In sede di azione di responsabilità sociale, la mancata o irregolare tenuta delle scritture contabili

Corte di Cassazione, sezione terza civile, Ordinanza 11 ottobre 2018, n. 25160.

La massima estrapolata:

In sede di azione di responsabilità sociale, la mancata o irregolare tenuta delle scritture contabili, pur se addebitabile all’amministratore convenuto, non giustifica che il danno risarcibile sia determinato e liquidato nella misura corrispondente alla differenza tra il passivo accertato e l’attivo liquidato in sede fallimentare, potendo tale criterio essere utilizzato solo quale parametro per una liquidazione equitativa ove ne sussistano le condizioni, sempreché il ricorso ad esso sia, in ragione delle circostanze del caso concreto, logicamente plausibile e, comunque, l’attore abbia allegato un inadempimento dell’amministratore almeno astrattamente idoneo a porsi come causa del danno lamentato, indicando le ragioni che gli hanno impedito l’accertamento degli specifici effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta dell’amministratore medesimo

Ordinanza 11 ottobre 2018, n. 25160

Data udienza 20 giugno 2018

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ARMANO Uliana – Presidente

Dott. CIGNA Mario – Consigliere

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere

Dott. FIECCONI Francesca – rel. Consigliere

Dott. IANNELLO Emilio – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA
sul ricorso 29053-2016 proposto da:
(OMISSIS) SRL IN LIQUIDAZIONE, in persona del legale rappresentante pro tempore e quale liquidatore Dott. (OMISSIS), elettivamente domiciliata in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati (OMISSIS), (OMISSIS) giusta procura speciale a margine del ricorso;
– ricorrente –
contro
(OMISSIS), in proprio e quale titolare della Ditta (OMISSIS), elettivamente domiciliata in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati (OMISSIS) giusta procura speciale a margine del controricorso;
– controricorrente –
e contro
(OMISSIS) DITTA INDIVIDUALE, (OMISSIS) SAS (OMISSIS), FALLIMENTO (OMISSIS) SRL IN LIQUIDAZIONE;
– intimati –
avverso la sentenza n. 2322/2016 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 09/06/2016;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 20/06/2018 dal Consigliere Dott. FRANCESCA FIECCONI.

RILEVATO IN FATTO

1. Con sentenza n. 3455/2014, depositata in data 16/12/2014, il Tribunale di Monza, dopo avere rigettato le prove per testi, ritenendo la causa documentale, si pronunciava sulla causa promossa da (OMISSIS) s.r.l. in liquidazione contro (OMISSIS), (OMISSIS) s.a.s. (OMISSIS). ed (OMISSIS) s.r.l., e accoglieva parzialmente la domanda attorea, dichiarando la simulazione assoluta della cessione dei beni oggetto di causa (macchinari industriali) intervenuta tra (OMISSIS) ed (OMISSIS). Il Tribunale accertava che tra le parti (OMISSIS) e (OMISSIS) il 20/4/2007, era intervenuta una cessione di ramo d’azienda, comprensiva del suddetti beni, per effetto dell’esercizio di un diritto di opzione contenuto nel contratto di affitto di ramo di azienda vigente tra le parti dal 1/10/2001 al 30/9/2007, poi cessato con rilascio del capannone alla locatrice (OMISSIS). Pertanto il giudice adito dichiarava la simulazione assoluta della vendita dei suddetti beni, rimasti nel capannone, da parte della convenuta (OMISSIS) s.a.s. a (OMISSIS), accertando il diritto dell’attrice a ritenere i beni oggetto di causa; tuttavia, il Tribunale respingeva la domanda di risarcimento del danno spiegata dall’attrice che non aveva ricevuto in consegna i beni per tutti gli anni di durata delle controversie e dichiarava integralmente compensate tra le parti le spese di lite.
2. Avverso tale sentenza la (OMISSIS) s.r.l. in liquidazione proponeva impugnazione innanzi alla Corte d’Appello di Milano, con atto in data 16/2/2015, chiedendone la riforma parziale in relazione ai capi che respingevano la domanda di risarcimento dei danni e che compensavano le spese del giudizio. Con sentenza n. 2322/2016, pubblicata in data 9/6/2016, la Corte d’Appello di Milano rigettava l’impugnazione e confermava integralmente la sentenza di primo grado, condannando l’appellante al pagamento delle spese del grado di giudizio. La Corte, in particolare, affermava che l’appellante non aveva “fornito elementi ulteriori e decisivi ai fini della prova dell’esistenza del danno e della sua derivazione dalla mancata consegna dei macchinari”.
3. La (OMISSIS) s.r.l. in liquidazione, con atto notificato in data 7/12/2016, propone ricorso innanzi a questa Corte avverso la sentenza n. 2322/2016, pubblicata in data 9/6/2016, affidandolo a due motivi. (OMISSIS), in proprio e quale titolare della (OMISSIS) s.a.s., resiste con controricorso, notificato in data 19/1/2017. Parte ricorrente produce memoria.

