In caso di trasferimento che riguardi aziende delle quali sia stato accertato lo stato di crisi aziendale

Corte di Cassazione, sezione lavoro civile, Sentenza 1 giugno 2020, n. 10415.

La massima estrapolata:

In caso di trasferimento che riguardi aziende delle quali sia stato accertato lo stato di crisi aziendale, ovvero di amministrazione straordinaria possono esserci delle deroghe all’articolo 2112 del cc (Mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento).

Sentenza 1 giugno 2020, n. 10415

Data udienza 6 febbraio 2020

Tag – parola chiave: Trasferimento d’azienda – Stato di crisi – Amministrazione straordinaria con continuazione dell’attività – Accordo sindacale – Licenziamenti collettivi – Esclusione – Deroghe all’articolo 2112 del codice civile

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NOBILE Vittorio – Presidente

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere

Dott. PAGETTA Antonella – Consigliere

Dott. CINQUE Guglielmo – Consigliere

Dott. AMENDOLA Fabrizio – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 34955-2018 proposto da:
(OMISSIS) – (OMISSIS) S.P.A. IN AMMINISTRAZIONE STRAORDINARIA, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in (OMISSIS) presso lo studio degli Avvocati (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS), che la rappresentano e difendono;
– ricorrente –
nonche’ da:
RICORSO SUCCESSIVO SENZA N.R.G. (OMISSIS) S.P.A. (gia’ (OMISSIS) – (OMISSIS) S.p.A), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in (OMISSIS), presso lo studio NCTM, rappresentata e difesa dagli avvocati (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS);
– ricorrente successivo –
contro
(OMISSIS), domiciliato in ROMA PIAZZA CAVOUR presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dagli avvocati (OMISSIS) e (OMISSIS);
– controricorrente ai ricorsi – avverso la sentenza n. 3485/2018 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 28/09/2018 R.G.N. 1365/2018+1;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 06/02/2020 dal Consigliere Dott. FABRIZIO AMENDOLA;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CELESTE ALBERTO, che ha concluso per il rigetto del ricorso CAI, per il rigetto dei primi due motivi del ricorso (OMISSIS) SAI e per la rimessione alle SS.UU. per il terzo motivo dello steso ricorso;
udito l’Avvocato (OMISSIS);
uditi gli Avvocati (OMISSIS) e (OMISSIS).

