordando sull’impostazione teorica seguita nei due precedenti (e risolvendo la questione di costituzionalita’ dell’articolo 649 c.p.p. nel senso, gia’ indicato poco sopra, della sua manifesta infondatezza, alla luce dei nuovi canoni di verifica dettati dalla giurisprudenza Europea e costituzionale) ha rigettato il ricorso, statuendo che, nel caso di patteggiamento richiesto prima dell’entrata in vigore della L. 23 giugno 2017, n. 103, la Corte di cassazione puo’ censurare il mancato proscioglimento dell’imputato per “bis in idem” ex articolo 129 c.p.p., soltanto nell’ipotesi eccezionale in cui la sanzione amministrativa gia’ inflitta ai sensi dell’articolo 187-ter TUF sia commisurata in maniera tale da assorbire il disvalore della condotta, sia negli aspetti rilevanti a fini penali che in quelli posti a fondamento della complementare sanzione amministrativa, sicche’ il cumulo delle sanzioni risulti radicalmente sproporzionato (mentre nel caso di specie il ricorrente aveva riportato sanzioni prossime ai minimi edittali in ciascuno dei due procedimenti “connessi”, ritenute proporzionate alla complessiva gravita’ del fatto scrutinata dal giudice del patteggiamento secondo i criteri di cui all’articolo 133 c.p.). Quanto alla pronuncia Chiarion, il Collegio condivide la sottolineatura circa l’esclusione delle sanzioni amministrative comminate per l’abuso di informazioni privilegiate dal “nucleo duro” del diritto penale, sicche’, in relazione ad esse, il legislatore conserva la discrezionalita’ – purche’ questa non trasmodi in manifesta irragionevolezza – di configurare un trattamento sanzionatorio non sorretto dall’identico corpus di garanzie della sanzione penale in senso stretto (cfr. sent. n. 193 del 2016 Corte Cost.; sent. n. 43 del 2018, cit. e sent. n. 43 del 2017 Corte Cost., che ha dichiarato non fondate le questioni di legittimita’ costituzionale proposte in relazione alla L. 11 marzo 1958, n. 87, articolo 30, comma 4, ed alla limitazione della sua portata normativa alle sole sentenze irrevocabili di condanna con le quali sia stata inflitta una sanzione penale nel significato proprio dell’ordinamento giuridico italiano, e non anche nel significato, piu’ ampio, proprio del sistema convenzionale).
Si tratta di un tentativo di attenuare quella discrasia – gia’ segnalata e, al momento, ancora ineluttabile – tra il nostro sistema ordinamentale, caratterizzato da una legalita’ penale di ordine formale, e la dimensione sostanzialistica dell’illecito penale adottata dalle Corti Europee.
Il profilo della verifica sulla proporzionalita’ della sanzione inflitta e’, invece, risolto dalla sentenza Chiarion in modo parzialmente differente da quello delle pronunce Franconi ed Erbetta.
La regula iuris che si enuncia per dar luogo a tale controllo di proporzionalita’ e’ coerente con quanto si afferma anche nella altre due decisioni gia’ richiamate e, ovviamente, risponde ai criteri delle Corti Europee e della Corte costituzionale: nella verifica della compatibilita’ con il principio del ne bis in idem del trattamento sanzionatorio complessivamente irrogato all’autore dell’abuso di mercato, il giudice comune deve valutare la proporzionalita’ del cumulo sanzionatorio rispetto al disvalore del fatto, da apprezzarsi con riferimento agli aspetti propri di entrambi gli illeciti (quello penale e quello “formalmente” amministrativo) e, in particolare, agli interessi generali sottesi alla disciplina degli abusi di mercato (anche sotto il profilo dell’incidenza del fatto sull’integrita’ dei mercati finanziari e sulla fiducia del pubblico negli strumenti finanziari), tenendo conto, con riguardo alla pena della multa, del meccanismo “compensativo” di cui all’articolo 187-terdecies TUF.
Qualora detta valutazione dovesse condurre a ritenere il complessivo trattamento sanzionatorio lesivo della garanzia del ne bis in idem, nei termini sopra diffusamente richiamati, il giudice nazionale dovra’ dare applicazione diretta al principio garantito dall’articolo 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, disapplicando, se necessario e, naturalmente, solo in mitius, le norme che definiscono il trattamento sanzionatorio.
