In materia di contratti con il consumatore lo ius variandi

Consiglio di Stato, Sezione sesta, Sentenza 27 febbraio 2020, n. 1424.

La massima estrapolata:

In materia di contratti con il consumatore lo ius variandi disciplinato dall’art. 70 del Codice delle comunicazioni elettroniche incontra due tipologie di limiti: “in primo luogo, le modifiche unilaterali possono riguardare soltanto la variazione di condizioni già contemplate nel contratto; in secondo luogo, i mutamenti delle condizioni preesistenti non possono mai raggiungere il livello della novazione del preesistente rapporto obbligatorio.

Sentenza 27 febbraio 2020, n. 1424

Data udienza 30 gennaio 2020

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Sesta
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 2030 del 2017, proposto dall’Autorità per le garanzie nelle Comunicazioni, in persona del Presidente pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via (…);
contro
As. – As. Pr. In. – Co. non costituito in giudizio;
Associazione Co. – Ce. per i Di. del Ci., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall’avvocato Ma. Le., con domicilio eletto presso lo studio Associazione Co. in Roma, via (…);
Te. It. s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Fi. La. e An. Zo., con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Fi. La. in Roma, via (…);
per la riforma
della sentenza 13 dicembre 2016, n. 12421, del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, Sezione Terza
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio di Associazione Co. – Ce. per i Di. del Ci. e di Te. It. S.p.A.;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 30 gennaio 2020 il Cons. Vincenzo Lopilato e uditi per le parti gli avvocati Gi. Gr. dell’Avvocatura Generale dello Stato, Gi. Ve., in sostituzione dell’avv. Zo., Fi. La. e Ma. Le..

FATTO

1.- L’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, con delibera n. 519 del 2015, ha approvato il regolamento “Recante disposizioni a tutela degli utenti in materia di contratti relativi alla fornitura di servizi di comunicazioni elettroniche”.
Te. It. s.p.a. ha impugnato tale delibera innanzi al Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, limitatamente agli artt. 3, 5, 6 e 8 l’Allegato 1. In particolare, l’art. 6 dispone che gli operatori di telefonia mobile possono modificare “le condizioni contrattuali solo nelle ipotesi e nei limiti privati dalla legge o dal contratto medesimo” (cd. ius variandi).
2.- Il Tribunale amministrativo, con sentenza 13 dicembre 2016, n. 12421, ha accolto il ricorso nella sola parte relativa all’impugnazione del citato art. 6.
In particolare, si è ritenuto che il potere esercitato dall’Autorità dovesse ritenersi privo di base legale, in quanto, mediante la delibera, sono stati introdotti limiti all’esercizio dello ius variandi non previsti dalla legge di settore, non potendosi applicare ai contratti relativi al settore delle comunicazioni elettroniche le norme relative alle clausole abusive nei contratti dei consumatori. Questa affermazione si è basata sulle seguenti affermazioni: i) l’art. 1, par. 4 della direttiva 2009/136 Ce, di modifica della direttiva 22/2002/Ce, stabilisce che “Le disposizioni della presente direttiva relative ai diritti degli utenti finali si applicano fatte salve le norme comunitarie in materia di tutela dei consumatori, in particolare le direttive 93/13/Cee e 97/7/Ce, e le norme nazionali conformi al diritto comunitario”; ii) la norma europea a tutela del consumatore non contempla limiti al potere di modificare in via unilaterale il contratto, in quanto la direttiva n. 13 del 1993 si limita a disporre che essa “non si oppone neppure a clausole con cui il professionista si riserva il diritto di modificare unilateralmente le condizioni di un contratto di durata indeterminata a condizione che gli sia fatto obbligo di informare con un ragionevole preavviso il consumatore e che questi sia libero di recedere dal contratto”.
In definitiva, pertanto, secondo il primo giudice, “la direttiva n. 13 del 1993 conferma che, a fronte delle modifiche contrattuali introdotte dall’operatore economico, il ragionevole preavviso e il diritto di recesso rappresentano strumenti di tutela del consumatore alternativi e non cumulativi rispetto all’indicazione dei giustificati motivi”.
3.- L’Autorità ha proposto appello, per i motivi indicati nella parte motiva della presente sentenza.
3.1.- Si è costituita in giudizio la società ricorrente in primo grado chiedendo che il ricorso venga rigettato.
3.2.- E’ intervenuta in giudizio anche l’Associazione Co. Onlus, chiedendo l’accoglimento dell’appello.
4.- La causa è stata decisa all’esito dell’udienza pubblica del 30 gennaio 2020.