FATTI DI CAUSA

1. La Corte di Appello di Roma, con sentenza del 28 settembre 2018, ha confermato la pronuncia di primo grado che, nell’ambito di un procedimento ex L. n. 92 del 2012, aveva ritenuto l’illegittimita’ del licenziamento intimato in data 31 ottobre 2014 a (OMISSIS) da (OMISSIS) Spa, all’esito di una procedura di licenziamento collettivo, ed ordinato a (OMISSIS) – (OMISSIS) Spa, in qualita’ di cessionaria del compendio aziendale, di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro, condannando altresi’ entrambe le societa’, in solido, al pagamento di una indennita’ risarcitoria quantificata in Euro 1.458,31 al mese dal recesso all’effettiva riammissione in servizio, oltre contributi, accessori e spese.
2. La Corte di Appello ha respinto sia i reclami proposti distintamente da entrambe le societa’, sia il reclamo incidentale del (OMISSIS).
3. In estrema sintesi e per quanto qui ancora interessa, avuto riguardo al reclamo di (OMISSIS), la Corte territoriale ha ritenuto che: la controversia non esulasse dall’ambito di applicazione del rito di impugnativa dei licenziamenti previsto dalla L. n. 92 del 2012; risultasse violato la L. n. 68 del 1999, articolo 10, comma 4, perche’, al momento della cessazione del rapporto, il recesso esercitato nei confronti di un lavoratore occupato obbligatoriamente era viziato in quanto il numero dei rimanenti lavoratori occupati obbligatoriamente era inferiore alla quota di riserva, con conseguente applicabilita’ della tutela reintegratoria cd. attenuata.
4. Per quanto riguarda, invece, il reclamo di S.A.I., la Corte ha innanzitutto confermato che l’impugnativa stragiudiziale del licenziamento intimato dalla societa’ in data 31.10.2014 risultava pervenuta entro il termine prescritto di 60 giorni nei confronti di CAI Spa, non dovendo essere impugnato anche nei confronti della cessionaria SAI subentrata solo a partire dal 1 gennaio 2015.
Pertanto, annullato il licenziamento impugnato con effetti rispristinatori del rapporto nei confronti della cedente (OMISSIS), il rapporto di lavoro, ricostituito ex tunc con l’impresa cedente, doveva trasferirsi all’impresa cessionaria S.A.I., “non essendo opponibile da parte di quest’ultima l’esclusione prevista dagli accordi sindacali conclusi nell’ambito della procedura di cessione di azienda per i lavoratori non facenti parte degli appositi elenchi”, pur in presenza di uno stato di crisi aziendale.
In particolare, la Corte ha ritenuto di dover interpretare in senso conforme al diritto dell’Unione della L. n. 428 del 1990, articolo 47, comma 4 bis, cosi’ come successivamente modificato, nel senso che l’accordo sindacale ivi previsto non puo’ prevedere limitazioni al diritto dei lavoratori di passare all’impresa cessionaria, ma semplicemente modifiche delle condizioni di lavoro al fine del mantenimento dei livelli occupazionali.
5. Per la cassazione di tale sentenza hanno proposto distinti ricorsi prima (OMISSIS) Spa, con tre motivi, e poi (OMISSIS) Spa, con un motivo; ha resistito con controricorso il lavoratore. Entrambe le societa’ hanno depositato memorie.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con l’unico motivo del ricorso (OMISSIS) si denuncia “violazione e falsa applicazione della L. n. 68 del 1999, articolo 10, comma 4, e della L. n. 68 del 1999, articolo 3, comma 5”, argomentando che la societa’ beneficiava della sospensione degli obblighi occupazionali, per cui – secondo la tesi esposta – non era tenuta a rispettare la quota di riserva.
1.1. La L. n. 68 del 1999, articolo 10, comma 4, espressamente prevede: “Il recesso di cui alla L. 23 luglio 1991, n. 223, articolo 4, comma 9, ovvero il licenziamento per riduzione di personale o per giustificato motivo oggettivo, esercitato nei confronti del lavoratore occupato obbligatoriamente, sono annullabili qualora, nel momento della cessazione del rapporto, il numero dei rimanenti lavoratori occupati obbligatoriamente sia inferiore alla quota di riserva prevista all’articolo 3 della presente legge”.
Come affermato da questa Corte (Cass. n. 12911 del 2017) “la ratio della norma, nel quadro delle azioni di “promozione dell’inserimento e della integrazione lavorativa delle persone disabili nel mondo del lavoro” di cui alle finalita’ espresse dalla L. n. 68 del 1999, articolo 1, comma 1, e’ quella di evitare che, in occasione di licenziamenti individuali o collettivi motivati da ragioni economiche, l’imprenditore possa superare i limiti imposti alla presenza percentuale nella sua azienda di personale appartenente alle categorie protette, originariamente assunti in conformita’ ad un obbligo di legge. Il divieto e’ in parte compensato dalla sospensione degli obblighi di assunzione per le aziende che usufruiscano dei benefici di integrazione salariale ovvero per la durata delle procedure di mobilita’ previste dalla L. n. 223 del 1991, cosi’ come disposto dalla L. n. 223 del 1991, articolo 3, comma 5, sicche’ in caso di crisi l’impresa e’ esonerata dall’assumere nuovi invalidi, ma non puo’ coinvolgere quelli gia’ assunti in recessi connessi a ragioni di riduzione del personale, ove cio’ venga ad incidere sulle quote di riserva” (conf., in motivazione, Cass. n. 26029 del 2019).
Pertanto, la sospensione degli obblighi di assunzione consente all’azienda di non assumere lavoratori per mantenere o per reintegrare la quota obbligatoria prevista dalla legge e, quindi, di trovarsi legittimamente al di sotto della quota di riserva, senza pero’ per questo legittimarla ad effettuare licenziamenti nell’ambito dei lavoratori disabili.
1.2. Inoltre, con le sentenze gia’ citate, questa Corte, in punto di apparato sanzionatorio, ha affermato il principio, da cui non vi e’ ragione di discostarsi, secondo cui: “Nel caso di licenziamento collettivo, la violazione della quota di riserva prescritta dalla L. n. 68 del 1999, articolo 3 rientra nell’ipotesi di “violazione dei criteri di scelta” in quanto assunti in contrasto con espressa previsione legale, ai sensi della L. n. 223 del 1991. articolo 5, comma 3, con conseguente applicazione della tutela reintegratoria ex articolo 18, comma 4, st. lav. novellato, quale opzione interpretativa rispettosa del dettato normativo e conforme alla finalita’ della disciplina – anche sovranazionale – in materia, posta a speciale protezione del disabile”.