La disapplicazione, secondo la motivazione della sentenza, potra’ investire in toto la norma relativa alla sanzione non ancora divenuta irrevocabile solo quando la “prima” sanzione sia, da sola, proporzionata al disvalore del fatto, avuto riguardo anche agli aspetti propri della “seconda” sanzione e agli interessi generali sottesi alla disciplina degli abusi di mercato: infatti, solo in presenza di una sanzione irrevocabile idonea, da sola, ad “assorbire” il complessivo disvalore del fatto, il giudice comune dovra’ disapplicare in toto la norma che commina la sanzione non ancora irrevocabile, cosi’ escludendone l’applicazione.
La sentenza Chiarion avverte, tuttavia, che quest’ultima eventualita’ costituisce senza dubbio un’ ipotesi, che, considerata la gia’ evidenziata estraneita’ della sanzione irrogata dall’autorita’ amministrativa al nucleo piu’ incisivo del diritto sanzionatorio, rappresentato dal diritto penale, e’ potenzialmente suscettibile di venire in rilievo nel caso in cui la valutazione circa la violazione del ne bis in idem riguardi la sanzione amministrativa, essendo gia’ divenuta irrevocabile quella penale (e cioe’ proprio l’ipotesi presa in considerazione dalla sentenza Garisson Real Estate). Mentre, nel caso opposto in cui (come nella fattispecie trattata e come in quella oggi sottoposta al Collegio dall’imputato (OMISSIS)) la sanzione divenuta irrevocabile sia quella irrogata da CONSOB, la disapplicazione in toto della norma sanzionatoria penale puo’ venire in rilievo in ipotesi del tutto eccezionali, in cui la sanzione amministrativa – evidentemente attestata sui massimi edittali in rapporto ad un fatto di consistente gravita’ – risponda, da sola, al canone della proporzionalita’ nelle diverse componenti riconducibili ai due illeciti.
Fuori dall’ipotesi – definita eccezionale – appena richiamata, l’accertamento dell’incompatibilita’ del trattamento sanzionatorio complessivamente irrogato rispetto alla garanzia del ne bis in idem comporta, nel caso di sanzione amministrativa gia’ divenuta irrevocabile, esclusivamente la rideterminazione delle sanzioni penali attraverso la disapplicazione in mitius della norma che commina dette sanzioni non gia’ in toto, ma solo nel minimo edittale e con il limite insuperabile, quanto alla reclusione, dettato dall’articolo 23 c.p.; quanto alla multa, imposto dal meccanismo “compensativo” di cui all’articolo 187-terdecies TUF.
A tale apprezzamento di “non necessita’ della disapplicazione totale” e di “necessita’”, invece, “di una eventuale rimodulazione in melius della sanzione penale inflitta” puo’ provvedere – secondo la sentenza in commento e in base all’analoga prospettiva seguita anche dalla pronuncia n. 45829 del 2018 – lo stesso giudice di legittimita’, sulla base degli elementi di fatto gia’ accertati (cfr. l’interpretazione dell’articolo 620 c.p.p., comma 1, lettera l, da ultimo autorevolmente data da Sez. U, n. 3464 del 30/11/2017, dep. 2018, Matrone, Rv. 271831).
Tuttavia, nel caso Chiarion, la Quinta Sezione rileva che non sussistono le condizioni per procedere essa stessa alla rideterminazione della pena inflitta nel giudizio d’appello, essendo impossibile procedere ad un diretto apprezzamento della complessiva proporzionalita’ del trattamento sanzionatorio alla luce degli atti, sicche’ pronuncia un annullamento con rinvio per nuovo esame alla Corte d’Appello, che dovra’ provvedervi, secondo le indicazioni della stessa sentenza, alla luce dei parametri commisurativi enunciati dalle Corti Europee e sussumibili nella valutazione di cui all’articolo 133 c.p..
8. Orbene, il Collegio ritiene di dover condividere, per quanto sinora esposto, l’impostazione delle tre sentenze di questa stessa Sezione – ed in particolare della pronuncia Chiarion – anche in tema di insider trading, fattispecie penale prevista dall’articolo 184 TUF, e di illecito amministrativo ad essa specularmente posto dall’articolo 187-bis c.p. (oggi riformulato dal Decreto Legislativo n. 107 del 2018 con il richiamo all’articolo 14 MAR).
Nessun dubbio, per l’ipotesi di insider trading, che i procedimenti penale ed amministrativo sorti sui medesimi fatti, essendo del tutto sovrapponibili le contestazioni nella loro materialita’ e rispondendo ai criteri sopra enunciati di derivazione dalla giurisprudenza convenzionale, siano collegati secondo il criterio della sufficiently close connection in substance and time.
