In tema di dichiarazione fraudolenta mediante utilizzo di fatture o altri documenti

Corte di Cassazione, penale, Sentenza|9 aprile 2021| n. 13275.

In tema di dichiarazione fraudolenta mediante utilizzo di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, è configurabile una pluralità di reati qualora l’illecita condotta riguardi sia la dichiarazione ai fini IVA che quella ai fini II.DD., sicché, ricorrendone i presupposti, può trovare applicazione l’istituto della continuazione.

Sentenza|9 aprile 2021| n. 13275

Data udienza 5 marzo 2021

Integrale

Tag – parola chiave: Iva – Evasione fiscale – Emissione di fatture per operazioni inesistenti – Elementi passivi fittizi – Prove – Dichiarazioni dei commercialisti – Utilizzabilità

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LIBERATI Giovanni – Presidente

Dott. GENTILI Andrea – Consigliere

Dott. SEMERARO Luca – Consigliere

Dott. SCARCELLA Alessio – rel. Consigliere

Dott. CORBO Antonio – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
(OMISSIS), nato a (OMISSIS);
avverso la sentenza del 16/09/2020 della CORTE APPELLO di MILANO;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere SCARCELLA ALESSIO;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale BALDI FULVIO, che ha concluso per l’annullamento con rinvio, riportandosi alla requisitoria scritta gia’ depositata.
udito il difensore presente, Avv. (OMISSIS), in sostituzione dell’Avv. (OMISSIS), che si e’ riportato ai motivi di ricorso, insistendo per l’accoglimento del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza 16.09.2020, la Corte d’appello di Milano confermava la sentenza del tribunale di Milano 22.07.2019, appellata dal (OMISSIS), che lo aveva condannato alla pena di 5 anni di reclusione, oltre alle pene accessorie di legge, ed alla confisca dei beni in sua disponibilita’, per un ammontare di Euro 2.073.485,55, in quanto ritenuto colpevole dei reati di frode fiscale (Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 2) e del reato di omessa dichiarazione (Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 5), limitatamente ai fatti contestati ai capi 2.1, 2.2., 2.3 e 2.4 della rubrica (utilizzo di fatture per operazioni inesistenti con indicazione, nelle dichiarazioni fiscali ai fini delle imposte dirette ed IVA relativamente agli anni di imposta dal 2010 al 2013, di elementi passivi fittizi per un ammontare complessivo meglio descritto nelle tabelle E), F), G), nonche’ A), B) e C) del capo 2.3.; omessa dichiarazione a fini IRES ed IVA per l’anno d’imposta 2014, con evasione superiore alla soglia di punibilita’, come indicato al capo 2.4.).
2. Contro la sentenza ha proposto ricorso per cassazione il difensore di fiducia del ricorrente, iscritto all’Albo speciale previsto dall’articolo 613, c.p.p., articolando quattro motivi, di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex articolo 173 disp. att. c.p.p..
2.1. Deduce, con il primo motivo, il vizio di violazione di legge in relazione all’articolo 191 c.p.p. e articolo 220 disp att. c.p.p..
Con il primo motivo, ulteriormente specificato in sede di motivi aggiunti in data 17.02.2021, la difesa del ricorrente sostiene che la Corte d’Appello di Milano avrebbe errato laddove ha ritenuto pienamente utilizzabili, ai fini della condanna del ricorrente, le dichiarazioni rese in sede amministrativa dai commercialisti (OMISSIS) e (OMISSIS), e confluite nei PVC della GDF. La Corte infatti, condividendo la tesi del primo giudice, aveva affermato che le dichiarazioni dei due professionisti erano pienamente utilizzabili poiche’, al momento della loro assunzione, non erano emersi ancora elementi costitutivi dei reati, poi contestati al (OMISSIS). Quanto sopra sarebbe stato smentito dalle stesse dichiarazioni del teste (OMISSIS) della Guardia di Finanza, il quale avrebbe riferito all’ud. 17.05.2019 che in sede di verifica erano stati individuati dei documenti che fin da subito erano sembrati riferibili ad operazioni inesistenti, sicche’ tali indizi di reato sarebbero emersi sin dal primo momento con conseguente necessita’ di applicazione dell’articolo 220 disp. att. c.p.p.. Sostiene la difesa che, anche volendo ritenere utilizzabili tali elementi, le dichiarazioni dei due professionisti non suffragate dalla verifica dibattimentale avrebbero