Il termine di prescrizione del reato di omessa dichiarazione previsto dal Decreto Legislativo n. 74/2000, articolo 5

Corte di Cassazione, sezione terza penale, Sentenza 12 ottobre 2018, n. 46213.

La massima estrapolata:

Il termine di prescrizione del reato di omessa dichiarazione previsto dal Decreto Legislativo n. 74/2000, articolo 5 decorre dal novantunesimo giorno successivo alla scadenza del termine ultimo stabilito dalla legge per la presentazione della dichiarazione annuale, stante la previsione normativa di cui al medesimo articolo 5, comma 2, secondo cui non si considera omessa la dichiarazione presentata entro novanta giorni dalla scadenza del termine, per cui al predetto termine di scadenza deve aggiungersi l’ulteriore periodo di novantuno giorni.

Sentenza 12 ottobre 2018, n. 46213

Data udienza 21 giugno 2018

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SARNO Giulio – Presidente

Dott. GALTERIO Donatella – Consigliere

Dott. SEMERARO Luca – Consigliere

Dott. SCARCELLA Alessio – rel. Consigliere

Dott. ZUNICA Fabio – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
(OMISSIS), nato a (OMISSIS);
avverso la sentenza del 12-09-2017 della Corte di appello di Trieste;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Dr. Fabio Zunica;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott.ssa Di Nardo Marilia, che ha concluso per l’inammissibilita’ del ricorso;
udito per la parte civile, Agenzia delle Entrate, l’avvocato dello Stato (OMISSIS), che ha concluso per il rigetto del ricorso depositando conclusioni scritte;
udito per il ricorrente l’avvocato (OMISSIS), sostituto processuale dell’avvocato (OMISSIS), che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 20 gennaio 2015, il Tribunale di Udine assolveva (OMISSIS), per non aver commesso il fatto, dal reato di cui al Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 5, contestatogli in concorso con (OMISSIS) e (OMISSIS), in relazione all’omessa presentazione della dichiarazione annuale ai fini delle imposte dirette, riferita all’anno 2006 e alla societa’ (OMISSIS), con sede legale in (OMISSIS), ma sede decisionale in Cividale del Friuli, sede della controllata (OMISSIS) s.p.a., del cui gruppo (OMISSIS) era amministratore di fatto e socio occulto, nonche’ ideatore delle operazioni di esterovestizione.
Con sentenza del 12 settembre, la Corte di appello di Trieste, in parziale riforma della sentenza di primo grado, assolve (OMISSIS) e il coimputato (OMISSIS), perche’ il fatto non e’ previsto dalla legge come reato.
2. Avverso la sentenza della Corte di appello triestina, (OMISSIS), tramite il difensore, ha proposto ricorso per cassazione, sollevando cinque motivi.
Con il primo motivo, la difesa sottolinea innanzitutto l’interesse del ricorrente ad impugnare la sentenza assolutoria, sia per evitare di essere esposto alle rivendicazioni dell’Agenzia delle Entrate, sia nell’ottica della definizione del procedimento disciplinare avviato a suo carico.
Con il secondo motivo, la difesa deduce l’erronea applicazione degli articoli 157, 158 e 160 c.p., evidenziando che la data di presunta commissione del reato indicata nel capo di imputazione era erronea, dovendo la stessa essere individuata non nel 30 dicembre 2007, ma nel 29 ottobre 2007, scadendo il termine per la presentazione della dichiarazione dei redditi il 31 luglio 2007, con la conseguenza che l’appello del Pubblico Ministero doveva considerarsi tardivo e quindi inammissibile, in quanto presentato il 19 maggio 2015, dunque oltre il maturare della prescrizione, il cui termine massimo era decorso il 30 aprile 2015.
