Illecito civile ed interruzione del nesso di causalità

Corte di Cassazione, civile, Ordinanza|7 luglio 2022| n. 21563.

Illecito civile ed interruzione del nesso di causalità

Con riguardo all’illecito civile, si ha interruzione del nesso di causalità soltanto quando la causa sopravvenuta (che può identificarsi anche con la condotta dello stesso danneggiato) sia da sola sufficiente a provocare l’evento, in quanto autonoma, eccezionale ed atipica rispetto alla serie causale già in atto, sì da assorbire sul piano giuridico ogni diverso antecedente causale e ridurlo al ruolo di semplice occasione. (Nella specie, la S.C. ha confermato la decisione di merito, la quale aveva ritenuto che il ritardo del danneggiato nella predisposizione di reti a tutela del prodotto ittico perduto si ponesse all’interno della stessa serie causale determinata dalla intensificazione della presenza di uccelli predatori originata dalla istituzione di un parco e dalla mancata adozione, da parte dell’ente di gestione, di adeguati sistemi di cattura dei volatili).

Ordinanza|7 luglio 2022| n. 21563. Illecito civile ed interruzione del nesso di causalità

Data udienza 6 dicembre 2021

Integrale

Tag/parola chiave: Tutela fauna e flora – Istituzione Ente Parco Regionale del Fiume Sile – Pesca ed acquacoltura – Danno cagionato da fauna selvatica – Proliferazione di uccelli ittiofagi – Perdita di prodotto ittico – Violazione LR Veneto 28/1981

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Presidente

Dott. RUBINO Lina – Consigliere

Dott. SCRIMA Antonietta – Consigliere

Dott. GUIZZI Stefano Giaime – rel. Consigliere

Dott. GORGONI Marilena – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA
sul ricorso 33343/2018 proposto da:
(OMISSIS), (OMISSIS), elettivamente domiciliati in (OMISSIS), presso lo studio dell’Avvocato (OMISSIS), che li rappresenta e difende;
– ricorrenti –
contro
ENTE PARCO REGIONALE DEL FIUME SILE, in persona del Commissario straordinario (OMISSIS), elettivamente domiciliato in (OMISSIS), presso lo studio dell’Avvocato (OMISSIS), che lo rappresenta e difende, unitamente all’Avvocato (OMISSIS);
– controricorrente e ricorrente incidentale –
avverso la sentenza n. 894/2018 della Corte di Appello di VENEZIA, depositata l’11/04/2018;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 06/12/2021 dal Consigliere Dott. STEFANO GIAIME GUIZZI.

Illecito civile ed interruzione del nesso di causalità

FATTI DI CAUSA

1. (OMISSIS) ed (OMISSIS) (la prima per il tramite del secondo, in forza di procura generale allo stesso conferita, per atto notarile del 27 aprile 2001), ricorrono, sulla base di cinque motivi, per la cassazione della sentenza n. 894/18, dell’I 1 aprile 2018, della Corte di Appello di Venezia, che – accogliendo parzialmente il gravame esperito dall’Ente Parco Regionale del fiume (OMISSIS) (d’ora in poi, “Ente Parco”) avverso la sentenza non definitiva n. 549/11 e la sentenza definitiva n. 1354/14 del Tribunale di Venezia, rigettando, invece, l’appello incidentale del (OMISSIS) – ha condannato l’Ente Parco a risarcire ai predetti (OMISSIS) e (OMISSIS). Il danno cagionato da fauna selvatica protetta alla loro attivita’ di ittiocoltura, pregiudizio identificato nella sola perdita di prodotto ittico (con esclusione, dunque, di ogni altra voce) e quantificato nella minore somma di 76.259,00, oltre interessi dalla data della CTU al saldo, in luogo di quella di 385.160,95 liquidata dal primo giudice, ordinando ai predetti, per l’effetto, di restituire la differenza tra quanto percepito in esecuzione della sentenza del Tribunale e quanto ad essi effettivamente spettante in forza della decisione di appello.
2. Riferiscono, in punto di fatto, gli odierni ricorrenti di aver instaurato nei confronti dell’Ente Parco, ormai quasi un quarto di secolo fa, il presente contenzioso giudiziario, articolatosi in numerosi passaggi processuali, essendosi inizialmente dubitato – da parte delle adite autorita’ giudiziarie di merito – della stessa giurisdizione del giudice ordinario.
La (OMISSIS) e il (OMISSIS), difatti, con citazione notificata il 30 agosto 1997, nelle rispettive qualita’ di titolare e gestore di un’azienda agricola sita nel territorio dell’Ente Parco, ebbero a convenire in giudizio davanti al Tribunale di Venezia oltre all’Ente Parco, l’amministrazione provinciale di Treviso, la Regione Veneto, la Presidenza del Consiglio dei Ministri ed il Ministero dell’Ambiente, chiedendone la condanna al pagamento di somme di danaro come risarcimento dei danni subiti, giacche’ con l’istituzione del Parco, avvenuta nel 1991, si era moltiplicata la presenza – non adeguatamente contrastata – di uccelli ittiofagi che assaltavano le specie ittiche coltivate.