2. Con il primo motivo di ricorso (OMISSIS) denuncia violazione e falsa applicazione della L. n. 183 del 2010, articolo 32, articolo 2112 c.c. e L. n. 604 del 1966, articolo 6 per avere la Corte territoriale respinto l’eccezione di decadenza formulata dalla societa’ a mente di dette disposizioni.
Si eccepisce che il licenziamento intimato da CAI in data 30.10.2014 era stato impugnato dal lavoratore solo nei confronti della stessa CAI con lettera del 16.2.2014 e non nei confronti di (OMISSIS) SAI cessionaria d’azienda, se non con tardiva missiva del 13 febbraio 2015; che comunque il trasferimento d’azienda era avvenuto il 1 gennaio 2015 per cui “da tale data il lavoratore avrebbe dovuto contestare la mancata cessione del proprio contratto e rivendicare la prosecuzione del rapporto di lavoro con la cessionaria (OMISSIS)”, ai sensi della L. n. 183 del 2010, articolo 32, comma 4, n. 3.
2.1. La censura e’ infondata, sia con riferimento alla lettera c) sia con riferimento alla L. n. 183 del 2010, articolo 32, comma 4, lettera d).
Secondo recenti pronunce di questa Corte, nell’ipotesi di trasferimento d’azienda, la domanda del lavoratore volta all’accertamento del passaggio del rapporto di lavoro in capo al cessionario non e’ soggetta a termini di decadenza, perche’ non vi e’ alcun onere di far accertare formalmente, nei confronti del cessionario, l’avvenuta prosecuzione del rapporto di lavoro, in particolare applicandosi la L. n. 183 del 2010, articolo 32, comma 4, lettera c), ai soli provvedimenti datoriali che il lavoratore intenda impugnare, al fine di contestarne la legittimita’ o la validita’ (cfr. Cass. n. 9469 del 2019; Cass. n. 13648 del 2019).
A fortiori non risulta applicabile la L. n. 183 del 2010, articolo 32, comma 4, lettera d), la quale comunque postula l’invocazione della illegittimita’ o invalidita’ di atti posti in essere da un datore di lavoro solo formale in fenomeni dal carattere propriamente interpositorio e trattandosi di norma di chiusura di carattere eccezionale, non suscettibile, pertanto, di disciplinare la fattispecie di cui all’articolo 2112 c.c. gia’ contemplata dalla lettera precedente (Cass. n. 28750 del 2019; v. pure Cass. n. 13179 del 2017; conf. Cass. n. 4883 del 2020).
Nel caso in esame, l’azione era proprio diretta a fare accertare la sussistenza del rapporto di lavoro con il cessionario e non a contestare la legittimita’ o validita’ di un trasferimento del rapporto di lavoro gia’ disposto nei suoi confronti.
3. Con il secondo motivo (OMISSIS) SAI denuncia “violazione e falsa applicazione della L. n. 92 del 2012, articolo 1, comma 47” per avere i giudici d’appello ritenuto applicabile il rito cd. “Fornero” anche ad una controversia in cui occorreva accertare anche la continuita’ del rapporto di lavoro con una cessionaria d’azienda.
3.1. Il motivo non puo’ trovare accoglimento.
Resta fermo il principio elaborato dalla giurisprudenza di questa Corte secondo il quale, nell’ambito della cognizione con il rito speciale previsto dalla L. n. 92 del 2012, articolo 1, comma 48, rientrano tutte le questioni che “il giudice deve affrontare e risolvere nel percorso per giungere alla decisione di merito sulla domanda concernente la legittimita’ o meno del licenziamento” (Cass. n. 21959 del 2018; cfr. pure, in motivazione, Cass. n. 12094 del 2016).
Si e’ cosi’ affermato che nel rito speciale previsto dalla L. n. 92 del 2012, rientra nell’ambito di applicazione di cui all’articolo 1, comma 47, della stessa legge anche la domanda proposta nei confronti di un soggetto diverso dal formale datore di lavoro, di cui si chiede di accertare la effettiva titolarita’ del rapporto, dovendo il giudice individuare la fattispecie secondo il canone della prospettazione, con il solo limite di quelle artificiose, sicche’, una volta azionata dal lavoratore una impugnativa di licenziamento postulando l’applicabilita’ delle tutele previste dall’articolo 18 dello Statuto, il procedimento speciale deve trovare ingresso a prescindere dalla fondatezza delle allegazioni, senza che la veste formale assunta dalle relazioni giuridiche tra le parti ne possa precludere l’accesso. (v. Cass. n. 17775 del 2016 e Cass. n. 29889 del 2019; sull’accertamento della subordinazione v. Cass. n. 186 del 2019).
Nella specie la domanda proposta nei confronti di (OMISSIS) SAI s.p.a. e’ strettamente connessa a quella proposta nei confronti di (OMISSIS) CAI e dipendente dall’impugnativa del licenziamento. Pertanto, secondo l’orientamento interpretativo sopra richiamato, una volta che il lavoratore svolge un’impugnativa di licenziamento postulando l’applicabilita’ delle tutela di cui alla L. n. 300 del 1970, articolo 18 trova applicazione il rito speciale, a prescindere dalla fondatezza della allegazioni e a prescindere dalla posizione processuale delle parti convenute e dalla posizione dalle stesse assunta nelle relazioni giuridiche sottostanti al rapporto dedotto in giudizio. Anche la questione della titolarita’ sul lato passivo del rapporto obbligatorio conseguente alla dichiarazione di illegittimita’ del licenziamento e’ questione di merito che non incide sul rito applicabile, ma solo sulla fondatezza della domanda.
3.2. Inoltre la sentenza gia’ richiamata (Cass. n. 12094/2016) ha ribadito che “l’error in procedendo rileva nei limiti in cui determini la “nullita’ della sentenza o del procedimento” a mente dell’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 4″, per cui, secondo giurisprudenza costante di questa Corte, “l’inesattezza del rito non determina di per se’ la nullita’ della sentenza”.
La violazione della disciplina sul rito assume rilevanza invalidante soltanto nell’ipotesi in cui, in sede di impugnazione, la parte indichi lo specifico pregiudizio processuale concretamente derivatole dalla mancata adozione del rito diverso, quali una precisa e apprezzabile lesione del diritto di difesa, del contraddittorio e, in generale, delle prerogative processuali protette della parte (Cass. n. 19942 del 2008; Cass. SS.UU. n. 3758 del 2009; Cass. n. 22325 del 2014; Cass. n. 1448 del 2015). Perche’ la violazione assuma rilevanza invalidante occorre, infatti, che la parte che se ne dolga in sede di impugnazione indichi il suo fondato interesse alla rimozione di uno specifico pregiudizio processuale da essa concretamente subito per effetto della mancata adozione del rito diverso. Cio’ perche’ l’individuazione del rito non deve essere considerata fine a se stessa, ma soltanto nella sua idoneita’ ad incidere apprezzabilmente sul diritto di difesa, sul contraddittorio e, in generale, sulle prerogative processuali della parte.