potuto, eventualmente, essere valutate alla stregua di meri indizi, semplici presunzioni legali, pienamente utilizzabili in sede tributaria, ma non sufficienti in sede penale. Richiama a tal proposito giurisprudenza di questa Corte (Sez. III, 18 aprile 2016, n. 15899; Sez. III, 12 febbraio 2019, n. 7242) secondo cui le presunzioni legali previste da norme tributarie, pur potendo avere valore indiziario, non possono costituire di per se’ fonte di prova della commissione del reato, assumendo esclusivamente il valore di dati di fatto, che devono essere valutati liberamente dal giudice penale, unitamente ad elementi di riscontro che diano certezza dell’esistenza della condotta criminosa. Pertanto, occorre ribadire sia il valore prettamente indiziario delle indagini tributarie, che la loro necessita’ di trovare ulteriori elementi di riscontro per assurgere a livello di prova penale. Conseguentemente, si deduce in ricorso che, in tema di reati tributari, ai fini della prova del reato, il giudice puo’, dunque, fare legittimamente ricorso agli accertamenti condotti dalla Guardia di Finanza o dall’ufficio finanziario, anche ai fini della determinazione dell’ammontare dell’imposta evasa, tuttavia il proprio esame deve estendersi a valutare ogni altro eventuale indizio acquisito, in quanto, sebbene l’autonomia del processo penale rispetto a quello tributario non esclude che, ai fini della formazione del suo convincimento, il giudice penale possa avvalersi degli stessi elementi che determinano presunzioni secondo la disciplina tributaria, occorre pero’ che detti elementi siano assunti non con l’efficacia di certezza legale, ma come dati processuali oggetto di libera valutazione ai fini probatori e, poiche’ dette presunzioni hanno valore di indizio, esse, per assurgere a dignita’ di prova, devono trovare oggettivo riscontro o in distinti elementi di prova. Nel caso di specie, secondo la difesa del ricorrente, sarebbe evidente come il primo giudice e la Corte d’appello si siano basati, al fine della condanna del (OMISSIS), unicamente su quanto emerso nel PVC, ed in particolare sulle dichiarazioni dei due professionisti, i quali sentiti nell’ambito del procedimento amministrativo, senza che fossero chiamati a deporre nel processo penale ex articoli 191 e 220 disp. att. c.p.p., hanno rilasciato dichiarazioni accusatorie senza che il (OMISSIS) avesse alcuna possibilita’ di replica, violando, in questo modo, tutte le garanzie riservate all’imputato e la sua scelta di affrontare il processo dibattimentale ordinario, tenuto conto di quanto previsto dall’articolo 195 c.p.p., comma 4, che vieta alla p.g. di deporre sul contenuto delle dichiarazioni acquisite da testimoni (come invece sarebbe avvenuto nel caso in esame, avendo riferito lo stesso teste (OMISSIS) della p.g. di aver appreso elementi dalle dichiarazioni della commercialista (OMISSIS) e della commercialista (OMISSIS)).
2.2. Deduce, con il secondo motivo, il vizio di motivazione sotto il profilo dell’insufficienza e contraddittorieta’ quanto alla mancata assoluzione di reati contestati ai capi 2.1. e 2.3.
Con il secondo motivo, la difesa del ricorrente si duole dell’insufficiente motivazione della sentenza quanto alla prova della partecipazione dell’imputato alla frode fiscale, essendosi limitata la Corte d’appello ad affermare che egli, amministratore di fatto, quale cliente di una serie di cessione di beni fatturati da parte di soggetti economici privi di adeguate strutture commerciali e finanziarie, ossia societa’ cartiere, era coinvolto in un sistema di frode, in quanto responsabile di aver utilizzato fatture per operazioni inesistenti. Si sostiene che la fittizieta’ delle operazioni non sarebbe stata provata, emergendo diversamente che la societa’ (OMISSIS) fosse un’azienda che aveva contratti di appalto presso diverse aziende, appalti segnalati subito alla Guardia di Finanza ma mai verificati. Non vi sarebbero elementi in atti idonei a dimostrare che le societa’ emittenti fossero evasori totali e che avessero frodato l’erario con operazioni inesistenti, richiamando a tal proposito la giurisprudenza della CGUE che esclude che l’impresa che abbia partecipato inconsapevolmente ad una frode ne debba subire le conseguenze, dovendosi valutare le sue operazioni indipendentemente dal disegno criminoso di terzi.