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In particolare, gli allora attori assumevano che l’Ente Parco fosse venuto meno alle disposizioni della legge istitutiva dell’area protetta (Legge Regionale Veneto 28 gennaio 1981, n. 28), le quali prescrivevano – segnatamente, all’articolo 13, comma 4 – che, in caso di eccessive concentrazioni della fauna selvatica, tali da determinare grave pregiudizio alle colture ed alla piscicoltura, l’Ente fosse obbligato a ripristinare l’equilibrio naturale, mediante cattura degli animali con strumenti selettivi. La pretesa risarcitoria, dunque, era azionata sul presupposto, innanzitutto, di tale condotta omissiva, lamentando, inoltre, parte attrice di essere stata ostacolata nel tentativo di predisporre sistemi di difesa mediante reti protettive delle vasche di coltura.
A fondamento della proposta domanda essi invocavano la previsione di cui della L. 6 dicembre 1991, n. 394, articolo 15 (Legge quadro sulle aree protette), che obbliga l’Ente Parco ad indennizzare i danni provocati da fauna selvatica, in orni caso chiedendo, tuttavia, che la responsabilita’ delle amministrazioni pubbliche convenute fosse affermata anche nella loro qualita’ di proprietarie/custodi del Parco, ovvero, in via di ulteriore subordine, che il ristoro dei pregiudizi subiti fosse accordato ai sensi dell’articolo 28 della legge regionale del Veneto 9 dicembre 1993, n. 50 (Norme per la protezione della fauna selvatica e il prelievo venatoro), che prevede il risarcimento dei danni prodotti dalla fauna selvatica. Danni, peraltro, che gli attori identificavano non nella sola perdita del prodotto ittico (a causa sia delle predazioni degli uccelli ittiofagi, sia delle malattie cagionate dalle loro deiezioni in acqua, oltre che dal ruolo di “vettore” di malattie infettive svolto dai pennuti, nel trasferirsi da un bacino all’altro), ma pure nei costi sopportati, tanto per realizzare vasche interrate in calcestruzzo sopra le quali posizionare le reti antiuccello, quanto per il maggior impiego di manodopera presso l’impianto. Assumevano, infatti, che le caratteristiche dei nuovi manufatti – estesi, oltretutto, lungo un’area di venticinquemila metri quadrati – rendevano impossibile utilizzare l’alimentatore automatico per la distribuzione del mangime, allungavano i tempi di cattura del pesce e di pulizia delle vasche e precludevano, infine, il taglio dell’erba attraverso strumenti totalmente meccanizzati.
L’Ente Parco, la Provincia di Treviso e la Regione Veneto si costituivano in giudizio, chiedendo il rigetto della domanda, sostenendo, tra l’altro, che, nella materia, si verteva in tema d’interessi legittimi, con conseguente difetto di giurisdizione del giudice ordinario.
Tale eccezione veniva accolta dall’adito Tribunale, con decisione confermata dal giudice di appello, la cui pronuncia, tuttavia, era cassata da questa Corte (sentenza 24 settembre 2004, n. 19200), che dichiarava essere del giudice ordinario, invece, il potere di “ius dicere”.

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Rinviata la causa alla Corte lagunare, essa – con sentenza n. 611 del 2007 – rimetteva al stessa al Tribunale di Venezia, ex articolo 353 c.p.c..
Riassunto, pertanto, il giudizio innanzi a quest’ultimo (con citazione dell’8 gennaio 2008), la causa veniva istruita anche attraverso lo svolgimento di una CTU, dalla quale emergeva -evidenziano gli odierni ricorrenti – come l’istituzione dell’Ente Parco avesse portato ad un nuovo assetto dell’avifauna presente all’interno dell’area protetta, determinando un aumento sproporzionato delle specie ittiofagie, sicche’, su tali basi, il giudice di prime cure, con la gia’ ricordata sentenza non definitiva n. 549 del 2011, “accoglieva nell’an la domanda”. Si faceva luogo, pertanto, ad una seconda consulenza, questa volta di natura puramente contabile, per “compiere un approfondimento istruttorio” – sottolineano sempre i ricorrenti – “volto alla quantificazione del danno sofferto da parte attrice”. All’esito di tale incombente, il Tribunale senza minimamente considerare, secondo gli odierni ricorrenti, diversi profili di nullita’ della seconda CTU, nonche’ “la totale inadeguatezza e inaffidabilita’ dei risultati” della stessa – liquidava il danno, con la sentenza definitiva n. 1354/14, nell’importo di 385.160,95 (a fronte della richiesta attorea di 4.622.894,49).
Esperivano gravame, in via di principalita’, l’Ente Parco, per chiedere l’integrale rigetto della domanda risarcitoria, nonche’, in via incidentale, il (OMISSIS). Costui, in particolare, lamentava – coni il primo motivo del proprio atto di appello – la nullita’ della CTU e l’assenza di motivazione in ordine all’eccepita nullita’, nonche’, con il secondo motivo, il difetto di integralita’ del risarcimento, sia in relazione alla quantificazione del danno da perdita del prodotto ittico (e al mancato riconoscimento degli interessi compensativi sulla somma liquidata), sia in relazione al denegato ristoro delle ulteriori voci di danno gia’ rappresentate. Ovvero, quelle costituite tanto dalle spese sostenute per la protezione delle vasche dalle predazioni degli uccelli, quanto dai maggior costi di manodopera conseguenti alla realizzazione delle vasche interrate.
Il giudice di appello – nella contumacia della (OMISSIS) -accoglieva in parte il gravame principale (riducendo ulteriormente l’importo del danno da perdita del prodotto ittico) e rigettava quello incidentale.
3. Ha resistito all’avversaria impugnazione, con controricorso, l’Ente Parco, chiedendone la declaratoria di inammissibilita’ ovvero, in subordine, il rigetto, nonche’ esperendo, con il medesimo atto, ricorso incidentale, sulla base di tre motivi, l’ultimo dei quali proposto in via incidentale condizionata.
4. Entrambe le parti hanno depositato memoria.