Nel motivo in esame parte ricorrente non specifica adeguatamente il pregiudizio processuale che avrebbe determinato l’adozione di un rito diverso da quello ordinario.
4. Con il terzo mezzo si denuncia “Violazione e falsa applicazione della L. n. 428 del 1990, articolo 47, comma 4-bis, nonche’ degli accordi collettivi” intervenuti nell’ambito di una situazione di crisi aziendale in deroga all’articolo 2112 c.c., criticando diffusamente l’interpretazione offerta dai giudici del merito della disposizione innanzi richiamata.
Il motivo investe l’interpretazione e la portata applicativa della L. 29 dicembre 1990, n. 428, articolo 47, comma 4-bis, introdotto dal Decreto Legge 25 settembre 2009, n. 135, articolo 19-quater (Disposizioni urgenti per l’attuazione degli obblighi comunitari e per l’esecuzione di sentenze della Corte di giustizia delle Comunita’ Europee), conv. in L. 20 novembre 2009, n. 166, “al fine di dare esecuzione alla sentenza di condanna emessa dalla Corte di giustizia delle Comunita’ Europee l’11 giugno 2009 nella causa C561/07”, la quale aveva affermato che, con la L. n. 428 del 1990, articolo 47, commi 5 e 6, la “Repubblica italiana e’ venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza della direttiva” 2001/23/CE.
4.1. Tale Direttiva, per quanto qui interessa, prevede agli articoli 3 e 4 regole generali, cui non e’ consentito derogare in senso sfavorevole ai lavoratori da parte degli Stati membri, al fine di assicurare il mantenimento dei loro diritti in caso di trasferimento d’impresa.
In particolare: “I diritti e gli obblighi che risultano per il cedente da un contratto di lavoro o da un rapporto di lavoro esistente alla data del trasferimento sono, in conseguenza di tale trasferimento, trasferiti al cessionario” (articolo 3, par. 1); “Dopo il trasferimento, il cessionario mantiene le condizioni di lavoro convenute mediante contratto collettivo nei termini previsti da quest’ultimo per il cedente fino alla data della risoluzione o della scadenza del contratto collettivo o dell’entrata in vigore o dell’applicazione di un altro contratto collettivo. Gli Stati membri possono limitare il periodo del mantenimento delle condizioni di lavoro, purche’ esso non sia inferiore ad un anno” (articolo 3, par. 3); “Il trasferimento di un’impresa, di uno stabilimento o di una parte di impresa o di stabilimento non e’ di per se’ motivo di licenziamento da parte del cedente o del cessionario. Tale dispositivo non pregiudica i licenziamenti che possono aver luogo per motivi economici, tecnici o d’organizzazione che comportano variazioni sul piano dell’occupazione” (articolo 4, par. 1).
Le regole volte a garantire il mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di cambiamento dell’imprenditore, consentendo loro di restare al servizio del nuovo datore di lavoro alle stesse condizioni pattuite con il cedente, (cfr., tra le altre, CGUE, 15 settembre 2010, Briot, C 386/09, punto 26 e giurisprudenza citata), possono essere derogate dalle legislazioni nazionali nei soli casi espressamente previsti dall’articolo 5 della Direttiva 2001/23/CE.
La prima deroga e’ contenuta nel paragrafo 1 dell’articolo 5: “A meno che gli Stati membri dispongano diversamente, gli articoli 3 e 4 non si applicano ad alcun trasferimento di imprese, stabilimenti o parti di imprese o di stabilimenti nel caso in cui il cedente sia oggetto di una procedura fallimentare o di una procedura di insolvenza analoga aperta in vista della liquidazione dei beni del cedente stesso e che si svolgono sotto il controllo di un’autorita’ pubblica competente (che puo’ essere il curatore fallimentare autorizzato da un’autorita’ pubblica competente) “.
Il successivo paragrafo 2 dell’articolo 5 contiene la seconda deroga: “Quando gli articoli 3 e 4 si applicano ad un trasferimento nel corso di una procedura di insolvenza aperta nei confronti del cedente (indipendentemente dal fatto che la procedura sia stata aperta in vista della liquidazione dei beni del cedente stesso) e a condizione che tali procedure siano sotto il controllo di un’autorita’ pubblica competente (che puo’ essere un curatore fallimentare determinato dal diritto nazionale), uno Stato membro puo’ disporre che: a) nonostante l’articolo 3, paragrafo 1, gli obblighi del cedente risultanti da un contratto di lavoro o da un rapporto di lavoro e pagabili prima dei trasferimento o prima dell’apertura della procedura di insolvenza non siano trasferiti al cessionario, a condizione che tali procedure diano adito, in virtu’ della legislazione dello Stato membro, ad una protezione almeno equivalente a quella prevista nelle situazioni contemplate dalla direttiva 80/987/CEE del Consiglio, del 20 ottobre 1980, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative alla tutela dei lavoratori subordinati in caso di insolvenza del datore di lavoro; e/o b) il cessionario, il cedente o la persona o le persone che esercitano le funzioni del cedente, da un lato, e i rappresentanti dei lavoratori, dall’altro, possano convenire, nella misura in cui la legislazione o le prassi in vigore lo consentano, modifiche delle condizioni di lavoro dei lavoratori intese a salvaguardare le opportunita’ occupazionali garantendo la sopravvivenza dell’impresa, dello stabilimento o di parti di imprese o di stabilimenti”.
Una terza deroga e’ contenuta nel paragrafo 3 dell’articolo 5, secondo cui: “Uno Stato membro ha facolta’ di applicare il paragrafo 2, lettera b), a trasferimenti in cui il cedente sia in una situazione di grave crisi economica quale definita dal diritto nazionale, purche’ tale situazione sia dichiarata da un’autorita’ pubblica competente e sia aperta al controllo giudiziario, a condizione che tali disposizioni fossero gia’ vigenti nel diritto nazionale il 17 luglio 1998”.