2.3. Deduce, con il terzo motivo, il vizio di violazione di legge con riferimento alla quantificazione della pena ed al calcolo della continuazione ex articolo 81 c.p..
Con il terzo motivo, ulteriormente specificato in sede di motivi aggiunti in data 17.02.2021, la difesa del ricorrente, si duole dell’errore commesso dal primo giudice nel calcolo della pena, il quale, nell’operare gli aumenti per la continuazione ex articolo 81 c.p., avrebbe applicato, per altro in maniera estensiva, il Decreto Legislativo n. 158 del 2015, che ha modificato Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 2, che ha ampliato in senso materiale l’operativita’ della stessa, in quanto l’indicazione di elementi passivi fittizi viene ora punita anche nel caso di dichiarazioni tributarie diverse da quelle annuali ordinarie, previste dal Decreto del Presidente della Repubblica 22 luglio 1998, n. 322, articoli 1 e 8. Il Tribunale infatti e la Corte d’Appello, hanno erroneamente ritenuto che il calcolo della continuazione andasse effettuato sommando ogni imposta evasa, nel caso di specie IRES e IVA. La consumazione del reato ai sensi del Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 2, avviene infatti nel momento in cui le fatture fittizie vengono annotate in tale dichiarazione. A tal fine andra’ quindi considerata la singola annualita’ in riferimento alle diverse societa’ e non, come erroneamente stabilito dai giudici di merito, le singole imposte evase. Muovendo da questo presupposto, ritiene la difesa del ricorrente che la pena debba essere ricalcolata ritenendo errato l’aumento per la continuazione per ogni singola imposta, trattandosi di reati commessi fino al 2013, con la conseguenza che, anche se le imposte evase sono diverse, deve essere considerata un’unica violazione per ogni anno d’imposta. Il silenzio del giudice di appello sulla doglianza difensiva, rende quindi viziata la sentenza.
2.4. Deduce, con il quarto motivo, il vizio di violazione di legge e correlato vizio di motivazione in merito al trattamento sanzionatorio e relativamente al mancato riconoscimento delle attenuanti generiche ex articolo 62 c.p..
Con il quarto ed ultimo motivo, ulteriormente specificato in sede di motivi aggiunti in data 17.02.2021, la difesa del ricorrente si duole per aver la Corte d’appello omesso di motivare le ragioni per le quali non ha ritenuto il (OMISSIS) meritevole della concessione delle attenuati generiche, posto che il comportamento processuale dell’imputato era stato irreprensibile e che era soggetto incensurato. La Corte d’appello non avrebbe invece in alcun modo valutato il corretto comportamento processuale dell’imputato che ha provveduto, per mezzo del suo legale, a produrre tutta la documentazione idonea a ricostruire l’intera vicenda, oltre a citare testimoni che sono risultati fondamentali ai fini processuali, e non si e’ attenuta ai principi di proporzionalita’ previsti dall’articolo 133 c.p., nella quantificazione della pena finale che risulterebbe essere assolutamente abnorme. Relativamente al trattamento sanzionatorio, poi, andrebbe considerato che la Corte di appello ha determinato la medesima pena base stabilita dal giudice di primo grado, tenendo conto, per valutare la gravita’ del fatto, anche dei reati satellite, per i quali poi ha operato l’aumento di pena per la continuazione. Risulterebbe inoltre mancante la risposta alle circostanze addotte nei motivi di appello con le quali si dava conto della condotta successiva al reato, pur sempre valutabile ai sensi dall’articolo 133 c.p., comma 2, nell’ambito della capacita’ a delinquere. L’articolo 133 c.p., impone, infatti, alla Corte di tener conto, nella quantificazione e nell’applicazione della pena, non solo la gravita’ del reato ma anche della criminalita’ virtuale del soggetto e di concedere le attenuanti generiche agli imputati che abbiano avuto una condotta processuale diligente e collaborativa.
3. Il Procuratore Generale presso questa Corte, con articolata requisitoria scritta datata 2.02.2021, ha chiesto l’annullamento con rinvio della sentenza, in particolare ritenendo fondati i motivi primo e terzo.