RITENUTO IN DIRITTO

1. Con il primo motivo il ricorrente deduce, ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., n. 5, l’omesso esame di fatti decisivi per il giudizio che sono stati oggetto di discussione tra le parti, nonche’, ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., n. 3 e n. 4, la nullita’ della sentenza per violazione dell’articolo 132 c.p.c.. In particolare, il ricorrente contesta l’affermazione dei giudici di merito relativa all’assenza di prova circa il danno subito, essendo stato omesso l’esame della documentazione prodotta attestante l’inadempimento, senza alcuna considerazione in ordine all’intera vicenda contrattuale da cui avrebbe dovuto desumersi, non solo il comportamento di grave inadempimento della controparte al contratto di cessione di beni aziendali, ma anche la sua volonta’ di sottrarsi alla procedura esecutiva intrapresa dalla societa’ ricorrente dopo che era intervenuto un lodo che aveva attestato il corretto esercizio del diritto d’opzione (per l’acquisto di ramo d’azienda con relativi beni), tutti comportamenti da cui avrebbe dovuto inferirsi la lesivita’ della condotta gravemente inadempiente e in mala fede tenuta dalla controparte.
1.1. Le due censure sono inammissibili.
1.2. La prima censura attiene ad un vizio della motivazione, qualificata come “apparente”, che sarebbe sussumibile nel n. 5 della vecchia formulazione dell’articolo 360 c.p.c.. Stante l’avvenuta modifica della norma e la deduzione, da parte del ricorrente, di soli elementi fattuali finalizzati ad una nuova valutazione dei fatti di causa e ad un terzo grado di giudizio, la censura e’ inammissibile. “In seguito alla riformulazione dell’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal Decreto Legge n. 83 del 2012, articolo 54, conv., con modif., dalla L. n. 134 del 2012, non sono piu’ ammissibili nel ricorso per cassazione le censure di contraddittorieta’ e insufficienza della motivazione della sentenza di merito impugnata, in quanto il sindacato di legittimita’ sulla motivazione resta circoscritto alla sola verifica della violazione del “minimo costituzionale” richiesto dall’articolo 111 Cost., comma 6, individuabile nelle ipotesi – che si convertono in violazione dell’articolo 132 c.p.c., comma 2, n. 4, e danno luogo a nullita’ della sentenza – di “mancanza della motivazione quale requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale”, di “motivazione apparente”, di “manifesta ed irriducibile contraddittorieta’” e di “motivazione perplessa od incomprensibile”, al di fuori delle quali il vizio di motivazione puo’ essere dedotto solo per omesso esame di un “fatto storico”, che abbia formato oggetto di discussione e che appaia “decisivo” ai fini di una diversa soluzione della controversia” (Cass. Sez. 3, n. 23940/2017; SSUU n. 8053/2014).
1.3. Con riguardo alla seconda censura, attinente al profilo di omessa motivazione in ordine all’inadempimento da risarcire, in violazione dell’articolo 132 c.p.c., anche in questo caso si rileva un motivo di inammissibilita’. La motivazione resa dalla Corte territoriale non e’ incentrata tanto sulla sussistenza dei fatti costitutivi dell’inadempimento, che ha ritenuto sussistente, ma sulla mancata prova del danno che ne e’ conseguito, posto si assume che il ricorrente (allora attore appellante) aveva chiesto di valutare il danno in termini di “riferibilita’ della diminuzione del volume d’affari alla mancata disponibilita’ dei beni de quo” deducendo anche che “appare altresi’ evidente che la diminuzione quantitativamente poco rilevante degli utili, oltre che l’autonomia dei risultati di esercizio successivi alla presunta diminuzione dei ricavi, dimostra l’assoluta infondatezza dell’appello”. In tal modo la Corte ha inteso sottolineare che non e’ stato provato che il calo di fatturato (espresso in termini di “volume di affari”) registrato negli esercizi sociali successivi al trasferimento dell’azienda, fosse strettamente collegato al danno da mancata consegna dei macchinari oggetto di cessione, data la presunta autonomia dei risultati di gestione da tale evento dannoso e la diminuzione poco significativa degli utili che dimostravano, invece, che il risultato negativo di gestione fosse riconducibile a diversi fattori.