4.2. Nella originaria versione l’articolo 47 della predetta L. n. 428 del 1990 stabiliva, al comma 5, una disciplina speciale tanto per le aziende o unita’ produttive per le quali fosse stato accertato “lo stato di crisi aziendale a norma della L. 12 agosto 1977, n. 675, articolo 2, comma 5, lettera c) “quanto per le imprese nei cui confronti fossero in atto procedure concorsuali liquidative nel corso delle quali la continuazione dell’attivita’ non fosse stata disposta o fosse cessata (testualmente: “imprese nei confronti delle quali vi sia stata dichiarazione di fallimento, omologazione di concordato preventivo consistente nella cessione dei beni, emanazione del provvedimento di liquidazione coatta amministrativa ovvero di sottoposizione ad amministrazione straordinaria, nel caso in cui la continuazione dell’attivita’ non sia stata disposta o sia cessata”).
Secondo il comma 5 dell’epoca, in presenza di tali ipotesi, ove nel corso delle consultazioni sindacali “sia stato raggiunto un accordo circa il mantenimento anche parziale dell’occupazione”, “ai lavoratori il cui rapporto di lavoro continua con l’acquirente non trova applicazione l’articolo 2112 c.c., salvo che dall’accordo risultino condizioni di miglior favore”.
4.3. Come e’ noto, su richiesta della Commissione delle Comunita’ Europee, la Corte di Giustizia (sent. 11.6.2009, C-561/07), all’esito della procedura di infrazione, ha affermato che, mantenendo in vigore le disposizioni di cui alla L. n. 428 del 1990, articolo 47, commi 5 e 6, in caso di “crisi aziendale” a norma della L. n. 675 del 1977, articolo 2, comma 5, lettera c), la Repubblica italiana e’ venuta meno agli obblighi si di essa incombenti in forza della Direttiva 2001/23/CE.
Con tale sentenza, per quanto di rilievo nella presente sede, e’ stato affermato che “il fatto che un’impresa sia dichiarata in situazione di crisi ai sensi della L. n. 675 del 1977 non puo’ implicare necessariamente e sistematicamente variazioni sul piano dell’occupazione ai sensi dell’articolo 4, n. 1, della direttiva 2001/23”; “la procedura di accertamento dello stato di crisi aziendale non puo’ necessariamente e sistematicamente rappresentare un motivo economico, tecnico o d’organizzazione che comporti variazioni sul piano dell’occupazione ai sensi dell’articolo 4, n. 1, della suddetta direttiva”. Dunque, lo stato di crisi aziendale non costituisce in se’ motivo economico per riduzione dell’occupazione, ne’ costituisce in se’ ragione di deroga al principio generale secondo cui il trasferimento di un’impresa o di parte di essa non e’ di per se’ motivo di licenziamento da parte del cedente o del cessionario, dovendo i licenziamenti essere giustificati da motivi economici, tecnici o d’organizzazione (punto 36).
Secondo la CGUE, l’articolo 5, n. 2, lettera a), della Direttiva 2001/23 consente agli Stati membri, a determinate condizioni, di non applicare talune delle garanzie di cui agli articoli 3 e 4 della direttiva stessa a un trasferimento di impresa laddove sia “aperta una procedura di insolvenza” e laddove “questa si trovi sotto il controllo di un’autorita’ pubblica competente”; diversamente, nel caso di trasferimento di un’impresa oggetto della procedura di accertamento dello stato di crisi, il procedimento “mira a favorire la prosecuzione dell’attivita’ dell’impresa nella prospettiva di una futura ripresa, non implica alcun controllo giudiziario o provvedimento di amministrazione del patrimonio dell’impresa e non prevede nessuna sospensione dei pagamenti”; il CIPI si limita a dichiarare lo stato di crisi di un’impresa e tale dichiarazione consente all’impresa di beneficiare temporaneamente della CIGS. Ne discende che “non puo’ ritenersi che la procedura di accertamento dello stato di crisi aziendale sia tesa ad un fine analogo a quello perseguito nell’ambito di una procedura di insolvenza…” (punti da 38 a 42).
E’ stato inoltre chiarito come, “ammesso che la situazione dell’impresa di cui sia stato accertato lo stato di crisi possa essere considerata come costituente una situazione di grave crisi economica”, l’articolo 5, n. 3, della Direttiva 2001/23 autorizzi gli Stati membri a prevedere che “le condizioni di lavoro possano essere modificate per salvaguardare le opportunita’ occupazionali garantendo la sopravvivenza dell’impresa, senza tuttavia privare i lavoratori dei diritti loro garantiti dagli articoli 3 e 4 della direttiva 2001/23” (punto 44).
Inoltre, secondo la sentenza in esame, “l’applicazione dell’articolo 5, n. 3, della direttiva 2001/23 e’ subordinata alla possibilita’ del controllo giudiziario della procedura in questione” ed il diritto delle parti di adire l’autorita’ giudiziaria competente nell’ipotesi di mancato rispetto della procedura prevista “non puo’ essere considerato come costitutivo del controllo giudiziario previsto dall’articolo citato, dal momento che quest’ultimo presuppone un controllo costante dell’impresa dichiarata in situazione di grave crisi economica da parte del giudice competente” (punto 45).
4.4. Alla stregua di tale ricognizione, la Corte di giustizia ha chiaramente distinto, agli effetti dell’interpretazione delle deroghe alle garanzie previste dagli articoli 3 e 4 della Direttiva, “la situazione dell’impresa di cui sia stato accertato lo stato di crisi”, il cui procedimento mira a favorire la prosecuzione dell’attivita’ dell’impresa nella prospettiva di una futura ripresa, rispetto alla situazione di imprese nei cui confronti siano in atto procedure concorsuali liquidative, rispetto alle quali la continuazione dell’attivita’ non sia stata disposta o sia cessata.
Per la prima categoria di imprese – alveo in cui e’ riconducibile la vicenda oggetto del presente giudizio, come e’ pacifico in giudizio e neppure controverso tra le parti – l’articolo 5, paragrafo 2, lettera b), cosi’ come richiamato dal paragrafo 3 della Direttiva 2001/23, autorizza gli Stati membri a prevedere che possano essere modificate “le condizioni di lavoro dei lavoratori intese a salvaguardare le opportunita’ occupazionali garantendo la sopravvivenza dell’impresa”, ma – secondo la Corte di Giustizia – “senza tuttavia privare i lavoratori dei diritti loro garantiti dagli articoli 3 e 4 della direttiva 2001/23”.