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RAGIONI DELLA DECISIONE

5. Ambedue i ricorsi vanno rigettati, per le ragioni di seguito illustrate.
5.1. Con il primo motivo i ricorrenti in via principale denunciano -ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – “violazione della L. n. 394 del 1991, articolo 15”.
Censurano la sentenza impugnata per aver affermato -richiamando la decisione con cui questa Corte (sentenza 10 maggio 2006, n. 10803) ebbe a rigettare una diversa domanda risarcitoria del (OMISSIS), sempre contro l’Ente Parco – che il principio posto alla base di detta pronuncia, ossia che l’interesse preminente da tutelare e’ quello della protezione dell’ambiente naturale, vale pure per il presente giudizio.
In questo modo, tuttavia, la Corte territoriale avrebbe confuso la previsione di cui della L. 6 dicembre 1991, n. 394, articolo 15, comma 2 (su cui si era pronunciata questa Corte con la citata sentenza, relativa agli indennizzi “espropriativi”, asseritarnente dovuti per il solo fatto dell’inclusione di un fondo all’interno di un parco naturale), con quella di cui al comma 3 della stessa legge, concernente, invece, gli indennizzi dovuti per la proliferazione di uccelli ittiofagi a seguito dell’istituzione di un parco naturale.
Le considerazioni svolte da questa Corte nella richiamata pronuncia – che ha negato la ricorrenza, nella specie, di una fattispecie sostanzialmente espropriativa, in assenza della previsione di vincoli di inedificabilita’, sottolineando, inoltre, la necessita’ di bilanciare la liberta’ d’impresa ex articolo 41 Cost., con provvedimenti legislativi intesi alla tutela dell’ambiente – nuIlla avrebbero a che fare con il caso che qui occupa.
Inoltre, la Corte lagunare, nel fare riferimento ad esse (e in particolare, svolgendo il rilievo secondo cui il vincolo paesaggistico, costituendo ricognizione di caratteristiche “originarie” del bene, obbliga l’imprenditore a provvedere a sue sole spese ai maggiori oneri da esso derivanti), sarebbe pervenuta a un’interpretazione sostanzialmente abrogativa della norma di cui alla L. n. 394 del 1991, articolo 15, comma 3, di fatto accreditando la tesi che sono le caratteristiche “originarie” del fondo, in quanto incluso in area protetta, ad aver determinato il pregiudizio, e non – al pari di quanto ritenuto per i “vincoli” di cui del medesimo articolo 15, comma 2 – la “fauna selvatica”.

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Di qui, dunque, la denunciata violazione di legge, la cui “decisivita’” non potrebbe essere revocata in dubbio, visto che la stessa sentenza impugnata, per sua stessa ammissione, “colloca tale erronea conclusione tra “i principi generali” utili a fini decisori”.
5.1.1. Il motivo e’ inammissibile, per difetto di specificita’.
I ricorrenti non chiariscono in quale misura l’affermazione contenuta nella sentenza impugnata (per vero, neppure compiutamente identificata nell’illustrazione del motivo), secondo cui “il principio della liberta’ di iniziativa economica e di liberta’ nell’esercizio dell’attivita’ imprenditoriale” deve “essere bilanciato con l’utilita’ sociale e sottostare ai provvedimenti legislativi non irragionevolmente intesi al governo del territorio ed alla tutela dell’ambiente”, sicche’ anche nella liquidazione dell’indennizzo della L. n. 394 del 1991, ex articolo 15, “l’interesse principale da tutelare e’ quello della protezione dell’ambiente naturale”, abbia, in concreto, influito sulla decisione della Corte territoriale ch ridimensionare la sola voce di danno (quella da perdita di prodotto ittico) gia’ riconosciuta dal primo giudice.
Il motivo, in altri termini, non chiarisce – ne’, tantomeno, censura – le ragioni dell’incidenza che tale affermazione avrebbe avuto rispetto alla scelta di liquidare in 76.259,00 (in luogo degli originari 385.160,95) il danno suddetto; scelta, peraltro, che il giudice di appello ha espressamente motivato sulla base di altre considerazioni, e segnatamente con il ritardo dell’azienda agricola nell’adozione di interventi efficaci contro gli uccelli ittiofagi, essendo gli stessi iniziati solo nel 1995 – ben quattro anni dopo l’istituzione del Parco – e conclusi nel 2002; tanto che contro l’effettiva “ratio decidendi”, che ha sorretto tale scelta, i ricorrenti hanno inteso articolare i motivi secondo e terzo di ricorso.

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Il primo motivo, dunque, difetta di specificita’, atteso che “l’onere di specificita’ dei motivi, sancito dall’articolo 366 c.p.c., comma 1, n. 4), impone al ricorrente che denunci il vizio di cui all’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3), a pena d’inammissibilita’ della censura”, non solo “di indicare le norme di legge di cui intende lamentare la violazione” (cio’ che nella specie e’ avvenuto), ma anche “di esaminarne il contenuto precettivo e di raffrontarlo con le affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata, che e’ tenuto espressamente a richiamare, al fine di dimostrare che queste ultime contrastano col precetto normativo” (cfr. Cass. Sez. Un., sent. 28 ottobre 2020, n. 23745, Rv. 659448-01), confrontandosi sempre con l’effettivo “decisum” che sorregge la sentenza impugnata. Difatti, il motivo di impugnazione “e’ rappresentato dall’enunciazione, secondo lo schema normativo con cui il mezzo e’ regolato dal legislatore, della o delle ragioni per le quali, secondo chi esercita il diritto d’impugnazione, la decisione e’ erronea, con la conseguenza che, in quanto per denunciare un errore bisogna identificarlo e, quindi, fornirne la rappresentazione, l’esercizio del diritto d’impugnazione di una decisione giudiziale puo’ considerarsi avvenuto in modo idoneo soltanto qualora i motivi con i quali e’ esplicato si concretino in una critica della decisione impugnata e, quindi, nell’esplicita e specifica indicazione delle ragioni per cui essa e’ errata, le quali, per essere enunciate come tali, debbono concretamente considerare le ragioni che la sorreggono e da esse non possono prescindere, dovendosi, dunque, il motivo che non rispetti tale requisito considerarsi nullo per inidoneita’ al raggiungimento dello scopo”, sicche’, in riferimento al ricorso per Cassazione “tale nullita’, risolvendosi nella proposizione di un “non motivo”, e’ espressamente sanzionata con l’inammissibilita’ ai sensi dell’articolo 366 c.p.c., n. 4)” (cosi’ Cass. Sez. 3, sent. 11 gennaio 2005, n. 359, Rv. 57956401; in senso analogo anche Cass. Sez. 3, sent. 31 agosto 2015, 17330, Rv. 636872-01, nonche’, in motivazione, Cass. Sez. Un., sent. 20 marzo 2017, n. 7074, non massimata sul punto; conforme anche Cass. Sez. 1, ord. 24 settembre 2018, n. 22478, Rv. 650919-01).
5.2. Il secondo motivo del ricorso principale e’ da sc:rutinare congiuntamente al primo del ricorso incidentale.
5.2.1. Con il secondo motivo i ricorrenti in via principale denunciano – ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – “violazione dell’articolo 1227 c.c.”.