Ed invero, osserva il PG, fin dal tempo della prima verifica della GDF emerse il sospetto della inesistenza delle operazioni cui i documenti fiscali si riferivano, con la conseguenza dell’inutilizzabilita’ delle dichiarazioni rese non in sede di procedimento penale dai commercialisti (OMISSIS) e (OMISSIS). Non sarebbe stata poi vagliata la perpetuatio criminis quoad poenam, pur trattandosi di fatti molti dei quali antecedenti il Decreto Legislativo n. 158 del 2015. Diversamente, conclude il PG, il secondo motivo e’ inammissibile perche’ attinge palesemente al fatto, mentre, venendo al quarto in ordine al diniego delle generiche, sufficiente motivazione e’ stata data mediante il richiamo ad una prognosi sfavorevole, sicche’ tale motivo e’ da rigettarsi.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso, trattato in presenza a seguito di richiesta di discussione orale ritualmente formulata dal difensore ai sensi del Decreto Legge n. 137 del 2020, ex articolo 23, comma 8, e’ complessivamente infondato.
2. Il ricorso, anzitutto, per il secondo ed il quarto motivo, si espone al giudizio di inammissibilita’, in quanto generico per aspecificita’, atteso che non si confronta con le argomentazioni svolte nella sentenza impugnata che confutano in maniera puntuale e con considerazioni del tutto immuni dai denunciati vizi motivazionali le identiche doglianze difensive svolte nei motivi di appello (che, vengono, per cosi’ dire “replicate” in questa sede di legittimita’ senza alcun apprezzabile elemento di novita’ critica).
Ed invero, e’ pacifico nella giurisprudenza di questa Corte che e’ inammissibile il ricorso per cassazione fondato su motivi non specifici, ossia generici ed indeterminati, che ripropongono le stesse ragioni gia’ esaminate e ritenute infondate dal giudice del gravame o che risultano carenti della necessaria correlazione tra le argomentazioni riportate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’impugnazione (v., tra le tante: Sez. 4, n. 18826 del 09/02/2012 – dep. 16/05/2012, Pezzo, Rv. 253849).
3. Dalla lettura della sentenza d’appello e di primo grado (che, attesa la natura di doppia conforme, si integrano reciprocamente, formando un unicum motivazionale, avendo esaminato i giudici territoriali le censure proposte dall’appellante con criteri omogenei a quelli del primo giudice ed operando frequenti riferimenti ai passaggi logico giuridici della prima sentenza, concordando nell’analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento della decisione: Sez. 3, n. 44418 del 16/07/2013 – dep. 04/11/2013, Argentieri, Rv. 257595 – 01), emerge infatti la puntuale, argomentata e insindacabile confutazione di tutti i profili di doglianza mossi da parte della Corte d’appello, il tutto con un percorso logico immune dai denunciati vizi.
In estrema sintesi, in particolare, si evidenzia quanto segue in ordine a tutti e quattro i motivi di ricorso, in relazione ai quali si ravvisano anche profili di manifesta infondatezza che saranno indicati in sede di esame di ciascuno di essi.
4. Quanto al primo motivo, i giudici di appello forniscono una spiegazione ineccepibile in diritto e assolutamente immune dai denunciati vizi. In particolare, si legge alle pagg. 4/5 dell’impugnata sentenza, i giudici di appello ritengono correttamente infondata l’eccezione di intervenuta violazione dell’articolo 191 c.p.p., riferita al disposto dell’articolo 220 disp. att. c.p.p..
A tal proposito richiamano una consolidata giurisprudenza di legittimita’ che ribadisce, al riguardo, che in materia di attivita’ ispettive di vigilanza di natura amministrativa, il momento a partire dal quale, nel corso di tale attivita’, sorge l’obbligo di rispettare le garanzie del codice di procedura penale e’ quello nel quale e’ possibile attribuire rilevanza penale al fatto, emergendone tutti gli elementi costitutivi, anche se ancora non possa essere ascritto a persona determinata (viene richiamata, in particolare, Sez. 3, n. 31223 del 04/06/2019 – dep. 16/07/2019, Rv. 276679 – 01).
Orbene, con riferimento al caso in esame, i giudici di appello evidenziano come, all’atto dell’assunzione delle dichiarazioni rese dai commercialisti (OMISSIS) e (OMISSIS) ai verificatori della Guardia di Finanza non erano emersi gli elementi costitutivi dei reati, poi contestati, non essendo certo questi riconducibili ai meri sospetti riferiti dal m.llo (OMISSIS). Altrettanto opportunamente, poi, si aggiunge come il giudizio di colpevolezza del (OMISSIS) in ordine ai contestati illeciti si fondava, in verita’, sull’esito degli accertamenti condotti dagli operanti, che hanno consentito di discoprire la natura fittizia delle operazioni contestate e quella di mere cartiere delle societa’ coinvolte. Le dichiarazioni dei predetti commercialisti, quindi, si pongono quali riscontri all’attivita’ di verifica dei militari della Finanza, che non ha trovato alcuna confutazione da parte del proposto appello. Quanto, poi, alla mancata audizione della commercialista (OMISSIS), indicata in sede di audizione de relato dal m.llo (OMISSIS), la Corte d’appello, poi, ricorda come la difesa non ne avesse mai avanzato richiesta di escussione, ai sensi di quanto previsto dall’articolo 195 c.p.p., comma 1. Ne consegue, dunque, per i giudici territoriali, la piena utilizzabilita’ delle dichiarazioni rese anche su tali circostanze dal teste di riferimento (OMISSIS).