In relazione ad essi, pertanto, valutata positivamente la compatibilita’ convenzionale delle procedure parallele di doppio binario, andra’ verificata la proporzionalita’ della sanzione complessivamente inflitta rispetto al disvalore dei fatti commessi, al fine di stabilire se detta sanzione deve essere riproporzionata (operando, ovviamente, sulla porzione ancora sub iudice che nella specie e’ quella penale) ovvero addirittura il riproporzionamento debba sfociare in una vera e propria disapplicazione totale della sanzione inflitta per seconda, qualora la prima sanzione definitiva – quella amministrativa sostanzialmente penale – sia assorbente l’intero disvalore.
Deve affermarsi, pertanto, il principio secondo cui, anche in tema di insider trading e ne bis in idem, la disapplicazione della disciplina penale potra’ avere luogo soltanto nell’ipotesi in cui la sanzione amministrativa gia’ inflitta in via definitiva sia strutturata in maniera e misura tali da assorbire completamente il disvalore della condotta (“coprendo” sia aspetti rilevanti a fini penali che a fini amministrativi e, in particolare, offrendo tutela complessivamente e pienamente adeguata e soddisfacente all’interesse protetto dell’integrita’ dei mercati finanziari e della fiducia del pubblico negli strumenti finanziari), poiche’ in tal caso il cumulo delle sanzioni risulta radicalmente sproporzionato e contrario ai principi sanciti dagli articoli 50 CDFUE e 4 Prot. n. 7 CEDU, come interpretati dalle Corti Europee (Corte EDU, GC, A e B contro Norvegia del 2016 e CGUE, Grande Sezione, Menci (C-524/15), Garlsson Real Estate SA e altri contro Consob (C-537/16) e Di Puma contro Consob e Consob contro Zecca (cause riunite C596/16 e C-597/16).
Nel valutare la proporzionalita’ della sanzione dovra’ tenersi conto, con riguardo alla pena della multa, del meccanismo “compensativo” previsto dall’articolo 187-terdecies TUF, secondo cui, quando per lo stesso fatto e’ stata applicata a carico del reo o dell’ente una sanzione amministrativa pecuniaria ai sensi dell’articolo 187-septies, la esazione della pena pecuniaria e della sanzione pecuniaria dipendente da reato e’ limitata alla parte eccedente quella riscossa dall’autorita’ amministrativa. L’articolo 187-terdecies, pur essendo una norma dai limitati effetti, che risolve il problema del doppio binario sanzionatorio soltanto dal punto di vista della sanzione pecuniaria complessivamente irrogata, tuttavia dovra’ essere tenuto in conto al momento di commisurare la pena pecuniaria in sede penale, una volta divenuta definitiva la sanzione pecuniaria amministrativa.
Ovviamente, la rimodulazione del trattamento sanzionatorio dovra’ essere compiuta mediante una verifica complessiva che attenga sia alla pena principale che alla confisca ex articolo 187 TUF ed alle pene accessorie.
In particolare, quanto alla confisca da reato, dovra’ tenersi conto della necessita’ di ottenere un risultato sanzionatorio che complessivamente non esorbiti da criteri di ragionevolezza e sproporzione rispetto al disvalore in se’ del fatto, avuto riguardo in special modo alla porzione confiscata riferita al capitale investito.
Il Collegio condivide, altresi’, al fine di procedere alla valutazione sul rapporto tra afflittivita’ globale della sanzione integrata e disvalore del fatto commesso, il richiamo ai parametri normativi previsti dall’articolo 133 c.p., utili a (ri)proporzionare la sanzione complessivamente inflitta, tenendo conto di un “allargamento” dell’oggetto di tali valutazioni, che, per un verso, devono essere estese al trattamento sanzionatorio inteso come comprensivo anche della sanzione formalmente amministrativa e, per altro verso, devono investire il fatto commesso nei diversi aspetti propri dei due illeciti (quello penale e quello “formalmente” amministrativo).
Ebbene, con riferimento alla sanzione inflitta a (OMISSIS) (cosi’ come per il caso Chiarion), e’ necessario che una simile valutazione complessa, inevitabilmente ancorata a parametri di merito, sia condotta dal giudice di merito, cui va rinviata, pertanto, la questione della verifica della complessiva proporzionalita’ della sanzione inflitta al ricorrente, derivata dal cumulo della pesante afflittivita’ generata dagli esiti del procedimento CONSOB e del processo penale: egli dovra’ tener conto dell’incidenza negativa sulla fiducia degli investitori nei mercati e sulla lesione provocata al bene dell’integrita’ e trasparenza del mercato, nonche’ di tutti i fattori soggettivi ed oggettivi ulteriori che possono influire sul rapporto sanzione/disvalore del fatto (cfr., in termini analoghi, in seguito alla sentenza CGUE Garisson cit., la decisione di annullamento con rinvio emessa dalla Sezione Tributaria della Cassazione civile con la sentenza n. 27564 del 30/10/2018).