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Censurano l’affermazione contenuta nella sentenza impugnata secondo cui “la condotta omissiva del (OMISSIS) non potra’ non rilevare, sotto il profilo dell’articolo 1227 c.c., in punto di quantificazione del danno”. Tale conclusione, proseguono i ricorrenti, viene argomentata sul rilievo che “l’istituzione di aree protette ha – in parte – favorito l’aumento di specie di uccelli ittiofagi”, ma “per altro verso proprio l’attivita’ di itticoltura non adeguatamente protetta con reti idonee ha determinato un incremento in special modo di aironi che, in quanto uccelli opportunisti, danneggiavano l’attivita’ di allevamento: dunque proprio le modalita’ di esercizio della troticoltura della famiglia (OMISSIS) erano – in parte – causa del danno subito”.
In questo modo, tuttavia, la sentenza impugnata non avrebbe ne’ compreso i termini della vicenda, ne’ fatto buon governo dell’articolo 1227 c.c.. Ad avviso dei ricorrenti, a prescindere dal “non preciso lessico utilizzato dalla decisione”, la sentenza impugnata avrebbe inteso riferirsi alla previsione dell’articolo 1227 c.c., comma 2, come sarebbe dato desumere dal fatto che essa, mentre riconosce che l’istituzione di aree protette ha favorito l’aumento di specie di uccelli ittiofagi, poi precisa che l’asserito incremento degli aironi ha inciso solo sul dato quantitativo, ma non sulla produzione dell’evento dannoso.
La conclusione relativa al “colpevole ritardo”, addebitato agli odierni ricorrenti nell’istallare le reti, non terrebbe conto, per un verso, che l’azienda (OMISSIS) era stata ostacolata nel tentativo di predisporle, e, per altro verso, che la “causa petenda” della pretesa risarcitoria – del tutto dimenticata dalla Corte lagunare – si correlava alla violazione, da parte dell’Ente Parco, dell’obbligo di procedere alla cattura degli animali con strumenti selettivi, nell’ipotesi (verificatasi nella vicenda che occupa) di eccessiva concentrazione della fauna selvatica, tale da determinare grave pregiudizio alle culture e alla piscicoltura, come previsto dalla Legge Regionale Veneto n. 8 del 1991, articolo 13, comma 4.

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In ogni caso, ricorrerebbe violazione dell’articolo 1227 c.c., comma 2, anche sotto un diverso profilo, perche’ l’installazione delle reti costituiva attivita’ (e comportava una spesa) del tutto straordinaria, e comunque particolarmente onerosa, considerata la dimensione – venticinquemila metri quadrati – dell’area da coprire, il che escludeva la possibilita’ applicare tale norma, visto che essa impone al danneggiato di attivarsi per evitare l’aggravamento delle conseguenze dannose, ma solo nei limiti dell’ordinaria diligenza.
5.2.2. Con il primo motivo il ricorrente incidentale Ente Parco, a propria volta, denuncia – ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – “violazione degli articoli 2, 9 e 41 Cost., della Legge Regionale Veneto n. 8 del 1991, articoli 1 e segg., L. n. 394 del 1991, articolo 15, articoli 1176, 1227, 2042 e 2056 c.c..
Censura la sentenza impugnata in quanto la Corte di merito avrebbe violato il principio causalistico, secondo cui, ove l’intero evento lesivo sia conseguenza del comportamento colposo del danneggiato, risulta interrotto il nesso di causalita’ con le possibili cause precedenti. Infatti, quantunque abbia ravvisato una colpevole condotta omissiva dell’azienda (che ha installato le reti con notevole ritardo, iniziando i lavori solo nel 1995 e terminandoli nella 2002, cosi’ mancando di adottare le cautele che le avrebbero consentito di evitare il danno), ha ritenuto ugualmente sussistente la responsabilita’ dell’ente Parco.
5.2.3. Entrambi i motivi non sono fondati.
Sul punto, occorre muovere dalla constatazione che questa Corte, ancora di recente, ha ribadito che nel sistema della responsabilita’ civile “occorre distinguere nettamente, da un lato, il nesso che deve sussistere tra comportamento ed evento perche’ possa configurarsi, a monte, una responsabilita’ (HaftungsbegrOndende Kausalitat) e, dall’altro, il nesso che, collegando l’evento al danno, consente l’imputazione delle singole conseguenze dannose ed ha, quindi, la precipua funzione di delimitare, a valle, i confini di una (gia’ accertata) responsabilita’ (Haftungerfullende Kausalitat)”, essendosi anche rimarcato il diverso ambito di operativita’, in relazione a tali accertamenti, dell’articolo 1227 c.c. – richiamato, in materia di illecito aquiliano, dall’articolo 2056 c.c., comma 2, visto che il solo comma l'”attiene al contributo eziologico del debitore nella produzione dell’evento dannoso”, mentre il secondo “attiene al rapporto evento-danno conseguenza, rendendo irrisarcibili alcuni danni” (cosi’, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. 21 gennaio 2020, n. 1165, Rv. 656688-01, che richiama pressocche’ testualmente Cass. Sez. 3, sent. 19 febbraio 2013, n. 4043, Rv. 625453-01).