4.1. Si tratta, come anticipato, di motivazione del tutto immune dai denunciati vizi, osservandosi come quanto emerso in sede di verifica non fosse certo idoneo a qualificare in termini di rilevanza penale il “sospetto” degli operanti di trovarsi in presenza di false fatturazioni per operazioni inesistenti, atteso che, come e’ noto, la condotta di frode fiscale Decreto Legislativo n. 74 del 2000, ex articolo 2, costituisce indubbiamente reato a prescindere dal superamento di una soglia di punibilita’; purtuttavia, da un lato, la medesima condotta riveste anche rilevanza meramente tributaria legittimando l’emissione di atti impositivi da parte dell’Amministrazione fiscale (prescindendo, dunque, dalla rilevanza penale del fatto) e, dall’altro, per quanto qui chiarito dalla Corte d’appello, il giudizio di colpevolezza del (OMISSIS) in ordine ai contestati illeciti si e’ fondato, in verita’, sull’esito degli accertamenti condotti dagli operanti, che hanno consentito di discoprire la natura fittizia delle operazioni contestate e quella di mere cartiere delle societa’ coinvolte.
Dunque, e’ stato frutto della successiva attivita’ di indagine volta a riscontrare quanto emergente dall’attivita’ di verifica, di per se’ inidoneo a determinare l’insorgenza di un sospetto sulla sussistenza di indizi di reato. Quanto, poi, alla dedotta violazione dell’articolo 195 c.p.p., comma 4, per aver il militare della Guardia di Finanza reso dichiarazioni dei relato riportando quanto riferito dalle due commercialiste (OMISSIS) e (OMISSIS), la censura non ha pregio, essendo infatti pacifico nella giurisprudenza di questa Corte che non sussiste il divieto di testimonianza indiretta degli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria di cui all’articolo 195 c.p.p., comma 4, con riguardo alle dichiarazioni ricevute dal pubblico ufficiale durante l’inchiesta amministrativa dallo stesso effettuata anteriormente al procedimento penale, difettando in tal caso il necessario presupposto soggettivo della qualifica di agente od ufficiale di polizia giudiziaria (da ultimo: Sez. 3, n. 52853 del 17/07/2018 – dep. 23/11/2018, Rv. 274418 – 01).
Il motivo e’ quindi complessivamente infondato.
5. Quanto al secondo motivo, come correttamente deduce il PG nella sua requisitoria scritta, e’ inammissibile perche’ esplica unicamente censure in fatto, su cui, peraltro, gia’ la Corte d’appello aveva avuto modo di argomentare con motivazione del tutto immune da vizi.
In particolare, i giudici di appello a pag. 7 della sentenza impugnata, replicando all’identica censura (che viene ad essere replicata, senza alcun apprezzabile elemento di novita’ critica in sede di legittimita’), reputano correttamente infondata la censura che deduce l’insufficienza probatoria con riferimento ai reati di frode fiscale di cui ai capi 2.1. e 2.3, sul presupposto di una fatturazione soggettivamente falsa che escluderebbe il dolo specifico di evasione.