Alla luce di tale bipartizione della disciplina e degli effetti, la L. n. 428 del 1990, articolo 47, comma 5, e’ stato giudicato in contrasto con i principi della direttiva, in quanto priva “puramente e semplicemente” i lavoratori, in caso trasferimento di un’impresa di cui sia stato accertato lo stato di crisi, della garanzie previste dagli articoli 3 e 4 delle direttiva e “non si limita, di conseguenza, ad una modifica delle condizioni di lavoro, quale e’ autorizzata dall’articolo 5 n. 3 delle direttiva” (punto 45 della sentenza).
Quanto poi a cosa debba intendersi come “condizioni di lavoro”, la Corte di Giustizia ha nell’occasione ben precisato che esse non possono riguardare il diritto del lavoratore al trasferimento. “Poiche’ le norme della direttiva sono imperative nel senso che non e’ consentito derogarvi in senso sfavorevole ai lavoratori, i diritti e gli obblighi in capo al cedente risultanti da un contratto collettivo in essere alla data del trasferimento si trasmettono ipso iure al cessionario per il solo fatto del trasferimento (sentenza 9 marzo 2006, causa C-499-04, Werhof, punti 26 e 27). Ne discende che la modifica delle condizioni di lavoro autorizzata dall’articolo 5, n. 3, della direttiva 2001/23 presuppone che il trasferimento al cessionario dei diritti dei lavoratori abbia gia’ avuto luogo” (punto 46).
4.5. In base alle riferite indicazioni ermeneutiche, va condotta la lettura delle modifiche apportate alla L. n. 428 del 1990, articolo 47 dal Decreto Legge n. 135 del 2009, conv. in L. n. 166 del 2009, che, con l’articolo 19-quater, ha inserito, dopo il comma 4, il seguente comma 4-bis: “Nel caso in cui sia stato raggiunto un accordo circa il mantenimento, anche parziale, dell’occupazione, l’articolo 2112 del c.c. trova applicazione nei termini e con le limitazioni previste dall’accordo medesimo qualora il trasferimento riguardi aziende: a) delle quali sia stato accertato lo stato di crisi aziendale, ai sensi della L. 12 agosto 1977, n. 675, articolo 2, comma 5, lettera c); b) per le quali sia stata disposta l’amministrazione straordinaria, ai sensi del Decreto Legislativo 8 luglio 1999, n. 270, in caso di continuazione o di mancata cessazione dell’attivita’”.
Il comma 4-bis e’ inserito proprio “al fine di dare esecuzione alla sentenza di condanna emessa dalla Corte di giustizia delle Comunita’ Europee l’11 giugno 2009 nella causa C-561/07”, tanto che il medesimo articolo 19-quater, comma 1, lettera b) ha previsto la soppressione, all’articolo 47, comma 5, delle parole: “aziende o unita’ produttive delle quali il CIPI abbia accertato lo stato di crisi aziendale a norma della L. 12 agosto 1977, n. 675, articolo 2, comma 5, lettera c)”, con il contestuale inserimento delle aziende “delle quali sia stato accertato lo stato di crisi aziendale”, a norma di detta L. n. 675 del 1977, nella lettera a) del comma di nuovo conio; quindi il comma 4-bis appare destinato alle procedure non liquidative a differenza del comma 5 che invece presuppone la cessazione dell’attivita’ d’impresa o, comunque, la sua non continuazione, in simmetria con le deroghe consentite rispettivamente dal paragrafo 2 e dal paragrafo 1 dell’articolo 5 della Direttiva 2001/23/CE.
La diversita’ dei casi disciplinati dai due commi in successione non consente di attribuire all’inciso contenuto in entrambi – “nel caso in cui sia stato raggiunto un accordo circa il mantenimento anche parziale dell’occupazione” – la medesima valenza semantica, altrimenti non si registrerebbe alcuna differenza tra le ipotesi previste dal comma 4 bis e quelle del comma 5, in contrasto con la ratio della Direttiva e con l’esigenza manifesta di prestare ottemperanza alla condanna della Corte di Giustizia del 2009. Pertanto non si puo’ estrapolare l’inciso “anche parziale” per accreditare l’ipotesi che l’accordo sindacale possa disporre, in senso limitativo, dei trasferimenti dei lavoratori dell’impresa cedente, ove si tratti di azienda rientrante nell’ipotesi di cui al comma 4- bis. La suddetta complessiva locuzione esprime piuttosto il contesto di riferimento ed, essendo presente sia nel comma 4-bis sia nel comma 5, risulta in se’ non decisiva ai fini interpretativi, laddove il senso qui avversato ponga problemi di conformita’ al diritto dell’Unione.
Assume invece centralita’ dirimente l’espressione, di cui al comma 4-bis, secondo cui “trova applicazione” l’articolo 2112 c.c., diametralmente opposta a quella contenuta nel comma 5, secondo cui “non trova applicazione” l’articolo 2112 c.c..
Nel contesto dell’articolo 47, comma 5, in caso di trasferimento di imprese o parti di imprese il cui cedente sia oggetto di una procedura fallimentare o di una procedura di insolvenza analoga aperta in vista della liquidazione dei beni del cedente stesso, il principio generale e’ (per i lavoratori trasferiti alle dipendenze del cessionario) l’esclusione delle tutele di cui all’articolo 2112 c.c., salvo che l’accordo preveda condizioni di miglior favore; la regola e’ dunque l’inapplicabilita’, salvo deroghe.
Al contrario, nel comma 4-bis la regola e’ di ordine positivo (“trova applicazione”), per cui la specificazione “nei termini e con le limitazioni previste dall’accordo medesimo” non puo’ avere un significato sostanzialmente equivalente – con sovrapposizione di effetti – rispetto al comma 5, se non contraddicendo la ratio sottesa alla diversita’ testuale delle previsioni.
L’unica lettura coerente della legge risulta quella che si coordina con le indicazioni offerte dalla Corte di Giustizia, nel senso che gli accordi sindacali, nell’ambito di procedure di insolvenza aperte nei confronti del cedente sebbene non “in vista della liquidazione dei beni”, non possono disporre dell’occupazione preesistente al trasferimento di impresa. Tanto vero che solo nell’articolo 47, comma 5, “nel caso in cui la continuazione dell’attivita’ non sia stata disposta o sia cessata”, e’ previsto che gli accordi possano stabilire la non applicazione dell’articolo 2112 c.c. “… ai lavoratori il cui rapporto di lavoro continua con l’acquirente…” (con il che ammettendo esplicitamente che vi siano rapporti di lavoro che non continuano con l’acquirente), mentre espressioni analoghe, che alludano alla possibilita’ dell’accordo di limitare il trasferimento dei lavoratori dell’azienda cedente, non si rinvengono nel comma 4-bis, al di fuori del gia’ detto inciso di esordio circa il mantenimento “anche parziale” dell’occupazione. Ne’ l’assenza di tale previsione puo’ essere recuperata – in contrasto con il criterio logico-sistematico e con l’intenzione del legislatore di dare attuazione alla sentenza della Corte di Giustizia – attraverso la specificazione “nei termini e con le limitazioni previste dall’accordo”, accordo che deve riguardare “le condizioni di lavoro” ma non la continuita’ dei rapporti di lavoro con la cessionaria.