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Questa Corte ha pure affermato che il “nesso causale e fattore costitutivo dell’illecito e poiche’ i presupposti di fatto di un certo evento non dipendono quasi mai da una causa soltanto, e’ compito del giudice selezionare solo quelli giuridicamente rilevanti al suo accadimento”, soggiungendo che tale operazione “puo’ essere vista sotto due prospettive: quello della corretta scelta del criterio di selezione; quello delle conseguenze tratte dal criterio scelto in concreto”. Orbene, mentre la “scelta del criterio di selezione puo’ dar luogo ad un problema di violazione di norme giuridiche sostanziali, deducibile nel giudizio di cassazione come “error in iudicando” ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3)”, le “conseguenze del criterio di scelta, invece, se correttamente motivate, non possono formare oggetto del sindacato di legittimita’, perche’ si risolvono in un accertamento di fatto, altrimenti detto della causalita’ di fatto” (cosi’, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. 7 dicembre 2005, n. 26997, Rv. 587959-01, ripresa, del pari, da Cass. Sez. 3, sent. n. 1165 del 2020, cit.). In altri termini, “l’errore compiuto dal giudice di merito nell’individuare la regola giuridica in base alla quale accertare la sussistenza del nesso causale tra fatto illecito ed evento e’ censurabile in sede di legittimita’ ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3), mentre l’eventuale errore nell’individuazione delle conseguenze che sono derivate dall’illecito, alla luce della regola giuridica applicata, costituisce una valutazione di fatto, come tale sottratta al sindacato di legittimita’, se adeguatamente motivata” (Cass. Sez. 3, sent. 25 febbraio 2014, n. 4439, Rv. 630127-01; Cass. Sez. 3, ord. 10 aprile 2019, n. 9985, Rv. 653576-01).
Cio’ premesso, e’ alla stregua di tali principi che deve procedersi allo scrutinio dei motivi di ricorso qui in esame, per concludere nel senso – come anticipato – della non fondatezza di entrambi.
Infatti, l’affermazione della Corte veneziana – per vero, poco felice (se non addirittura equivoca, nel suo riferimento, come di dira’, alla “quantificazione” del danno) – secondo cui, nella specie, non sussiste “un nesso causale univoco ed esclusivo tra l’istituzione del Parco i danni di cui il (OMISSIS) chiede(va, n. ds.) il risarcimento”, va intesa nel senso che il giudice di appello ha individuato nello stesso contegno dei responsabili dell’impresa agricola una concausa del pregiudizio da essi lamentato.

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Difatti, si legge subito dopo nella sentenza impugnata (cfr. pag. 19), che risulta essere stato “accertato in sede di CTU” che “tutti gli allevamenti ittici di acqua dolce sono dotati di reti protettve”, ma soprattutto che l’impresa agricola gestita dal (OMISSIS) “ha impiegato molto tempo per adottare interventi efficaci contro uccelli ittiofagi”, posto che, mentre l’Ente Parco e’ stato istituito nel 1991, “i lavori volti alla messa in opera delle reti per la protezione dei pesci dalla predazione degli ittiofagi e’ iniziata nel 1995 ed e’ praticamente terminata nel 2002”. Su tali basi, dunque, la Corte veneziana e’ pervenuta alla conclusione che siffatta “condotta omissiva del (OMISSIS) non potra’ non rilevare, sotto il profilo dell’articolo 1227 c.c., in punto a (di, n.d.r.) quantificazione del danno”.
Orbene, se il riferimento alla “quantificazione” del danno potrebbe indurre a ritenere che la sentenza impugnata abbia inteso riferirsi al momento della “delimitazione a valle della gia’ accertata responsabilita’” (per riprendere le parole della giurisprudenza di questa Corte sopra citata), il percorso argomentativo da essa seguito e’ tale, invece, da configurare quella condotta omissiva dei responsabili dell’impresa agricola alla stregua di una vera e propria concausa. Il giudice di appello, infatti, ha ritenuto che la tardiva installazione di reti protettive abbia contribuito alla causazione del danno da perdita del prodotto ittico, comunque originato dalla proliferazione degli uccelli ittiofagi, facendo, cosi’, applicazione dell’articolo 1227 c.c., comma 1.
Sul punto, dunque, la sentenza impugnata si e’ uniformata al principio enunciato da questa Corte secondo cui, in materia di risarcimento del danno per fatto illecito, “quanto piu’ le conseguenze della condotta altrui sono suscettibili di essere previste e superate attraverso l’adozione, da parte dello stesso danneggiato, delle cautele normalmente attese e prevedibili in rapporto alle circostanze del caso concreto, tanto piu’ incidente deve considerarsi l’efficienza causale del suo comportamento imprudente nella produzione del danno”, addirittura “fino al punto di interrompere il nesso eziologico tra condotta e danno quando lo stesso comportamento sia da escludere come evenienza ragionevole o accettabile secondo un criterio probabilistico di regolarita’ causale” (Cass. Suez. 3, ord. 1 febbraio 2018, n. 2483 del 10 febbraio 2018; Rv. 648247-02).