Sul punto, i giudici di appello ricordano che il reato di utilizzazione fraudolenta in dichiarazione di fatture per operazioni inesistenti (Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 2) e’ integrato, con riguardo alle imposte dirette, dalla sola inesistenza oggettiva, ovvero quella relativa alla diversita’, totale o parziale, tra costi indicati e costi sostenuti, mentre, con riguardo all’IVA, esso comprende anche la inesistenza soggettiva, ovvero quella relativa alla diversita’ tra soggetto che ha effettuato la prestazione e quello indicato in fattura. La condotta di dichiarazione fraudolenta mediante fatture o documenti per operazioni inesistenti, si aggiunge in sentenza, presenta una “struttura bifasica”, in cui la dichiarazione, quale momento conclusivo, integra un falso contenutistico, mentre la condotta preparatoria, cioe’ la registrazione o detenzione a fini di prova dei documenti che costituiranno il supporto della dichiarazione, si riferisce ai documenti falsi (cioe’ contraffatti o alterati) emessi da altri in favore dell’utilizzatore. La falsita’ puo’ cadere sul contenuto della fattura o del documento contabile rilevante, attestandosi che e’ stata eseguita una operazione in realta’ non eseguita oppure che l’importo dell’operazione e’ superiore a quello reale, ma puo’ cadere anche sulla indicazione dei soggetti tra cui e’ intercorsa l’operazione. A tale riguardo “soggetti diversi da quelli effettivi” sono quei soggetti che, in realta’, non hanno preso parte all’operazione e sono invece indicati nel documento. Si richiama, in sentenza, l’orientamento di giurisprudenza consolidato di questa Corte giurisprudenza univoca della Cassazione (Sez. 3, n. 27392 del 27/04/2012 – dep. 11/07/2012, Rv. 253055; da ultimo, Sez. 3, n. 1998 del 15/11/2019 – dep. 20/01/2020, Moiseev, Rv. 278378 – 01), la quale ribadisce al riguardo che non vi e’ alcun fondamento razionale nell’affermare che l’ipotesi non ricorre quando i soggetti che appaiono emittenti del documento siano addirittura inesistenti (trattandosi, ad esempio, di nomi di fantasia) o siano soggetti che nessun rapporto abbiano mai avuto con il contribuente che utilizza il documento medesimo. Anche in tal modo, infatti, il contribuente fa apparire di avere speso somme in realta’ non sborsate e pone cosi’ in essere una lesione del bene giuridico protetto, costituito dal patrimonio erariale, con la conseguenza, dunque, che nel reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti (Decreto Legislativo 10 marzo 2000, n. 74, articolo 2) la falsita’ puo’ essere riferita anche all’indicazione dei soggetti con cui e’ intercorsa l’operazione, intendendosi per “soggetti diversi da quelli effettivi”, ai sensi dell’articolo 1, lettera a), del citato D.Lgs., coloro che, pur avendo apparentemente emesso il documento, non hanno effettuato la prestazione, sono irreali, come nel caso di nomi di fantasia, o non hanno avuto alcun rapporto con il contribuente finale. Ebbene, nel caso di specie, proseguono i giudici territoriali a pag. 8 dell’impugnata sentenza, con riferimento a tutte le fatture contestate nei capi di imputazione 2.1 e 2.3 (prodotte in atti dal PM all’udienza del 30.11.2018), le operazioni sottostanti i citati documenti non si sono mai realizzate, sicche’ e’ legittimo ricondurre il fatto all’ipotesi di utilizzo di fatture per operazioni oggettivamente inesistenti. I riscontri a tale assunto accusatorio – sottolinea la Corte d’appello – sono, peraltro, molteplici e univoci, a partire dai dati formali (genericita’ delle causali e modelli standard utilizzati per le fatture, irregolarita’ nella numerazione delle fatture) a quelli contenutistici (natura di cartiere delle societa’ emittenti, ove il (OMISSIS) aveva specifiche cointeressenze, pagamenti degli importi retrocessi come documentato dagli accertamenti bancari, come dichiarato dal teste (OMISSIS) all’ud. 17.05.2019, ed ancora, in alcuni casi, la mancata registrazione delle fatture attive nei registri delle societa’ emittenti).
Siffatto adeguato quadro probatorio cosi’ emerso dalle risultanze dibattimentali, infine, sottolinea la Corte territoriale, e’ rimasto privo di alcuna smentita da parte del (OMISSIS), che richiama l’ipotesi di operazioni soggettivamente inesistenti pur in mancanza di alcun elemento suscettibile di oggettivo riscontro a sostegno. La doglianza, pertanto, e’ stata ritenuta inidonea a confutare la declaratoria di responsabilita’ del (OMISSIS) anche con riferimento alle contestate frodi fiscali.