Come detto, infatti, l’articolo 5, n. 3, della Direttiva, che richiama il paragrafo 2, lettera b) dello stesso articolo 5, autorizza gli Stati membri a prevedere, secondo la lettura offerta dalla Corte di Giustizia, che “le condizioni di lavoro possano essere modificate per salvaguardare le opportunita’ occupazionali garantendo la sopravvivenza dell’impresa, senza tuttavia privare i lavoratori dei diritti loro garantiti dagli articoli 3 e 4 della direttiva 2001/23”.
4.6. Deve ritenersi, dunque, che, a fronte di espressioni generiche, le quali possano condurre a risultati interpretativi diversi, deve essere privilegiato il significato conforme al diritto dell’Unione e alla interpretazione che dello stesso fornisce la CGUE, che, peraltro, nel caso di specie e’ anche piu’ coerente con l’interpretazione logico-sistematica e con la voluntas legis, per cui l’accordo con le organizzazioni sindacali raggiunto ai sensi della L. n. 428 del 1990, articolo 47, comma 4-bis, a differenza di quello raggiunto ai sensi del comma 5 dello stesso articolo, non consente di incidere sulla continuita’ del rapporto di lavoro, in quanto la deroga all’articolo 2112 c.c. cui il comma 4-bis si riferisce puo’ riguardare esclusivamente le “condizioni di lavoro”, nel contesto di un rapporto di lavoro comunque trasferito.
4.7. Ulteriori elementi testuali portano ad escludere la possibilita’ che l’accordo sindacale di cui al comma 4-bis possa disporre in senso limitativo del diritto al trasferimento dei rapporti di lavoro. Infatti solo l’articolo 47, comma 5, ultima parte, contempla l’ipotesi che l’accordo sindacale possa “prevedere che il trasferimento non riguardi il personale eccedentario e che quest’ultimo continui a rimanere, in tutto o in parte, alle dipendenze dell’alienante”; il successivo comma 6 prevede poi, per i lavoratori non destinatari del trasferimento alle dipendenze dell’acquirente, il diritto di precedenza nelle assunzioni che l’acquirente intendesse effettuare entro un anno dalla data del trasferimento ovvero entro il periodo maggiore stabilito dagli accordi collettivi. Trova cosi’ conferma, anche per questo verso, che il legislatore ha inteso limitare ai soli casi di procedure concorsuali liquidative nel corso della quali non sia stata disposta o sia cessata l’attivita’ la deroga al generale principio della continuita’ dei rapporti di lavoro di tutti i dipendenti addetti all’azienda trasferita, consentendo ai sindacati di concordare il numero dei lavoratori il cui rapporto prosegua con l’acquirente e prevedendo, al contempo, che vi siano lavoratori eccedentari esclusi dal trasferimento che restano alle dipendenze dell’acquirente. Ritenere che anche il comma 4-bis consenta tale eventualita’, da parte dell’accordo sindacale, di derogare al principio di continuita’, costituirebbe una indebita estensione interpretativa di una previsione testualmente riferita alle ipotesi disciplinate dal comma 5.
In definitiva, il comma 4-bis ammette solo modifiche, eventualmente anche in peius, all’assetto economico-normativo in precedenza acquisito dai singoli lavoratori, ma non autorizza una lettura che consenta anche la deroga al passaggio automatico dei lavoratori all’impresa cessionaria.
4.8. Ai fini interpretativi e come ulteriore avallo della soluzione accolta, giova anche richiamare la recente sentenza del 16 maggio 2019 – C-509/17 – con cui la CGUE ha ribadito che, poiche’ l’articolo 5, paragrafo 1, della Direttiva 2001/23 rende, in linea di principio, inapplicabile il regime di tutela dei lavoratori in determinati casi di trasferimento di imprese e si discosta dall’obiettivo principale alla base di tale direttiva, esso deve necessariamente essere oggetto di una interpretazione restrittiva (punto 38, che richiama la sentenza del 22 giugno 2017, Federatie Nederlandse Vakvereniging C-126/16, punto 41).
A tale riguardo, la Corte di Lussemburgo ha dichiarato che l’articolo 5, par. 1, richiede che il trasferimento soddisfi i tre requisiti cumulativi fissati dalla citata disposizione, vale a dire che il cedente sia oggetto di una procedura fallimentare o di una procedura di insolvenza analoga, che questa procedura sia stata aperta al fine di liquidare i beni del cedente e che si svolga sotto il controllo di un’autorita’ pubblica competente (punto 40, nonche’ sentenza del 22 giugno 2017, cit., punto 44). Per quanto riguarda il requisito secondo il quale la procedura deve essere aperta ai fini della liquidazione dei beni del cedente, non soddisfa tale requisito una procedura che miri al proseguimento dell’attivita’ dell’impresa interessata (punto 44, che richiama la predetta sentenza dal 22 giugno 2017, punto 47 e la giurisprudenza ivi citata). Ove non ricorrano tali condizioni, gli articoli 3 e 4 della Direttiva 2001/23 restano applicabili.
Esaminando dunque il caso della legislazione belga, secondo cui il concessionario ha il diritto di scegliere i lavoratori che intende riassumere, la Corte ha concluso che la Direttiva 2001/23/CE, e segnatamente gli articoli da 3 a 5, deve essere interpretata nel senso che osta ad una legislazione nazionale, la quale, in caso di trasferimento di un’impresa intervenuto nell’ambito di una procedura di riorganizzazione giudiziale mediante trasferimento soggetto a controllo giudiziario, applicata al fine di conservare in tutto o in parte l’impresa cedente o le sue attivita’, prevede, per il cessionario, il diritto di scegliere i lavoratori che intende riassumere.
4.9. Alla stregua di tutte le argomentazioni esposte, deve escludersi che si versi in una situazione di impossibilita’ di procedere ad una interpretazione della norma interna compatibile con quella dell’Unione, essendo il rinvio pregiudiziale non necessario quando -come nella specie- l’interpretazione della norma comunitaria sia autoevidente o il senso della stessa sia stato gia’ chiarito da precedenti pronunce della Corte di giustizia (Cass., sez. un., 24 maggio 2007, n. 12067; v. pure Cass. n. 15041 del 2017 e n. 14828 del 2018) e la norma interna sia tale da potere essere interpretata in conformita’ al diritto dell’Unione.