Con il terzo motivo, strettamente connesso al precedente, il ricorrente eccepisce l’inosservanza dell’articolo 591 c.p.p., ribadendo che l’appello del Pubblico Ministero doveva essere dichiarato inammissibile, in quanto l’ufficio requirente non aveva alcun interesse a impugnare, ne’ poteva farlo, considerata la pregressa estinzione del reato e il passaggio in giudicato della sentenza assolutoria di primo grado nei confronti di (OMISSIS).
Con il quarto motivo, la difesa contesta la mancanza e manifesta illogicita’ della motivazione rispetto all’accoglimento virtuale dell’appello del pubblico ministero, deducendo il travisamento della prova documentale di cui al promemoria interno della Banca Unicredit del 29 giugno 2005: si osserva al riguardo che la difforme decisione della Corte di appello rispetto al Tribunale circa il coinvolgimento di (OMISSIS) nella condotta contestata non e’ stata giustificata
adeguatamente, essendosi i giudici di secondo grado limitati a un richiamo apodittico e frammentario a talune circostanze indicate nell’appello del P.M. Con ampie argomentazioni, la difesa osserva che il ricorrente non e’ stato ideatore di alcuna iniziativa strategica delle societa’ coinvolte nell’imputazione, avendo egli prestato solo assistenza professionale, riferendosi le procure speciali ricevute solo allo svolgimento di attivita’ forense e mai a operazioni gestionali. Del resto, anche il documento bancario richiamato dalla Corte di appello, acquisito peraltro in un diverso procedimento penale, qualificava l’avv. (OMISSIS) come professionista, per cui il suo significato sarebbe stato del tutto travisato. Indebitamente sarebbe stata poi valorizzata la fideiussione prestata, che invece, a fronte delle solide garanzie reali gia’ esistenti, aveva un rilievo secondario ai fini dell’erogazione del credito, soprattutto nel 2005, allorquando non era affatto prevedibile la crisi economica che si sarebbe manifestata tre anni dopo.
Viene inoltre stigmatizzata la rilevanza attribuita all’annotazione di P.G. dell’11 marzo 2014, nella quale erano riportate, peraltro in modo improprio, circostanze riferite agli anni 2013-2014, prive di alcuna attinenza con i fatti di causa, concernenti l’asserita omessa dichiarazione fiscale di ben sette anni prima.
Con il quinto motivo, viene infine censurata l’erronea applicazione dell’articolo 110 c.p. in relazione all’accoglimento virtuale dell’appello del pubblico ministero, essendo giuridicamente inesistente il concorso del ricorrente nel reato omissivo proprio di cui al Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 5; si osserva al riguardo che la sentenza impugnata ha fondato la tesi del coinvolgimento dell’imputato nella fattispecie contestata su basi meramente assertive, non considerando il fatto che l’avv. (OMISSIS) non ha mai compiuto attivita’ gestionale ne’ per conto della (OMISSIS) s.a., ne’ per le altre societa’ del gruppo, limitandosi allo svolgimento di attivita’ stragiudiziale forense, senza assumere mai concreti ruoli operativi.