5.1. Orbene, al cospetto di tale apparato argomentativo, le doglianze del ricorrente si appalesano manifestamente infondate, in quanto si risolvono nel “dissenso” sulla ricostruzione dei fatti e sulla valutazione delle emergenze processuali svolta dai giudici di appello, operazione vietata in sede di legittimita’, attingendo la sentenza impugnata e tacciandola per presunti vizi motivazionali con cui, in realta’, si propone una doglianza non suscettibile di sindacato da parte di questa Corte. Deve, sul punto, ribadirsi infatti che il controllo di legittimita’ operato dalla Corte di cassazione non deve stabilire se la decisione di merito proponga effettivamente la migliore possibile ricostruzione dei fatti, ne’ deve condividerne la giustificazione, ma deve limitarsi a verificare se tale giustificazione sia compatibile con il senso comune e con i limiti di una plausibile opinabilita’ di apprezzamento (v., tra le tante: Sez. 5, n. 1004 del 30/11/1999 – dep. 31/01/2000, Moro, Rv. 215745).
Verifica, nel caso di specie, agevolmente superata dalla sentenza impugnata.
6. Quanto al terzo motivo, parimenti priva di pregio e’ la doglianza difensiva, in quanto gia’ adeguatamente confutata dalla Corte d’appello.
Ed infatti, si legge a pag. 8 della sentenza impugnata, come fosse da ritenersi infondata, con riferimento al trattamento sanzionatorio, la censura di illegittimita’ della pena avanzata dalla difesa. Invero, precisa la Corte d’appello, il primo giudice ha correttamente calcolato gli aumenti di pena per ciascuno dei reati satelliti, considerando il reato unitario per ciascun anno di imposta e per ciascuna delle imposte evase (Ires e Iva), nei termini che seguono: Pb. capo 2.2 anno 2011 Ires anni 2 reclusione, mesi 3 di continuazione per 12 reati satelliti pari ad anni 3 di continuazione, che e’ conforme all’aumento fino al triplo della pena base, per i seguenti capi: Capo 2.1: 2 dichiarazioni Ires e Iva anno 2010: 2 reati, Capo 2.2 2 dichiarazioni Ires e Iva per 2 anni 2010 e 2011: 4 reati; Capo 2.3, 2 dichiarazioni Ires e Iva per 3 anni 2011, 2012 e 2013: 6 reati; Capo 2.4: 2 dichiarazioni Ires e Iva anno 2014: 1 reato articolo 5, per un totale complessivo di 13 violazioni autonomamente sanzionabili.
7. Non rileva, poi, la doglianza difensiva fondata sulla presunta applicabilita’ “retroattiva” delle modifiche intervenute con il Decreto Legislativo n. 158 del 2015, che ha esteso l’ambito applicativo oggettivo della fattispecie di cui al Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 2, eliminando l’aggettivo “annuali” riferito alle dichiarazioni.
La modifica normativa, come e’ noto, ha avuto la funzione di ampliare l’ambito applicativo della fattispecie penale, consentendo di ritenere punibile l’utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti anche in dichiarazioni “non annuali”, quali, ad esempio, le dichiarazioni dei redditi infra-annuali conseguenti alla messa in liquidazione di una societa’, le dichiarazioni nell’ipotesi di trasformazione, fusione e scissione societaria, le dichiarazioni di operazioni intracomunitarie relative agli acquisti o le dichiarazioni mensili di acquisti di beni e servizi compiuti da enti o altre associazioni non soggetti passivi di imposta.
Non ha, quindi, inciso, invece, sulle condotte che, gia’ prima della novella del 2015, prevedevano l’autonoma punibilita’ della condotta di utilizzo di fatture per operazioni inesistenti in conseguenza della presentazione, in relazione al medesimo anno di imposta, della relativa dichiarazione fiscale (come avvenuto nel caso di specie), rispetto alla quale non vi e’ dubbio in ordine all’applicabilita’ dell’istituto della continuazione.
Ed invero, deve infatti ritenersi infondato qualsiasi dubbio sulla natura di detti reati, in particolare se trattasi di un unico delitto, ovvero, se, considerata la formulazione normativa, possano considerarsi coesistenti nella medesima disciplina due distinti reati connessi ai distinti obblighi dichiarativi ai fini delle imposte sui redditi e dell’Iva, potendo nella seconda eventualita’ contestarsi anche l’articolo 81 c.p., per la continuazione, con conseguente aumento della pena, come avvenuto nel caso di specie.