1.4. Osserva la Corte che la censura di mancata considerazione del calo di fatturato allegato non coglie gli esatti termini della ratio decidendi resa e, comunque, non sposta i termini della questione decisa, inerente al tema della mancata allegazione della prova del nesso causale tra fatto di inadempimento contrattuale, dalla Corte di merito affermato come sussistente, e mancato guadagno dell’impresa, ritenuto non sufficientemente provato. La parte ricorrente, infatti, si limita a sostenere un vizio nel ragionamento presuntivo (p. 37 del ricorso), assumendo che dal fatto noto (il prolungato inadempimento dell’obbligo di consegna dei macchinari e il calo di rendimento accumulato negli anni successivi alla cessione del ramo di azienda) si sarebbe dovuto dedurre il fatto ignoto, ovvero la sussistenza di un danno equivalente al mancato guadagno dell’impresa gestita dalla societa’, pari a circa quattro milioni di Euro: il che, oltre ad essere un ragionamento errato in ordine alla distribuzione dell’onere della prova del danno – conseguenza, gravante sempre sull’attore (come si vedra’ al punto 2 di seguito), si rivela come un argomento che non e’ in grado di inficiare la ratio decidendi di rigetto della domanda, che poggia sulla considerazione che il risarcimento non e’ stato chiesto in termini di danno emergente, bensi’ di lucro cessante, per mancato utilizzo dei beni che, tuttavia, avrebbe richiesto l’offerta di migliori argomenti di prova, anche solo indiziari, in ordine alla stretta correlazione tra il calo di produttivita’ registrato (riferito a tutta l’impresa e non solo al ramo d’azienda acquisito dalla societa’ ricorrente) e la mancata disponibilita’ dei beni, allorche’ l’impresa si era trasferita in altra sede.
2. Con il secondo motivo, ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., n. 3, il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione dell’articolo 1218 c.c., articolo 1372 c.c., nonche’ degli articoli 1175 e 1375 c.c., laddove la Corte d’Appello non ha correttamente applicato al caso di specie i criteri normativi in materia di nesso causale nel valutare il grave comportamento di inadempimento contrattuale e di sottrazione agli obblighi derivanti da un lodo arbitrale reso esecutivo, mediante la cessione degli stessi beni ad altra societa’ riferita all’obbligato. Il ricorrente sostiene che non sia stato erroneamente considerato che il persistente inadempimento dell’obbligo di consegna dei beni aziendali, in assoluto spregio degli obblighi di lealta’ e correttezza cui deve informarsi ogni rapporto contrattuale, ha determinato, come conseguenza diretta ed immediata, il calo di fatturato registrato nei successivi esercizi sociali.
2.1. Il motivo e’ inammissibile, prima che infondato.
2.2. La censura, per come e’ formulata, attiene al piano della valutazione di una responsabilita’ per inadempimento contrattuale che non puo’ affermarsi ove il danno patrimoniale non sia stato provato nel suo ammontare e non e’ quindi conferente con il tenore della decisione assunta, che ha respinto la domanda per mancanza di prova del danno da inadempimento contrattuale, tendendo invece a indurre questa Corte a ripercorrere considerazioni di merito sulla grave situazione di inadempienza constatata, invece, dalla Corte d’Appello che, richiamando la valutazione del Giudice di primo grado, ha ritenuto non raggiunta la prova del relativo danno prospettato solo in termini di lucro cessante.