Nel processo penale, l’imputato e’ stato condannato alla pena di anni due di reclusione e alla multa di 50.000 Euro, nonche’ alla interdizione dai pubblici uffici e dalle funzioni direttive di persone giuridiche ed imprese e dell’incapacita’ di contrattare con la P.A. per la durata di due anni, oltre al risarcimento dei danni in favore della parte civile CONSOB, quantificati (per la lesione del bene dell’integrita’ del mercato) in via equitativa in 100.000 Euro, ed in favore della parte civile (OMISSIS) s.p.a., quantificati anch’essi in via equitativa in 355.000 Euro.
E’ stata inoltre disposta la confisca, ai sensi dell’articolo 187 TUF, della somma di 1.324.736 Euro, sequestrata all’imputato, equivalente al prodotto ed al profitto del reato, ma anche ai beni utilizzati per commetterlo (in questo caso i capitali investiti dal ricorrente per operare sui titoli).
Gli e’ stata concessa la sospensione condizionale sia della pena principale che di quelle accessorie.
Nella procedura amministrativa, il ricorrente ha subito una sanzione definitiva del cui tenore complessivo altamente afflittivo non puo’ dubitarsi, sicche’ ad essa sicuramente e’ riconducibile il paradigma di matrice convenzionale delle “sanzioni amministrative sostanzialmente penali”: le sanzioni inflitte in concreto consistono, infatti in una sanzione amministrativa pecuniaria di Euro 150.000 ai sensi dell’articolo 187-bis TUF (per la vicenda OPA (OMISSIS)); una sanzione amministrativa pecuniaria di Euro 150.000 ai sensi dell’articolo 187-bis TUF (per la vicenda OPA (OMISSIS)); una sanzione amministrativa pecuniaria di Euro 225.000 ai sensi dell’articolo 187-bis TUF (per la vicenda acquisizione controllo (OMISSIS)); una sanzione amministrativa accessoria interdittiva, disposta ai sensi dell’articolo 187-quater, comma 1, TUF ed inflitta per un periodo di mesi nove.
Infine, si e’ disposta la confisca dei beni oggetto di sequestro, per 1.193.914 Euro, ai sensi del Decreto Legislativo n. 58 del 1998, articolo 187-sexies.
Tale somma, peraltro, potra’, nella sede competente, essere riparametrata ai dicta della Corte costituzionale che, con la citata sentenza n. 112 del 2019 (adottata il 6 marzo 2019 e depositata il 10 maggio 2019, nelle more della stesura del presente provvedimento), ha dichiarato l’illegittimita’ costituzionale del Decreto Legislativo n. 58 del 1998, articolo 187-sexies, nel testo originariamente introdotto dalla L. 18 aprile 2005, n. 62, articolo 9, comma 2, lettera a), nella parte in cui prevede la confisca obbligatoria, diretta o per equivalente, del prodotto dell’illecito e dei beni utilizzati per commetterlo, e non del solo profitto; ha dichiarato, in via consequenziale, ai sensi della L. 11 marzo 1953, n. 87, articolo 27 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), l’illegittimita’ costituzionale del Decreto Legislativo n. 58 del 1998, articolo 187-sexies, nella versione risultante dalle modifiche apportate dal Decreto Legislativo 10 agosto 2018, n. 107, articolo 4, comma 14, recante “Norme di adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni del regolamento (UE) n. 596/2014, relativo agli abusi di mercato e che abroga la direttiva 2003/6/CE e le direttive 2003/124/UE, 2003/125/CE e 2004/72/CE”, nella parte in cui prevede la confisca obbligatoria, diretta o per equivalente, del prodotto dell’illecito, e non del solo profitto.
Dunque, nel caso di specie, in sede di giudizio di rinvio, il confronto tra le sanzioni “doppie” inflitte nella procedura amministrativa definitiva ed in quella penale andra’ rivisto tenendo conto anzitutto delle sanzioni principali inflitte in ciascun procedimento, valutando il cumulo della loro afflittivita’ rispetto al disvalore complessivo del fatto anche alla luce del comportamento collaborativo dell’imputato e della episodicita’ della sua condotta in una carriera sinora sempre improntata alla correttezza professionale, circostanze delle quali da’ atto la Corte d’Appello.
