In presenza di illegittimo ricorso alla Cigo e alla Cigs

Corte di Cassazione, sezione lavoro civile, Ordinanza 28 settembre 2020, n. 20466.

La massima estrapolata:

In presenza di illegittimo ricorso alla Cigo e alla Cigs, il demansionamento imposto dal datore di lavoro nei periodi di rotazione alternati alla sospensione in cassa integrazione non può essere idoneamente risarcito con il mero versamento della differenza tra il trattamento di integrazione salariale e la retribuzione piena dovuta al lavoratore. La forzata inattività subita dal lavoratore nei periodi in cui, tra una fase di cassa e quella successiva, è stato richiamato in servizio viola contemporaneamente due autonomi precetti normativi: (i) quello alla rotazione dei lavoratori nell’utilizzo della cassa integrazione e (ii) quello per cui i dipendenti devono poter svolgere le mansioni oggetto del contratto di lavoro. Non è, dunque, corretto ritenere che, a fronte della illegittima collocazione in cassa integrazione, così come dell’illegittimo ricorso ai meccanismi di rotazione, il dipendente dimensionato sia adeguatamente indennizzato dei pregiudizi sofferti con il risarcimento della sola differenza tra stipendio pieno e minor importo percepito quale indennità di cassa integrazione.

Ordinanza 28 settembre 2020, n. 20466

Data udienza 17 dicembre 2019

Tag/parola chiave: Lavoro – Erronea collocazione in Cig – Mancata assegnazione di mansioni – Risarcimento autonomo – Danno consistente nel pregiudizio della propria posizione giuridica in azienda – Integrazione

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BERRINO Umberto – Presidente

Dott. RAIMONDI Guido – Consigliere

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere

Dott. LORITO Matilde – rel. Consigliere

Dott. LEO Giuseppina – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA
sul ricorso 23737-2015 proposto da:
(OMISSIS), elettivamente domiciliata in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato (OMISSIS);
– ricorrente –
contro
(OMISSIS) S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), rappresentata e difesa dall’avvocato (OMISSIS);
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 254/2015 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 27/03/2015, R.G.N. 3049/2012.

RILEVATO

CHE:
Il Tribunale di Milano accoglieva in parte le domande proposte da (OMISSIS) nei confronti di (OMISSIS) s.p.a. e dichiarava l’illegittimita’ della collocazione in CIG per i periodi analiticamente indicati in ricorso (CIGO febbraio 2009-luglio 2010; CIG in deroga, dal luglio 2010 all’aprile 2011 e CIGS dal maggio 2011), condannando la societa’ al pagamento delle somme corrispondenti alla differenza fra quanto spettante a titolo di retribuzioni per i periodi di sospensione in CIGO, CIGS e CIG in deroga, e quanto percepito nei medesimi periodi a titolo di indennita’ di cassa integrazione. Il Tribunale accertava altresi’ il demansionamento patito dalla lavoratrice nei periodi di lavoro prestato successivamente al 2/2/2009 allorche’ non si trovava collocata in CIGO, CIGS e CIG in deroga, condannando la societa’ al risarcimento del danno alla professionalita’ quantificato nella misura del 100%.
Detta pronuncia veniva parzialmente riformata dalla Corte distrettuale che, con sentenza resa pubblica il 27/3/2015, rigettava la domanda proposta dalla lavoratrice a titolo di risarcimento danni da demansionamento, e la condannava alla restituzione di quanto percepito in seguito alla esecuzione della sentenza di primo grado.
La cassazione di tale decisione e’ domandata da (OMISSIS) sulla base di unico motivo, illustrato da memoria ex articolo 380 bis c.p.c., al quale oppone difese la societa’ intimata.