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A tale esito estremo, tuttavia, la Corte veneziana ha ritenuto di non pervenire, con valutazione che – ad onta della censura formulata dall’Ente Parco, con il suo primo motivo di ricorso incidentale – risulta esente da vizi. La sentenza impugnata, infatti, ha dato seguito al principio secondo cui il nesso eziologico – tra la condotta dell’asserito danneggiante e il pregiudizio lamentato dal preteso danneggiato – deve ritenersi interrotto solo quando “la causa sopravvenuta” (nella specie, la mancata predisposizione di reti che potesse precludere la predazione dalla vasche, da parte della fauna aviaria intensificatasi dopo l’istituzione dell’Ente Parco e, secondo la prospettazione dei gia’ attori e odierni ricorrenti, non adeguatamente contrastata con misure di cattura degli stessi) “sia da sola sufficiente a provocare l’evento perche’ autonoma, eccezionale ed atipica rispetto alla serie causale gia’ in atto”, giacche’ in tal caso “le cause preesistenti degradano al rango di mere occasioni perche’ quella successiva ha interrotto il legame causale tra esse e l’evento” (Cass. Sez. 3, sent. 22 ottobre 2003, n. 15789, Rv. 567578-01; in senso conforme anche Cass. Sez. 3, sent. 6 aprile 2006, n. 8096, Rv. 588863-01).
Nella specie, la Corte di merito ha evidentemente ritenuto che il ritardo nella predisposizione delle reti si ponga non solo all’interno della stessa serie causale dalla quale ha tratto origine il danno da perdita del prodotto ittico (trovando essa la sua scaturigine nella intensificazione della presenza degli uccelli predatori, originata dalla istituzione dell’Ente Parco e dalla mancata adozione, da parte dello stesso, di adeguati sistemi di cattura dei volatili), ma neppure possa considerarsi evenienza “eccezionale ed atipica rispetto ala serie causale gia’ in atto”.
5.3. Con il terzo motivo i ricorrenti in via principale denunciano -ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., comma 1, nn. 3) e 4) – omesso esame di un fatto storico oggetto di discussione tra le parti e con carattere decisivo”, nonche’, in relazione all’articolo 132 c.p.c., comma 2, n. 4), “motivazione apparente per manifesta illogicita’ e incomprensibilita’”.
Il motivo e’ proposto per l’ipotesi in cui la Corte territoriale (nel gia’ indicato passo motivazionale oggetto del secondo motivo di ricorso) “non abbia inteso con certezza riferirsi dell’articolo 1227 c.c., comma 2”.

Illecito civile ed interruzione del nesso di causalità

I ricorrenti si dolgono che la sentenza impugnata – nella parte in cui risulta affermata l’inesistenza di un “nesso causale univoco ed esclusivo tra l’istituzione del Parco e i danni di cui il (OMISSIS) chiede il ristoro” – rivela come la Corte territoriale abbia proceduto ad una non attenta lettura degli atti di causa, non essendosi avveduta che la pretesa risarcitoria non riguardava danni dovuti all’istituzione del Parco ma, come detto, all’omesso compimento dell’attivita’ di cattura degli uccelli attraverso strumenti selettivi, sicche’ la motivazione risulta “estranea alla materia del contendere”.
D’altra parte, un ulteriore profilo di illogicita’ della motivazione sarebbe costituito dal fatto che, rispetto ad un danno conseguente alla istituzione del Parco, la mancata installazione della rete – in quanto “posterius” rispetto a tale istituzione – non puo’ avere in alcun modo “contribuito a cagionare il danno”, ma al limite solo ad aggravarlo.
5.3.1. Il motivo e’ inammissibile.
Invero, la censura rivolta alla Corte lagunare di aver operato l’accertamento del nesso causale con riferimento ad una pretesa risarcitoria diversa da quella azionata avrebbe dovuto farsi valere (come osserva, correttamente, il controricorrente) ai sensi dell’articolo 112 c.p.c., cioe’ come violazione del principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato.
Difatti, come ripetutamente affermato di questa Corte il “potere-dovere del giudice di inquadrare nella esatta disciplina giuridica i fatti e gli atti che formano oggetto della contestazione incontra il limite del rispetto del “petitum” e della “causa petendi”, sostanziandosi nel divieto di introduzione di nuovi elementi di fatto nel tema controverso, sicche’ il vizio di “ultra” o “extra” petizione ricorre quando P giudice di merito, alterando gli elementi obiettivi dell’azione (“petitum” o “causa petendi”), emetta un provvedimento diverso da quello richiesto (“petiturn” immediato), oppure attribuisca o neghi un bene della vita” – tale ultima essendo, in ipotesi, l’evenienza prospettata nel caso che occupa – diverso da quello conteso (“petitum” mediato), cosi’ pronunciando oltre i limiti delle pretese o delle eccezioni fatte valere dai contraddittori” (da ultimo, Cass. Sez. 2, sent. 21 marzo 2019, n. 8048, Rv. 653291-01; nello stesso senso Cass. Sez. 1, sent. 11 aprile 2018, n. 9002, Rv. 648147-01; Cass. Sez. 3, sent. 24 settembre 2015, n. 18868, Rv. 636968-01; Cass. Sez. Lav., sent. 11 gennaio 2011, n. 455, Rv. 616369-01 e Cass. Sez. 2, sent. 16 luglio 1997, n. 6476, Rv. 506027-01).