8. Orbene, sul punto il Collegio e’ dell’avviso che e’ possibile ritenere che in consimili ipotesi sia applicabile l’istituto della continuazione. Indiretta conferma di tale assunto si rinviene in quella giurisprudenza che ha affermato che, ai fini della configurabilita’ del reato di omessa dichiarazione, Decreto Legislativo n. 74 del 2000, ex articolo 5, come modificato dal Decreto Legislativo n. 158 del 2015, e’ necessario e sufficiente che l’imposta evasa, con riferimento a ciascuna delle distinte imposte considerate, sia superiore a 50.000 Euro, non potendosi sommare, ai fini della determinazione dell’imposta evasa, le imposte sui redditi e quelle sull’Iva (Sez. 7, Ordinanza n. 40577 del 15/07/2016 – dep. 29/09/2016, Rv. 268478 – 01).
9. Quanto, infine, al quarto ed ultimo motivo, non vi e’ dubbio che anche questo si esponga al giudizio di inammissibilita’, avendo la Corte d’appello adeguatamente confutato quanto gia’ dedotto in sede di motivi di appello.
I giudici territoriali, in particolare, hanno evidenziato come la concessione delle invocate attenuanti generiche dovesse essere esclusa sulla base del giudizio prognostico negativo effettuato ex articolo 164 c.p., comma 1, dal primo giudice, condiviso dalla Corte d’appello. Si valorizza, inoltre, in sentenza, quale ulteriore causa giustificativa del diniego e della correlata congruita’ del trattamento sanzionatorio, la totale mancanza di resipiscenza e revisione critica in relazione alla condotta ascritta, l’assenza di qualsiasi iniziativa rivolta alla riduzione della posizione debitoria e soddisfacimento – neppure parziale – delle pretese creditorie dell’Erario, nonche’ la riconducibilita’ del meccanismo fraudolento discoperto, protratto per svariati anni, alla precisa e sconsiderata scelta imprenditoriale ordita dall’imputato. Da qui, dunque, la conclusione della Corte territoriale secondo cui equo, congruo e conforme a legge fosse il trattamento sanzionatorio, nel quantum di pena deliberato dal giudice di prime cure.
9.1. Si tratta, anche per tali profili, di motivazione ineccepibile e immune dai denunciati vizi, atteso che, quanto al diniego delle attenuanti generiche, la Corte d’appello ha puntualmente indicato gli elementi ritenuti prevalenti al fine di ritenere immeritevole il ricorrente del loro riconoscimento (cosi’ conformandosi a quella giurisprudenza che piu’ volte ha affermato come la sussistenza di circostanze attenuanti rilevanti ai fini dell’articolo 62-bis c.p. e’ oggetto di un giudizio di fatto e puo’ essere esclusa dal giudice con motivazione fondata sulle sole ragioni preponderanti della propria decisione, non sindacabile in sede di legittimita’, purche’ non contraddittoria e congruamente motivata, neppure quando difetti di uno specifico apprezzamento per ciascuno dei pretesi fattori attenuanti indicati nell’interesse dell’imputato: Sez. 6, n. 42688 del 24/09/2008 – dep. 14/11/2008, Caridi, Rv. 242419 – 01) e, quanto al trattamento sanzionatorio, lo ha ritenuto congruo sostanzialmente valorizzando la gravita’ dei fatti e la personalita’ del reo, come dettagliatamente descritta supra, fornendo quindi una motivazione del tutto idonea ad assolvere l’onere imposto dalla legge.
L’irrogazione di una pena base pari o superiore al medio edittale richiede una specifica motivazione in ordine ai criteri soggettivi ed oggettivi elencati dall’articolo 133 c.p., valutati ed apprezzati tenendo conto della funzione rieducativa, retributiva e preventiva della pena (Sez. 3, n. 10095 del 10/01/2013 – dep. 04/03/2013, Monterosso, Rv. 255153 – 01).
E cio’ e’ quanto e’ avvenuto nel caso in esame, in cui i giudici di appello hanno giustificato il loro giudizio di congruita’, equita’ e conformita’ a legge della pena irrogata, richiamando specificamente tutti gli elementi che, ai sensi dell’articolo 133 c.p., descrivevano compiutamente in chiave negativa sia la gravita’ del fatto reato che la personalita’ del reo (totale mancanza di resipiscenza e revisione critica in relazione alla condotta ascritta; assenza di qualsiasi iniziativa rivolta alla riduzione della posizione debitoria e soddisfacimento – neppure parziale – delle pretese creditorie dell’Erario; riconducibilita’ del meccanismo fraudolento discoperto, protratto per svariati anni, alla precisa e sconsiderata scelta imprenditoriale ordita dall’imputato).
10. Al rigetto del ricorso, consegue a norma dell’articolo 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

 

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