Dovra’ tenersi conto, altresi’, delle conseguenze che la sentenza della Corte costituzionale avra’ sulla confisca amministrativa gia’ passata in giudicato, da cui dovra’ essere espunta la quota sanzionatoria riferita al prodotto dell’illecito, lasciando in piedi il solo profitto di esso (vale a dire il guadagno effettivo al netto, calcolato dalla vendita delle azioni di ciascuna societa’, successiva al loro acquisto indebito tramite abuso in informazioni privilegiate).
Infine, andra’ adottato il meccanismo compensativo previsto dall’articolo 187-terdecies essendo gia’ evidente che la sanzione pecuniaria complessivamente inflitta in sede amministrativa (450.000 Euro) e’ di gran lunga superiore alla sanzione pecuniaria che segue al reato (pari a 50.000 Euro di multa).
Le indicazioni per il giudice del rinvio, peraltro, non sarebbero complete se non si chiudesse il cerchio aperto con l’iniziale esposizione del principio di diritto cui attenersi. L’ipotesi della disapplicazione in toto della sanzione penale che “doppi” quella amministrativa gia’ inflitta, intervenendo “da seconda” dopo il passaggio in giudicato di quest’ultima, e’ rara (la’ dove i tre precedenti di questa Sezione ne rammentano addirittura l’eccezionalita’).
Deve aggiungersi che, per quanto rara, l’ipotesi non e’ relegata entro ambiti paradossali e che, proprio in una materia come quella degli abusi di mercato, in cui l’apparato sanzionatorio penale fa spesso eco alla severita’ draconiana delle sanzioni amministrative per prime inflitte, il giudice di merito – o quello di legittimita’, ricorrendo le condizioni previste dall’articolo 620 c.p.p., comma 1, lettera l) – ha il dovere, nella valutazione dell’afflittivita’ complessiva della sanzione “integrata”, di spingersi oltre la verifica meramente quantitativa o legata alle pur evidenti e pressanti ragioni di tutela dell’interesse generale alla trasparenza ed integrita’ dei mercati e, con essi, dei sistemi economici, valorizzando parimenti quelle esigenze di garanzia individuale delle quali le Corti Europee lo hanno eletto primo custode.
In questo compito, al giudice penale non devono essere di ostacolo ne’ il principio di obbligatorieta’ dell’azione penale ex articolo 112 Cost., che non puo’ operare come una sorta di generalizzata preclusione al “recepimento”, nell’ordinamento interno, della riconducibilita’ nel genus della sanzione penale, cosi’ come delineato dalla CEDU, di sanzioni formalmente non qualificate come tali, ne’ il gia’ evocato criterio di legalita’ sulle cui basi si fonda la teoria dell’illecito penale nel nostro ordinamento, che pure non puo’ essere invocato per giustificare una indiscriminata preclusione alla conformazione del diritto interno al diritto dell’Unione Europea in materia penale (cfr., per tale impostazione, la sentenza Chiarion citata).
Si rammenti, altresi’, che la Corte costituzionale, con l’ordinanza n. 48 del 2017, ha ribadito il consolidato orientamento secondo cui l’articolo 11 Cost. impone al giudice nazionale di dare piena e immediata attuazione alle norme dell’Unione Europea provviste di efficacia diretta e non applicare, in tutto o anche solo in parte, le norme interne ritenute con esse inconciliabili, fatti salvi i limiti del rispetto dei principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale e dei diritti inalienabili della persona, certamente salvaguardati dall’assetto del ne bis in idem e dei compiti di accertamento riconosciuti al giudice penale.
9. La sentenza impugnata, pertanto, deve essere annullata con rinvio, limitatamente al trattamento sanzionatorio, ad altra Sezione della Corte di appello di Milano, che procedera’ alla verifica indicata in ordine alla proporzionalita’ del complessivo trattamento sanzionatorio irrogato al ricorrente, valutando, tra l’altro, l’incidenza del fatto sull’integrita’ e trasparenza del mercato finanziario e sulla fiducia del pubblico negli strumenti finanziari, ma anche la complessiva condotta del ricorrente e si uniformera’, nel quadro offerto dalla pronunce della Corte di Giustizia e dalla Corte EDU, ai principi di diritto richiamati e compendiati ai punti 7 e 8 della pronuncia rescindente.
Nel resto il ricorso deve essere rigettato.
Quanto alle spese del presente giudizio in favore della parte civile, il loro regolamento va altresi’ devoluto in sede di giudizio definitivo.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata limitatamente al trattamento sanzionatorio con rinvio per nuovo esame ad altra Sezione della Corte d’Appello di Milano.
Rigetta nel resto.
Spese della parte civile al definitivo.

 

In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.

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