2.3. In materia contrattuale i danni da risarcire devono essere conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento riscontrato, ai sensi dell’articolo 1223 c.c.. Nel considerare il risarcimento del danno, il rapporto tra comportamento ed evento e tra questo e il danno muta a seconda che il danno sia un elemento della fattispecie o un suo effetto, e devono conseguentemente distinguersi il nesso che deve sussistere tra comportamento ed evento, affinche’ possa configurarsi a monte una responsabilita’, in termini di causalita’ materiale, e il nesso che, collegando l’evento al danno, consente l’imputazione delle singole conseguenze dannose, in termini di causalita’ giuridica, e ha la funzione di delimitare a valle i confini della responsabilita’. Pertanto la limitazione del rapporto causale tra inadempimento e danno alle sole conseguenze immediate e dirette e’ fondata sulla necessita’ di contenere l’estensione temporale e spaziale degli effetti e degli eventi illeciti ed e’ orientata a escludere, dalla connessione giuridicamente rilevante, ogni conseguenza dell’inadempimento che non sia propriamente diretta ed immediata (vedi Cassazione Sez. Lav., sentenza n. 9374/2006).
2.4. Tale principio e’ ancor meglio espresso in Cass. Sez. 3, Sentenza n. 21619 del 16/10/2007 (Rv. 599816 – 01), ove si chiarisce che nel cosiddetto sottosistema civilistico, il nesso di causalita’ (materiale) – la cui valutazione in sede civile e’ diversa da quella penale (ove vale il criterio dell’elevato grado di credibilita’ razionale che e’ prossimo alla “certezza”) – consiste anche nella relazione probabilistica concreta tra comportamento ed evento dannoso, secondo il criterio (ispirato alla regola della normalita’ causale) del “piu’ probabile che non”; esso si distingue dall’indagine diretta all’individuazione delle singole conseguenze dannose (finalizzata a delimitare, a valle, i confini della gia’ accertata responsabilita’ risarcitoria) e prescinde da ogni valutazione di prevedibilita’ o previsione da parte dell’autore, la quale va compiuta soltanto in una fase successiva ai fini dell’accertamento dell’elemento soggettivo (colpevolezza) (v. anche Sez. 3, Sentenza n. 11189 del 15/05/2007).
2.5. Passando alla materia che ci occupa, ove il ricorrente deduce il mancato accoglimento di una pretesa risarcitoria da inadempimento contrattuale espressa solo in termini di lucro cessante, correlato alla mancata disponibilita’, per un notevole lasso di tempo che ha coinvolto piu’ esercizi sociali, di un complesso di beni aziendali utilizzati al tempo in cui era conduttore del ramo di azienda, giova sottolineare che il danno patrimoniale da mancato guadagno (lucro cessante), concretandosi nell’accrescimento patrimoniale effettivamente pregiudicato o impedito dall’inadempimento dell’obbligazione contrattuale, presuppone la prova, sia pure indiziaria, dell’utilita’ patrimoniale che il creditore avrebbe conseguito se l’obbligazione fosse stata adempiuta, con la sola esclusione dei mancati guadagni meramente ipotetici perche’ dipendenti da condizioni incerte (v. Cass. Sez. 3, Sentenza n. 24632 del 03/12/2015 – Rv. 637952 – 01-).