DIRITTO

1.- La questione all’esame della Sezione attiene alla legittimità della disposizione contenuta nel regolamento adottato dall’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni nella parte in cui dispone che gli operatori di telefonia mobile possono modificare “le condizioni contrattuali solo nelle ipotesi e nei limiti previsti dalla legge o dal contratto medesimo”. Si tratta di stabilire se tale prescrizione regolamentare rinvenga un fondamento nella legge e, dunque, se sia stato rispettato il principio di legalità dell’azione amministrativa.
2.- Con un unico motivo l’appellante sostiene l’erroneità della sentenza nella parte in cui ha ritenuto che il potere esercitato sia privo di base legale, non esistendo norme che pongono limiti al diritto di modifica unilaterale dei contratti nel settore delle comunicazioni elettroniche. In particolare, l’appellante sostiene che dovrebbe applicarsi il decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206 (Codice del consumo) che condiziona l’esercizio dello ius variandi all’esistenza di un “giustificato motivo”.
La censura è fondata.
Su un piano generale, lo ius variandi costituisce un diritto potestativo, riconosciuto ad una parte, dalla legge o dal contratto, di modificare o specificare unilateralmente il contenuto del contratto. Si tratta di un diritto che è esercitato mediante un negozio unilaterale recettizio di secondo grado che può avere una efficacia modificativa del contratto su cui incide ovvero anche un’efficacia dichiarativa, con svolgimento interno di tipo specificativo.
Nell’ambito dei contratti di diritto comune, caratterizzati dalla presenza di parti che si pongono in posizione di tendenziale eguaglianza, esistono alcune norme che contemplano fattispecie riconducibili a tale istituto. A titolo esemplificativo: i) rientra nella prima tipologia di efficacia, l’art. 1664 cod. civ., il quale dispone che l’appaltatore può pretendere la revisione del compenso pattuito nella misura in cui sia aumentato il costo dei materiali e della mano d’opera per effetto di circostanze imprevedibili; ii) rientra nella seconda tipologia di efficacia l’istruzione che il mandante fornisce al mandatario (art. 1711, comma 2, cod. civ.).
Si discute se sia ammissibile uno ius variandi di matrice convenzionale e cioè se sia legittima una clausola negoziale che attribuisca ad una sola delle parti, in particolare, il potere di modificare, nel corso dell’esecuzione, il rapporto negoziale.
Un primo orientamento esclude che tale potere possa essere esercitato in mancanza di una norma generale che ne autorizzi l’esercizio e in presenza di una norma (l’art. 1349 cod. civ.) che prevede che le parti possano assegnare soltanto ad un terzo, con funzione di arbitraggio, il potere di incidere sul contenuto del contratto mediante la definizione di una sua parte rimasta incompleta. Si sostiene, inoltre, che l’autorizzazione all’esercizio di tale potere potrebbe comportare il rischio di un esercizio abusivo da parte del contraente cui il potere è attribuito con alterazione dell’equilibrio economico-giuridico del rapporto contrattuale.
Un secondo orientamento, prevalente e preferibile, ritiene che tale potere sia configurabile in quanto, in mancanza di espressi divieti legali, rientra nell’autonomia negoziale delle parti contemplare clausole che consentano ad una di essa di modificare in via unilaterale il contenuto del contratto.
Il rischio di abusi contrattuali può essere evitato mediante l’operatività di limiti all’esercizio di tale diritto potestativo.
Il primo limite è di natura convenzionale e può essere rappresentato dalla introduzione nel contratto stesso di previsioni che sottopongano l’esercizio del potere di modifica unilaterale del contratto a precise condizioni di esercizio. In particolare, tali condizioni sono normalmente connesse all’esigenza di gestire sopravvenienze che si possono verificare durante la fase di attuazione del rapporto contrattuale, per riequilibrare il contenuto negoziale con finalità manutentive dello stesso. Si tratta di limiti che evitano anche che la clausola negoziale possa essere ritenuta nulla per indeterminatezza dell’oggetto ai sensi dell’art. 1346 cod. civ.
Il secondo limite è di natura legale e deriva dal principio di buona fede (artt. 1375-1376 cod. civ.). La buona fede ha una funzione non sono di integrazione delle lacune contrattuali ma anche di correzione delle modalità di attuazione delle previsioni negoziali in contrasto con le regole di condotta della correttezza. In questa prospettiva, l’eventuale esercizio del diritto potestativo secondo modalità confliggenti con il principio di buona fede integra gli estremi di un abuso del diritto, con conseguente operatività del rimedio dell’exceptio doli generalis finalizzato a bloccare l’efficacia del potere stesso.