L’obbligo di interpretazione conforme impone di ritenere che il legislatore del 2009, attraverso il comma 4-bis, abbia inteso riconoscere alle parti negoziali la possibilita’ di derogare all’articolo 2112 c.c., ma che tale deroga contenga un limite implicito, costituito dalle norme della Direttiva 2001/23/CE nonche’ dai criteri interpretativi e dai principi fissati dalla Corte di Giustizia.
4.10. Da ultimo rileva il Collegio che il Decreto Legislativo 12 gennaio 2019, n. 14 (“Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza in attuazione della L. 19 ottobre 2017, n. 155”; G.U. n. 38 del 14.2.2019, che entrera’ in vigore il 1.9.2021) all’articolo 368, comma 4, lettera b), ha disposto la sostituzione del comma 4-bis con il seguente: “4-bis. Nel caso in cui sia stato raggiunto un accordo, nel corso delle consultazioni di cui ai precedenti commi, con finalita’ di salvaguardia dell’occupazione, l’articolo 2112 c.c., fermo il trasferimento al cessionario dei rapporti di lavoro, trova applicazione, per quanto attiene alle condizioni di lavoro, nei termini e con le limitazioni previste dall’accordo medesimo, da concludersi anche attraverso i contratti collettivi di cui al Decreto Legislativo 15 giugno 2015, n. 81, articolo 51, qualora il trasferimento riguardi aziende: a) per le quali vi sia stata la dichiarazione di apertura della procedura di concordato preventivo in regime di continuita’ indiretta, ai sensi dell’articolo 84, comma 2, del codice della crisi e dell’insolvenza, con trasferimento di azienda successivo all’apertura del concordato stesso; b) per le quali vi sia stata l’omologazione degli accordi di ristrutturazione dei debiti, quando gli accordi non hanno carattere liquidatorio; c) per le quali e’ stata disposta l’amministrazione straordinaria, ai sensi del Decreto Legislativo 8 luglio 1999, n. 270, in caso di continuazione o di mancata cessazione dell’attivita’”.
Il medesimo articolo 368, al comma 4, lettera c), ha disposto la sostituzione dell’articolo 47, comma 5 con il seguente: “5. Qualora il trasferimento riguardi imprese nei confronti delle quali vi sia stata apertura della liquidazione giudiziale o di concordato preventivo liquidatorio, ovvero emanazione del provvedimento di liquidazione coatta amministrativa, nel caso in cui la continuazione dell’attivita’ non sia stata disposta o sia cessata, i rapporti di lavoro continuano con il cessionario. Tuttavia, in tali ipotesi, nel corso delle consultazioni di cui ai precedenti commi, possono comunque stipularsi, con finalita’ di salvaguardia dell’occupazione, contratti collettivi ai sensi del Decreto Legislativo 15 giugno 2015, n. 81, articolo 51, in deroga all’articolo 2112 c.c., commi 1, 3 e 4; resta altresi’ salva la possibilita’ di accordi individuali, anche in caso di esodo incentivato dal rapporto di lavoro, da sottoscriversi nelle sedi di cui all’articolo 2113 c.c., u.c.”.
Il legislatore del Codice della crisi, espunto l’equivoco inciso precedente sul “mantenimento anche parziale dell’occupazione” e ribadito come “fermo il trasferimento al cessionario dei rapporti di lavoro”, ha cosi’ piu’ esplicitamente inteso recepire, meglio conformando il futuro dettato normativo, l’unica lettura del comma 4-bis che questa Corte ritiene gia’ percorribile in via ermeneutica anche per il passato, qUale unica “interpretazione conforme” al diritto dell’Unione, per cui va respinta la tesi, sostenuta in giudizio da (OMISSIS) SAI, secondo cui la disciplina citata avrebbe carattere radicalmente innovativo.
4.11. Infine opportuno evidenziare che per la prima volta giunge all’attenzione di questa Corte l’interpretazione della L. n. 428 del 1990, articolo 47, comma 4-bis, per cui non puo’ assumere rilievo il richiamo, negli atti di giudizio della societa’ cessionaria, alle sentenze di questa Corte (Cass. n. 1383 del 2018 e le precedenti ivi richiamate, cosi’ come le successive Cass. nn. 5370, 7061 e 31946 del 2019) che hanno riguardato l’interpretazione del medesimo articolo 47, comma 5.
4.12. La Corte di appello con la sentenza impugnata ha adottato una soluzione in linea con l’interpretazione qui accolta e quindi resta immune dalla censure che le sono state mosse.
In ogni caso, ai sensi dell’articolo 384 c.p.c., comma 1, venendo risolta una questione di diritto di particolare importanza, in funzione nomofilattica va enunciato il seguente principio di diritto:
“In caso di trasferimento che riguardi aziende delle quali sia stato accertato lo stato di crisi aziendale, ai sensi della L. 12 agosto 1977, n. 675, articolo 2, comma 5, lettera c), ovvero per le quali sia stata disposta l’amministrazione straordinaria, in caso di continuazione o di mancata cessazione dell’attivita’, ai sensi del Decreto Legislativo 8 luglio 1999, n. 270, l’accordo sindacale di cui alla L. 29 dicembre 1990, n. 428, articolo 47, comma 4-bis, inserito dal Decreto Legge n. 135 del 2009, conv. in L. n. 166 del 2009, puo’ prevedere deroghe all’articolo 2112 c.c. concernenti le condizioni di lavoro, fermo restando il trasferimento dei rapporti di lavoro al cessionario”.
5. Conclusivamente i ricorsi delle societa’ vanno respinti, con spese che seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo, con attribuzione agli Avvocati (OMISSIS) e (OMISSIS) dichiaratisi antistatari.
Occorre altresi’ dare atto della sussistenza dei presupposti processuali di cui al Decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2002, articolo 13, comma 1 quater, come modificato dalla L. n. 228 del 2012, articolo 1, comma 17.

P.Q.M.

La Corte rigetta i ricorsi e condanna e condanna le ricorrenti, in solido, al pagamento delle spese liquidate in Euro 5.000,00, oltre Euro 200,00 per esborsi, accessori secondo legge e spese generali al 15%, con attribuzione.
Ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2002, articolo 13, comma 1 quater, da’ atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte delle ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del cit. articolo 13, comma 1 bis, se dovuto.

 

In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.

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