Illecito civile ed interruzione del nesso di causalità

Senza in ogni caso sottacersi che i danni conseguenti all’istituzione dell’Ente Parco sono chiaramente identificati dalla sentenza impugnata – cfr. pag. 14 – nei “danni provocati dalla fauna selvatica”; sicche’ e’ alla proliferazione di quest’ultima (e alla conseguente predazione dei pesci presenti nelle vasche di acquacoltura) che e’ riferita la responsabilita’ del medesimo e il dedotto suo obbligo risarcitorio.
5.4. Con il quarto motivo i ricorrenti in via principale denunciano – ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 4), in relazione all’articolo 132 c.p.c., comma 2, n. 4) – “nullita’ della sentenza per mancanza della motivazione e per motivazione apparente”.
Esso risulta formulato sul presupposto che la sentenza impugnata avrebbe omesso di riportare integralmente le conclusioni dell’appellante incidentale, risultando dal suo testo la parziale trascrizione di uno solo dei quesiti relativi al secondo motivo di appello (con omissione degli altri quattro), mancando del tutto, invece, le conclusioni in relazione al primo motivo.
Sebbene i ricorrenti si dichiarino consapevole che la mancata trascrizione delle conclusioni integra una mera irregolarita’ Formale, salvo il caso in cui l’omissione abbia comportato un’omessa pronuncia su domande o eccezioni non trascritte, reputano che tale evenienza sarebbe quella verificatasi nel caso in esame.
Si dolgono, in particolare, del fatto che “in sole tre righe” la sentenza abbia affermato che l’appello incidentale “volto ad ottenere
il maggior ristoro di 4.622.824,49 va rigettato per quanto sin qui argomentato”.
Non ricorrerebbe, infatti, nel caso di specie l’ipotesi della motivazione implicita di rigetto dell’appello incidentale, anche in ragione del fatto che la sentenza impugnata e’ acriticamente fondata sulle affermazioni della CTU, recepite “in toto” dalla Corte territoriale, senza tenere conto delle censure alla stessa formulata ed oggetto dei motivi di gravame non esaminati.
5.4.1. Il motivo e’ per un verso non fondato, per altro verso inammissibile.
Va premesso, infatti, che – in relazione a quelle censure di appello (oggetto del secondo motivo di gravame) che stigmatizzavano il mancato riconoscimento, gia’ da parte del primo giudice, di voci di danno diverse dalla perdita di prodotto ittico – non e’ configurabile alcun difetto di motivazione. La sentenza, per un verso, spiega perche’ “nulla andra’ risarcito per gli interventi strutturali (vasche in cls e reti protettive)”, richiamandosi alle conclusioni del CTU, ovvero assumendo che “tali interventi hanno di fatto ammodernato l’allevamento, rendendolo ordinario, piu’ efficiente piu’ produttivo, di elevato livello igienico-sanitario”, cosicche’ i costi per eseguirli “sono del tutto compensati dalle maggiori produzioni e rientrano pienamente nelle attivita’ di un ordinario e moderno allevamento idrico”. Si afferma, inoltre, sempre sulla scorta della CTU, che le nuove vasche interrate in calcestruzzo “erano state costruite non solo per sostenere le reti ma anche per migliorare l’efficienza dell’impianto e per evitare erosioni spondali a livello di argini”, costruzione, peraltro, avvenuta anche grazie ad “un contributo a fondo perduto pari al 40% delle opere eseguite”. La motivazione, dunque, sussiste quanto a tale voce di danno, mentre deve ritenersi implicita quanto al rigetto della ulteriore voce indicata nei maggior costi di manodopera (per nutrire i pesci, per pulire le vasche e tagliare l’erba) che sarebbero derivati dalla edificazione delle nuove vasche, donde la non fondatezza del motivo in esame in relazione all’assenza di motivazione.
Quanto, invece, alla censura che si risolve – non solo in relazione a tali voci di danno, ma dello stesso danno da perdita di prodotto ittico (in relazione al quale si lamenta, addirittura, l’obliterazione di un intero motivo di appello, il primo) – nella denuncia della mancata considerazione delle critiche rivolte alla CTU, essa si palesa, invece, inammissibile, ai sensi dell’articolo 366 c.p.c., comma 1, n. 6).