CONSIDERATO

CHE:
1. Con unico motivo la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, articolo 13 e dell’articolo 2103 c.c..
Si duole che la Corte territoriale, con argomentare peraltro contraddittorio, abbia da un canto accertato che nei periodi di rotazione, la ricorrente non aveva ricevuto l’assegnazione di alcuna mansione poiche’ le attivita’ da essa in precedenza svolte, erano state gia’ redistribuite fra i colleghi, ponendo tale accertamento a fondamento della pronuncia di illegittimita’ della collocazione in CIGS; dall’altro, non abbia considerato il medesimo fatto, quale prova della dequalificazione professionale risentita.
Stigmatizza l’impugnata sentenza per aver denegato tutela al diritto azionato, argomentando – in assenza di alcuna coerenza logico-formale sulla esiguita’ dei periodi di inattivita’ e sulla circostanza che la riconosciuta indennita’ per violazione delle norme in tema di rotazione CIGS, avrebbe dovuto assorbire l’eventuale indennizzo relativo alla dequalificazione professionale intervenuta.
Osserva per contro la ricorrente che la totale accertata privazione di mansioni ha concretizzato la violazione di due precetti normativi: il primo riguardante l’inosservanza della normativa contrattuale collettiva, relativa ai criteri di rotazione in CIGO, CIGS e CIG in deroga; il secondo, la violazione dell’articolo 2103 c.c. e della L. n. 300 del 1970, articolo 13.
Rimarca al riguardo, che mentre il danno da illegittima sospensione in CIGS corrisponde alle precise differenze retributive fra l’indennizzo percepito dal lavoratore sospeso e quanto avrebbe percepito se avesse prestato la propria attivita’ lavorativa, quello derivante da demansionamento puo’ essere valutato anche in via presuntiva ed equitativa.
Argomenta, quindi, che la totale e prolungata privazione delle mansioni aveva sostanziato un comportamento oggettivamente grave della parte datoriale, idoneo a frustrare la specifica professionalita’ di essa ricorrente, legata all’azienda da un rapporto ultratrentennale e deprivata in favore di colleghi non soggetti ad alcun tipo di mobilita’, “subendo l’estirpazione delle sue specifiche attivita’ che maggiormente la rendevano visibile in ambito aziendale”.
2. Il motivo e’ fondato e va accolto per le ragioni di seguito esposte.
Occorre in via di premessa, richiamare taluni generali concetti in relazione al tema qui delibato, che rimandano a quella che e’ stata denominata in dottrina la tutela differenziata dei crediti in ragione del loro rilievo socioeconomico.
Detta tutela si rinviene – oltre che in un corpus di disposizioni processuali (le ordinanze anticipatorie di cui all’articolo 423 c.p.c., l’esecutorieta’ della sentenza di primo grado ex articolo 431 c.p.c., la rivalutazione dei crediti di lavoro ex articolo 429 c.p.c., u.c.), in numerose disposizioni di diritto sostanziale, nel cui ambito vanno incluse, tra le espressioni piu’ significative, le norme dettate a garanzia della “persona” del lavoratore dalla L. 20 maggio 1970, n. 300, ed il disposto dell’articolo 2087 c.c. secondo cui “l’imprenditore e’ tenuto ad adottare nell’esercizio della impresa le misura che, secondo la particolarita’ del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrita’ fisica e la personalita’ morale dei prestatori di lavoro”.
In altri termini nella disciplina del rapporto di lavoro si riscontra un reticolato di disposizioni specifiche volte ad assicurare una ampia e speciale tutela alla “persona” del lavoratore con il riconoscimento espresso dei diritti a copertura costituzionale (articoli 32 e 37 Cost.).
In siffatto contesto si e’ quindi, fondatamente ritenuto che la modifica in peius delle mansioni ascritte al lavoratore, e’ potenzialmente idonea a determinare un pregiudizio a beni di natura immateriale, anche ulteriori rispetto alla salute, atteso che, nella disciplina del rapporto di lavoro, numerose disposizioni assicurano una tutela rafforzata del lavoratore, con il riconoscimento di diritti oggetto di tutela costituzionale, con la configurabilita’ di un danno non patrimoniale risarcibile ogni qual volta vengano violati, superando il confine dei sacrifici tollerabili, diritti della persona del lavoratore oggetto di peculiare tutela al piu’ alto livello delle fonti.