2.6. Sicche’, dovendo trasporsi i suddetti principi alla fattispecie in esame, la prova della effettiva consistenza del danno da risarcire richiede un giudizio di adeguatezza della causa a generare il danno lamentato che, se riferita all’inadempimento dell’obbligazione contrattuale di consegna di beni, deve direttamente collegarsi alla perdita della loro specifica utilita’. Lo stesso criterio si riscontra in materia societaria, ove si e’ sancito che il criterio di valutazione del danno sociale, deve riporsi su dati oggettivi direttamente collegati all’inadempimento, se nella disponibilita’ della parte deducente, potendo solo in via residuale valere il ricorso a dati presuntivi o equitativi riferiti ai risultati negativi di gestione. In tal senso si richiama Sez. U, Sentenza n. 9100 del 06/05/2015 (Rv. 635451 – 01) in cui e’ chiaramente espresso che nell’azione di responsabilita’ sociale “la mancata (o irregolare) tenuta delle scritture contabili, pur se addebitabile all’amministratore della societa’, non giustifica che il danno risarcibile sia determinato e liquidato nella misura corrispondente alla differenza tra il passivo accertato e l’attivo liquidato in sede fallimentare, potendo tale criterio essere utilizzato solo quale parametro per una liquidazione equitativa ove ne sussistano le condizioni, sempreche’ il ricorso ad esso sia, in ragione delle circostanze del caso concreto, logicamente plausibile e, comunque, l’attore abbia allegato un inadempimento dell’amministratore almeno astrattamente idoneo a porsi come causa del danno lamentato, indicando le ragioni che gli hanno impedito l’accertamento degli specifici effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta dell’amministratore medesimo.” (v. anche Cass. Sez. 1 -, Sentenza n. 2500 del 01/02/2018 (Rv. 647230 – 01)).
2.7. Pertanto, ragionando alla luce dei suddetti principi di diritto, riferibili alla fattispecie in esame, deve affermarsi l’ulteriore principio in base al quale “nel caso in cui il danno da perdita di un complesso di beni aziendali sia fatto coincidere con il calo di fatturato aziendale di una societa’, la astratta riferibilita’ di tale risultato negativo di gestione societaria all’evento occorso non esonera l’attore dall’onere di dimostrare il nesso sussistente tra l’indisponibilita’ dei beni, funzionali all’esercizio dell’impresa, e la perdita economica registrata per piu’ esercizi sociali, non potendo la prova, anche solo induttiva e per presunzioni, riferirsi al solo dato, di origine incerta, della complessiva diminuzione di ricavi sociali, normalmente riconducibile a diversi fattori economici e strutturali afferenti alla gestione della societa’ che conduce l’impresa. La parte che deduce un danno sociale per mancato utilizzo di beni aziendali e’ pertanto onerata di provare la sussistenza di un nesso causale diretto e immediato, in termini di causalita’ adeguata, tra il risultato negativo di gestione sociale registrato e la mancata disponibilita’ di beni strumentali per l’esercizio dell’impresa”.
2.8. Poiche’ il tenore della decisione assunta si dimostra in linea con i principi di diritto sopra richiamati sul tema della prova del danno patrimoniale da inadempimento contrattuale nell’ambito dell’esercizio di una attivita’ commerciale e imprenditoriale, la censura risulta inammissibile nella misura in cui essa non si rapporta alla ratio sottesa nella decisione impugnata e, in ogni caso, induce il giudice di legittimita’ a svolgere riconsiderazioni “in fatto”effettuate dai Giudici di merito alla luce di corretti principi di diritto, con violazione del disposto di cui all’articolo 366 c.p.c., n. 4.
3. Conclusivamente, il ricorso e’ inammissibile, con ogni conseguenza in ordine alle spese, da porsi a carico del ricorrente soccombente come di seguito liquidate.

P.Q.M.

1. Dichiara l’inammissibilita’ del ricorso;
2. Condanna il ricorrente alle spese, liquidate in Euro 9.000,00, oltre 200,00 per esborsi, spese forfetarie al 15% e oneri di legge.
3. Ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2002, articolo 13, comma 1, da’ atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1- bis, dello stesso articolo 13.