Illecito civile ed interruzione del nesso di causalità

Al riguardo, deve ribadirsi che, nel vigore del “novellato” testo dell’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5), “la contestazione del vizio motivazionale elevata nei confronti della motivazione della sentenza che recepisca le conclusioni della CTU non puo’ limitarsi al rilievo di una insufficienza dell’indicazione delle ragioni del detto recepimento”, dovendo il ricorrente indicare – a norma dell’articolo 366 c.p.c., comma 1, n. 6) – “il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “dectivita’””, adempimenti che questa Corte ha escluso essere stati correttamente compiuti qualora, come avvenuto nel caso in esame, nella “articolazione delle censure” non venga specificatamente indicato in quale parte la CTU “non si sia fatta carico di esaminare e confutare i rilievi di parte, limitandosi la ricorrente a giustapporre le proprie valutazioni (…) alle conclusioni dei consulenti”, senza che siano “precisati i passaggi della consulenza nella quale siano mancati l’esame e la confutazione dei rilievi di parte” (cosi’, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. 26 luglio 2017, n. 18391, non massimata; in senso analogo anche Cass. Sez. 1, sent. 3 giugno 2016, n. 11482, Rv. 639844-01; Cass. Sez. 1, ord. 3 agosto 2017, n. 19427, Rv. 64517802).
Infatti, in caso di ricorso per cassazione per vizio di motivazione, la parte che lamenti l’acritica adesione del giudice di merito alle conclusioni del consulente tecnico d’ufficio non puo’ limitarsi a far valere genericamente lacune di accertamento o errori di valutazione commessi dal consulente o dalla sentenza che ne abbia recepito l’operato, ma, in ossequio al principio di autosufficienza del ricorso per cassazione ed al carattere limitato del mezzo di impugnazione, ha l’onere di indicare specificamente le circostanze e gli elementi rispetto ai quali invoca il controllo di logicita’, trascrivendo nel ricorso i passaggi salienti e non condivisi della relazione e riportando il contenuto specifico delle critiche ad essi sollevate, al fine di consentire l’apprezzamento dell’incidenza causale del difetto di motivazione (Cass. Sez. 3, ord. 13 luglio 2021, n. 19989, Rv. 66183901).
5.5. Con il quinto motivo i ricorrenti in via principale denunciano – ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – “violazione dell’articolo 1223 c.c., in ordine al diritto all’integralita’ del risarcimento”.
I ricorrenti lamentano che, pur essendo quello risarcitorio ad essi riconosciuto un credito “di valore”, la sentenza avrebbe disatteso il principio secondo cui gli interessi vanno calcolati dalla data dell’evento dannoso, rappresentando l’equivalente del mancato godimento del bene perduto e del suo controvalore monetario per tutto il tempo che intercorre tra il fatto e la liquidazione, soprattutto quando l’intervallo di tempo fra l’illecito e il suo risarcimento e’ cospicuo. Incomprensibile, inoltre, sarebbe la scelta di far decorrere gli interessi legali dalla data della CTU, che nulla ha a che vedere con la produzione dell’evento dannoso.
5.5.1. Il motivo non e’ fondato.
Sul punto occorre muovere dal rilievo che “il risarcimento del danno da fatto illecito costituisce debito di valore e, in caso di ritardato pagamento di esso, gli interessi non costituiscono un autonomo diritto del creditore, ma svolgono una funzione compensativa tendente a reintegrare il patrimonio del danneggiato, qual era all’epoca del prodursi del danno, e la loro attribuzione costituisce una mera modalita’ o tecnica liquidatoria”, con la conseguenza che “il giudice di merito puo’ procedere alla liquidazione della somma dovuta a titolo risarcitorio e dell’ulteriore danno da ritardato pagamento, utilizzando la tecnica che ritiene piu’ appropriata al fine di reintegrare il patrimonio del creditore, ad esempio, riconoscendo gli interessi nella misura legale o in misura inferiore, oppure non riconoscendoli affatto”, precisandosi, infatti, che, “oltre alla rivalutazione, possono essere si’ liquidati gli interessi compensativi, ma la determinazione non e’ automatica, ne’ presunta iuris et de iure, occorrendo che il danneggiato provi, anche in via presuntiva, il mancato guadagno derivatogli dal ritardato pagamento, analogamente a quanto richiesto, sul piano probatorio, per la dimostrazione del maggior danno nelle obbligazioni di valuta, ma secondo criteri differenti” (cosi’ Cass. Sez. Un., sent. 10 luglio 2017, n. 16990, non massimata sul punto;. in senso conforme, tra le altre, anche Cass. Sez. 3, ord. 13 luglio 2018, n. 18564, Rv. 649736-01).
Orbene, nel caso che occupa, nella sentenza impugnata la Corte di merito ha quantificato l’importo del danno da perdita del prodotto ittico in una somma il cui valore e’ stato “attualizzato al 2013”, epoca di espletamento della CTU, dalla quale ha fatto anche decorrere gli interessi, e dunque “in coerenza con la pluralita’ e alternativita’ dei criteri liquidativi individuati dalla giurisprudenza di legittimita’”, che comprendono anche “i risarcimenti dei danni all’attualita’ ovverosia come stimati dal c.t.u. all’epoca della relazione peritale” (cosi’ Cass. Sez. Un., sent. n. 16990 de 2017, cit.).
6. Vanno esaminati, a questo punto, i residui motivi del ricorso incidentale.
6.1. Con il secondo motivo, in particolare, viene denunciata – ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 4) – “violazione degli articoli 112 e 132 c.p.c.”, censurandosi la sentenza impugnata per “omessa pronuncia e assenza di motivazione”, in relazione all’undicesimo motivo dell’appello principale, con cui si lamentava che il Tribunale avesse riconosciuto il danno da perdita di prodotto ittico, in assenza di qualsiasi documento probante, sulla scorta della seconda CTU disposta in corso di causa, come tale non idonea a fungere da prova del danno, non potendo le sue risultanze esonerare i gia’ attori dall’onere di cui all’articolo 2697 c.c..
6.1.1. Il motivo non e’ fondato.
Nel caso in esame non puo’ dubitarsi del fatto che quella svolta sia stata una CTU “percipiente”, cioe’ quel tipo di consulenza nella quale, “per la innegabile natura tecnico-specialistica delle conoscenze necessarie”, il giudice “puo’ affidare al consulente non solo l’incarico di valutare i fatti accertati (consulenza deducente), ma anche quello di accertare i fatti stessi”, sicche’ “la consulenza’ costituisce essa stessa fonte oggettiva di prova ed e’ necessario e sufficiente che la parte deduca il fatto che pone a fondamento del suo diritto e che il giudice ritenga che l’accertamento richieda specifiche cognizioni tecniche” (Cass. Sez. 3, ord. 8 febbraio 2019, n. 3717, Rv. 65273601; nello stesso senso, tra le altre, Cass. Sez. 3, sent. 26 febbraio 2013, n. 4792, Rv. 625766-01, Cass. Sez. 2, sent. 22 gennaio 2015, n. 1190, Rv. 633974-01; Cass. Sez. 3, sent. 13 marzo 2009, in. 6155, Rv. 607649-01, le ultime due pronunce relative a fattispecie diverse da quelle in materia responsabilita’ per malpractice sanitaria, nella quale la CTU “percipiente” trova il suo principale – ma non esclusivo – ambito applicativo).
6.2. Infine, con il terzo motivo del ricorso incidentale viene denunciata – ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3) -“violazione degli articoli 100 e 329 c.p.c.”.
Il motivo in esame, come si accennava in premessa, viene proposto alla stregua di un’impugnazione incidentale condizionata, e dunque per l’ipotesi di accoglimento dei motivi quarto e quinto del ricorso principale (e gia’ oggetto dell’appello incidentale del (OMISSIS)).
Si assume che il (OMISSIS) non fosse legittimato ad esperire gravame incidentale avverso la sentenza del primo giudice, dal momento che il medesimo si e’ qualificato come mero “gestore” dell’impresa agricola, essendo, invece, rimasta contumace nel giudizio di secondo grado la (OMISSIS), ovvero la titolare dell’impresa e, dunque, il solo soggetto dotato di legittimazione attiva.
6.2.1. Trattandosi di motivo oggetto di impugnazione incidentale condizionata, esso resta assorbito dal mancato accoglimento dei motivi quarto e quinto del ricorso principale.
7. Le spese del presente giudizio vanno integralmente compensate tra le parti, in ragione della loro reciproca soccombenza.
8. A carico dei ricorrenti principali, nonche’ del ricorrente incidentale, sussiste l’obbligo di versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, se dovuto secondo un accertamento spettante all’amministrazione giudiziaria (Cass. Sez. Un., sent. 20 febbraio 2020, n. 4315, Rv. 657198-01), ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, articolo 13, comma 1 quater.

P.Q.M.

La Corte rigetta entrambi i ricorsi.
Compensa integralmente tra le parti le spese del giudizio di cassazione.
A carico dei ricorrenti principali e del ricorrente incidentale sussiste l’obbligo di versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, se dovuto, ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, articolo 13, comma 1-quater.

 

In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.

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