Nell’ambito dei contratti con le parti deboli, caratterizzati da una situazione di squilibrio informativo ed, in alcuni casi, economico, tra le parti, il legislatore europeo e nazionale, proprio in ragione della particolare natura della clausola in esame, ha ritenuto necessario disciplinare il potere di modificazione unilaterale sottoponendo il suo esercizio a limiti legali mediante la previsione di specifiche norme imperative che costituiscono una proiezione applicativa dello stesso principio di buona fede.
In particolare, nei contratti dei consumatori, il decreto legislativo n. 206 del 2005, recependo le prescrizioni europee contenute nella direttiva n. 13 del 1993, ha previsto, per quanto interessa in questa sede, due diverse tipologie di clausole che sono state contemplate nella forma negativa della clausola da considerarsi abusiva se non rispetta determinati condizioni e limiti.
La prima clausola, che si presume vessatorie fino a prova contraria, è quella che ha per oggetto, o per effetto, di “consentire al professionista di modificare unilateralmente le clausole del contratto, ovvero le caratteristiche del prodotto o del servizio da fornire, senza un giustificato motivo indicato nel contratto stesso” (art. 33, comma 2, lett. m. cod. cons.).
Il potere di modificazione unilaterale riconosciuto al professionista si considera non abusivo e, dunque, valido soltanto se è rispettato il limite legale costituito dall’accertata sussistenza di un “giustificato motivo” indicato nel contratto. Ne consegue che il contratto che contempla la clausola di ius variandi deve indicare i motivi che giustificano l’esercizio di tale potere, da parte del professionista, nella fase di attuazione del rapporto. Si deve trattare di condizioni oggettive da valutare alla luce del principio di buona fede e connesse, normalmente, all’esigenza di gestire eventuali sopravvenienze.
La seconda clausola che si presume vessatoria è quella che ha per oggetto, o per effetto, di “consentire al professionista di aumentare il prezzo del bene o del servizio senza che il consumatore possa recedere se il prezzo finale è eccessivamente elevato rispetto a quello originariamente convenuto” (art. 33, comma 2, lett. o, cod. cons.).
Il potere di modificazione unilaterale di modifica del prezzo riconosciuto al professionista si considera, in questo caso, non abusivo e, dunque, valido soltanto se tale potere viene bilanciato dalla previsione di un diritto potestativo, riconosciuto al consumatore, di sciogliersi dal contratto mediante il recesso.
Se non vengono rispettati i limiti legali, sopra indicati, la clausola deve ritenersi nulla. Il regime giuridico è quello della nullità di protezione a legittimazione riservata alla parte debole e con finalità non caducatorie del contratto ma manutentive attraverso la previsione di una forma di nullità parziale necessaria che lascia fermo per il resto il contratto (art. 36 Cod. cons.).
Nei contratti di comunicazione elettronica, la parte debole è l’utente che opera nel mercato liberalizzato dei servizi di comunicazione elettronica e la parte forte è il professionista.
La disciplina europea è contenuta, tra l’altro, nelle direttive n. 19-22 del 7 marzo 2002 (in questa sede rileva, in particolare, la direttiva n. 22), che sono state recepite con decreto legislativo 1° agosto 2003, n. 259 (Codice delle comunicazioni elettroniche).
L’art. 70 di tale Codice dispone che: i) “il contraente, qualora non accetti le modifiche delle condizioni contrattuali da parte delle imprese che forniscono reti o servizi di comunicazione elettronica, ha diritto di recedere dal contratto senza penali né costi di disattivazione”; ii) “le modifiche sono comunicate al contraente con adeguato preavviso, non inferiore a trenta giorni, e contengono le informazioni complete circa l’esercizio del diritto di recesso”.
Il legislatore nazionale ha previsto, pertanto, un chiaro limite legale all’esercizio del potere di ius variandi che è costituito dal potere di recesso riconosciuto all’utente. Si tratta di una norma di protezione dell’utente che, però, comporta l’interruzione del rapporto contrattuale, mediante la sua risoluzione conseguente all’esercizio del recesso stesso, qualora non intenda accettare la modificazione effettuata dal professionista.
Si tratta di stabilire se questa, come ritenuto dal primo giudice, sia l’unica disposizione che prevede limiti legali al potere in esame ovvero se siano rinvenibili nel sistema altre norme che pongono ulteriori limiti allo stesso esercizio dello ius variandi donei a consentire al consumatore di conservare il rapporto contrattuale. Occorre, in particolare, accertare se sia applicabile l’art. 33, comma 2, lett. m, del Codice del consumo che, come sopra riportato, condiziona l’esercizio dello ius variandi alla sussistenza di un giustificato motivo.