Infatti questa Corte, a Sezioni unite (vedi Cass. 11 novembre 2008 nn. 26972, 26973, 26974, 26975), dichiarando risarcibile il danno non patrimoniale da inadempimento contrattuale che determini, oltre alla violazione degli obblighi di rilevanza economica assunti con il contratto, anche la lesione di un diritto inviolabile della persona, ha considerato che l’esigenza di accertare se, in concreto, il contratto tenda alla realizzazione anche di interessi non patrimoniali, eventualmente presidiati da diritti inviolabili della persona, viene meno nel caso in cui l’inserimento di interessi siffatti nel rapporto sia opera della legge, come appunto nel caso del contratto di lavoro, da considerare ipotesi di risarcimento dei danni non patrimoniali in ambito contrattuale legislativamente prevista.
La dignita’ personale del lavoratore, in riferimento agli articoli 2, 4 e 32 Cost., viene configurata come diritto inviolabile, la cui lesione si risolve in pregiudizio alla professionalita’ da dequalificazione, che si traduce nella compromissione delle aspettative di sviluppo della personalita’ nell’ambito della formazione sociale costituita dall’impresa.
L’assegnazione a mansioni inferiori pacificamente rappresenta fatto potenzialmente idoneo a produrre conseguenze dannose, non solo di natura patrimoniale (mancata acquisizione di un maggior saper fare, pregiudizio subito per la perdita di chance, ossia di ulteriori possibilita’ di guadagno o di ulteriori potenzialita’ occupazionali v. tra le altre v. Cass. n. 11045 del 10/6/2004), ma anche di natura non patrimoniale, dal riconoscimento costituzionale della personalita’ morale e della dignita’ del lavoratore derivando il diritto fondamentale di quest’ultimo, al pieno ed effettivo dispiegamento della sua professionalita’, espletando le mansioni che gli competono.
Orbene, nello specifico la Corte di merito e’ pervenuta alla reiezione della domanda di accertamento dell’intervenuto demansionamento e della consequenziale istanza risarcitoria, sul rilievo che la privazione di mansioni era stata circoscritta a limitati periodi di rotazione e risultava comunque “inserita nello specifico contesto dell’illegittima collocazione della lavoratrice in cassa integrazione, gia’ sanzionata mediante la condanna al pagamento delle differenze retributive fra il relativo trattamento e le retribuzioni maturate nei rispettivi periodi”.
Gli approdi ai quali e’ pervenuta la Corte di merito non appaiono coerenti coi ricordati insegnamenti, perche’ finiscono per sovrapporre piani risarcitori che rimangono concettualmente distinti perche’ riconducibili alla violazione di precetti normativi distinti (quelli attinenti all’osservanza dei criteri di rotazione in CIGO, CIGS e CIG in deroga, e quelli posti a tutela della professionalita’ e della personalita’ del lavoratore, consacrati dall’articolo 2103 c.c. nella versione di testo pro tempore vigente, anteriore alla novella operata con il Decreto Legislativo n. 81 del 2015), oltre che risarcibili alla stregua di diversi parametri; infatti, secondo la elaborazione della giurisprudenza di legittimita’, la non patrimonialita’ del diritto leso comporta che, diversamente da quello patrimoniale, il ristoro pecuniario del danno vada determinato in base a valutazione equitativa, anche mediante il ricorso alla prova presuntiva, che potra’ costituire pure l’unica fonte di convincimento del giudice (ancora Cass. SS.UU. n. 26972/2008 cit.).