In tale prospettiva, occorre accertare se esistano disposizioni di collegamento tra parte generale, relativa alla tutela dei consumatori, e parte speciale, relativa al settore della tutela degli utenti nei contratti di comunicazione elettronica.
Sul piano interno, era prevista una espressa norma di collegamento costituita dall’art. 70 del decreto legislativo n. 259 del 2003 che disponeva che “rimane ferma l’applicazione delle norme e delle disposizioni in materia di tutela dei consumatori”. Tale norma è stata abrogata dall’art. 49, comma 1, lett. f), del decreto legislativo. 28 maggio 2012, n. 70, a decorrere dal 1° giugno 2012, ai sensi di quanto disposto dall’art. 82, comma 1, del medesimo decreto. Tale decreto n. 70 del 2012 è stato adottato per dare attuazione, tra l’altro, alla direttiva 2009/136 Ce.
Sul piano europeo, l’art. 1, par. 4, della direttiva 4. 22/2002/Ce, come modificato dall’art. 1, par. 4 della citata direttiva 2009/136 Ce, stabilisce che “le disposizioni della presente direttiva relative ai diritti degli utenti finali si applicano fatte salve le norme comunitarie in materia di tutela dei consumatori, in particolare le direttive 93/13/Cee e 97/7/Ce, e le norme nazionali conformi al diritto comunitario”.
Dalla lettura coordinata delle norme nazionali ed europee risulta come la ragione dell’abrogazione dell’ultimo inciso dell’art. 70 del Codice sia dipesa dalla volontà del legislatore di dare attuazione a quanto sancito a livello europeo con la introduzione della riportata una norma generale, inserita nella direttiva n. 22, di coordinamento tra parte generale e speciale di tutela delle parti deboli. Per quanto tale norma non sia stata poi recepita a livello interno ciò non esclude che, all’esito di una interpretazione conforme, il diritto interno deve essere inteso nel senso che la disposizione dell’art. 70 non esclude che si applichino anche le disposizioni generali contenute nel Codice del consumo.
In particolare, per quanto rileva in questa sede, deve ritenersi che trovi applicazione l’art. 33, comma 2, lett. m., che condiziona l’esercizio dello ius variandi alla sussistenza di un giustificato motivo indicato nel contratto.
Chiarito ciò, deve, comunque, rilevarsi come, anche in assenza di tale puntuale prescrizione, un limite legale è desumibile dal principio generale di buona fede nella fase di esecuzione del contratto, che impedisce alla parte forte di incidere in via unilaterale sul contenuto del contratto con modalità esecutive contrastanti con le regole di correttezza. Ne consegue che l’operatore di telefonia mobile, nella fase di esercizio del diritto potestativo di modificazione del rapporto contrattuale, è obbligato ad indicare le ragioni oggettive, connesse, normalmente, alla gestione di sopravvenienze rilevanti, che giustificano in modo oggettivo lo ius variandi.
Deve, infine, rilevarsi che questo Consiglio ha già avuto di affermare, sia pure seguendo un diverso percorso argomentativo, che lo ius variandi disciplinato dall’art. 70 del Codice delle comunicazioni elettroniche incontra due tipologie di limiti: “in primo luogo, le modifiche unilaterali possono riguardare soltanto la variazione di condizioni già contemplate nel contratto; in secondo luogo, i mutamenti delle condizioni preesistenti non possono mai raggiungere il livello della novazione del preesistente rapporto obbligatorio” (Cons. Stato, sez. VI, 25 novembre 2019, n. 8024).
In definitiva, la norma regolamentare recepisce una regola posta da disposizioni primarie che pongono limiti all’esercizio dello ius variandi ulteriori rispetto alla sola previsione del diritto di recesso.
3.- L’accoglimento del motivo di appello sin qui riportato esime il Collegio dall’esaminare il secondo motivo proposto in via subordinata volto a dimostrare come, in ogni caso, l’Autorità avrebbe il potere di adottare il regolamento in esame.
4.- La natura complessa della questione esaminata giustifica l’integrale compensazione tra le parti delle spese del presente grado di giudizi.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Sesta, definitivamente pronunciando:
a) accoglie l’appello proposto con il ricorso indicato in epigrafe e, per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, rigetta il ricorso di primo grado nei limiti indicati in motivazione;
b) dichiara integralmente compensate tra le parti le spese del presente grado di giudizio.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 30 gennaio 2020 con l’intervento dei magistrati:
Sergio Santoro – Presidente
Vincenzo Lopilato – Consigliere, Estensore
Alessandro Maggio – Consigliere
Dario Simeoli – Consigliere
Davide Ponte – Consigliere

 

 

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