Non e’, dunque, predicabile un principio, quale quello affermato dalla Corte distrettuale, in base al quale l’accertamento di un diritto scaturito dalla violazione di una norma possa assorbire anche quello derivante dalla violazione di altro precetto normativo; fermo restando che in linea generale, anche un’unica condotta contra legem – come anche fatto cenno in precedenza – possa essere fonte di una pluralita’ di eventi dannosi, autonomamente risarcibili, giacche’ la lesione in se’ della posizione giuridica soggettiva del lavoratore sotto il profilo della professionalita’, ha attitudine generatrice di danni sia a contenuto patrimoniale, pregiudicando quel complesso di capacita’ e di attitudini che e’ di certo bene economicamente valutabile, sia a contenuto non patrimoniale, risarcibile ogni qual volta vengano violati, superando il confine dei sacrifici tollerabili, diritti della persona.
Chiarita la potenzialita’ lesiva dell’assegnazione a mansioni inferiori ad opera del datore di lavoro, si e’ precisato che qualora questi lasci in condizione di inattivita’ il dipendente non solo viola l’articolo 2103 c.c., ma lede il fondamentale diritto al lavoro, inteso soprattutto come mezzo di estrinsecazione della personalita’ di ciascun cittadino, nonche’ dell’immagine e della professionalita’ del dipendente, ineluttabilmente mortificate dal mancato esercizio delle prestazioni tipiche della qualifica di appartenenza; tale comportamento comporta la lesione di un bene immateriale per eccellenza, qual’e’ la dignita’ professionale del lavoratore, intesa come esigenza umana di manifestare la propria utilita’ e le proprie capacita’ nel contesto lavorativo (v. Cass. 18/5/2012 n. 7963) e tale lesione produce un danno suscettibile di valutazione e risarcimento anche in via equitativa (vedi in proposito anche Cass. 20/04/2018 n. 9901 che ha ravvisato una violazione dell’articolo 2087 c.c., con conseguente obbligo di risarcimento del danno biologico – determinabile in relazione alla persistenza del comportamento lesivo, alla durata e reiterazione delle situazioni di disagio professionale e personale nella condotta tenuta dal datore di lavoro nei confronti di una lavoratrice alla quale, dopo il rientro dalla cassa integrazione, non erano stati, fra l’altro, assegnati compiti da svolgere).
Nella fattispecie qui scrutinata, la lavoratrice, per effetto della sospensione illegittima dal lavoro protrattasi dal 2/2/2009 al 2/5/2011 e dello stato di forzata inattivita’ nel quale e’ stata mantenuta fra un periodo di sospensione e l’altro, e’ stata deprivata delle mansioni a lei ascritte, con evidente pregiudizio quanto alla posizione giuridica soggettiva, della normalita’ delle relazioni di cui era titolare nel contesto aziendale in cui operava.
La prospettazione del danno derivante dal demansionamento (idoneo “a frustrare la specifica professionalita’ della lavoratrice, fedele dipendente per piu’ di 30 anni all’interno dell’azienda, quanto a toglierle autorevolezza e rispetto nell’ambito del suo stesso enturage lavorativo”, secondo quanto riferito in ricorso), ed immanente nella condizione stessa di inerzia nella quale la lavoratrice e’ stata illegittimamente collocata dalla parte datoriale, e’, dunque, suscettibile di ristoro per equivalente ed alla stregua del criterio equitativo, secondo i principi generali acquisiti dalla giurisprudenza di questa Corte ai quali si e’ fatto richiamo.
La pronuncia della Corte distrettuale che, per quanto sinora detto, a detti principi non si e’ attenuta, va rimessa ad altro giudice di appello, designato come in dispositivo. Questi nel procedere al rinnovato scrutinio della controversia si atterra’ ai principi innanzi esposti.
Al medesimo giudice va demandata la regolamentazione delle spese del giudizio di Cassazione.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’Appello di Milano in diversa composizione cui demanda di provvedere anche sulle spese del presente giudizio.

 

In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.

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