CONSIDERATO IN DIRITTO

Il ricorso e’ inammissibile perche’ manifestamente infondato.
1. In via preliminare, deve condividersi la premessa difensiva sulla sussistenza dell’interesse del ricorrente a impugnare la sentenza assolutoria della Corte di appello, pronunciata con la formula “perche’ il fatto non e’ previsto dalla legge come reato”, dovendosi richiamare al riguardo la condivisa affermazione di questa Corte (cfr. in termini Sez. 6, n. 16843 del 01/03/2018, Rv. 273178), secondo cui sussiste l’interesse dell’imputato all’impugnazione della sentenza di assoluzione, al fine di ottenere la piu’ ampia formula liberatoria “perche’ il fatto non sussiste”, considerato che, a parte le conseguenze di natura morale, l’interesse giuridico risiede nei diversi e piu’ favorevoli effetti che gli articolo 652 e 653 c.p.p. connettono al secondo tipo di dispositivi nei giudizi civili o amministrativi di risarcimento del danno e nel giudizio disciplinare.
2. Cio’ posto, devono invece ritenersi manifestamente infondate le doglianze difensive esposte nel secondo e terzo motivo di ricorso, suscettibili di essere trattati insieme, in quanto concernenti la medesima questione dell’asserita inammissibilita’ dell’appello proposto dal Pubblico Ministero.
Deve sul punto rilevarsi che, alla data di proposizione dell’appello, cioe’ il 19 maggio 2015, non era ancora decorso il termine di prescrizione del reato contestato, per cui l’impugnazione correttamente e’ stata ritenuta ammissibile. L’epoca di commissione del reato e’ stata invero indicata nella contestazione nella data del 30 dicembre 2007, individuata avuto riguardo al termine ultimo fissato per l’adempimento dell’obbligo tributario omesso, ovvero quello per la presentazione della dichiarazione delle imposte riferita all’anno di imposta 2006. Al riguardo deve infatti evidenziarsi che, con i decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri del 31 maggio 2007 e del 10 Luglio 2007, pubblicati rispettivamente sulla Gazzetta Ufficiale n. 151 del 2 luglio 2007 e n. 209 dell’8 settembre 2007, il termine per la presentazione delle dichiarazioni dei redditi, dell’irap e dell’iva per l’anno 2006 e’ stato prorogato fino alla data del 1 ottobre 2007.
Ne consegue che la data indicata nel capo di imputazione risulta si’ erronea, ma in senso piu’ favorevole, seppur di poco, per il ricorrente, posto che il dies a quo ai fini della prescrizione andava in realta’ individuato non nel 30 dicembre 2007, ma nel 1 gennaio 2008, dovendosi al riguardo richiamare l’orientamento consolidato di questa Corte (cfr. Sez. 3, n. 48578 del 19/07/2016, Rv. 268189), secondo cui il termine di prescrizione del reato di omessa dichiarazione previsto dal Decreto Legislativo n. 74/2000, articolo 5 decorre dal novantunesimo giorno successivo alla scadenza del termine ultimo stabilito dalla legge per la presentazione della dichiarazione annuale, stante la previsione normativa di cui al medesimo articolo 5, comma 2, secondo cui non si considera omessa la dichiarazione presentata entro novanta giorni dalla scadenza del termine, per cui al predetto termine di scadenza deve aggiungersi l’ulteriore periodo di novantuno giorni. Ne’ puo’ dubitarsi dell’idoneita’ dei due decreti presidenziali intervenuti a prorogare (prima fino al 10 settembre e poi fino al 1 ottobre 2007) la scadenza del termini, posto che il Decreto Legislativo 9 luglio 1997, n. 241, articolo 12, comma 5 (recante norme di semplificazione degli adempimenti dei contribuenti in sede di dichiarazione dei redditi e dell’imposta sul valore aggiunto, nonche’ di modernizzazione del sistema di gestione delle dichiarazioni) prevede espressamente che, con Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, possono essere modificati i termini riguardanti gli adempimenti dei contribuenti relativi a imposte e contributi dovuti in base allo stesso decreto.
La fonte secondaria in materia di proroga del termine per l’adempimento dell’obbligazione tributaria trae quindi il suo fondamento dalla legge, per cui sotto tale profilo alcuna violazione del principio di legalita’ appare invocabile. Dunque, una volta individuata, per effetto della legittima proroga al 1 ottobre 2007 del termine ultimo per la presentazione della dichiarazione, la data di consumazione del reato nella data del 30 dicembre 2007 (sebbene, come detto, la data corretta fosse quella del 1 gennaio 2008), l’appello del P.M. e’ stato correttamente considerato ammissibile, in quanto presentato tempestivamente prima del 30 giugno 2015, ovvero della data in cui e’ maturata la prescrizione massima del reato contestato, pari a 7 anni e 6 mesi, per cui legittimante la Corte territoriale e’ entrata nel merito dell’impugnazione proposta dal P.M..
3. Passando infine al quarto e al quinto motivo di ricorso, a loro volta suscettibili di essere trattati congiuntamente, in quanto riguardanti entrambi il giudizio di ascrivibilita’ all’imputato della condotta oggetto di imputazione, deve parimenti escludersi che la relativa valutazione compiuta dalla Corte di appello presenti vizi di legittimita’ rilevabili in questa sede.
Ed invero, nel rivisitare il giudizio del Tribunale di Udine, che aveva escluso il coinvolgimento dell’imputato nel fatto, la Corte di appello di Trieste, dopo aver inquadrato la vicenda contestata nell’ambito dell’abuso del diritto, allo stato privo di rilievo penale, ha ritenuto l’avv. (OMISSIS) compartecipe della contestata condotta di elusione fiscale, ritenuta sussistente, seppur non penalmente rilevante.
A tal fine sono state valorizzate talune significative circostanze fattuali, tra cui, innanzitutto, il fatto che il ricorrente, il 30 giugno 2005, abbia prestato una fideiussione pari a Euro 2.250.000,00 nell’operazione di acquisto della (OMISSIS), garanzia personale questa non spiegabile alla luce della sola veste professionale ricoperta dall’imputato, e cio’ a prescindere dall’esistenza di altre garanzie reali. Allo stesso modo, altri elementi rivelatori dell’ingerenza dell’avv. (OMISSIS) nella gestione societaria sono statti nell’accertato e diretto coinvolgimento del ricorrente in alcune non marginali iniziative strategiche del gruppo, come ad esempio in occasione della richiesta di modifica del bilancio (maggio 2012), dei coevi contatti con lo studio Vienna per l’entrata di un nuovo socio, della proposta dell’amministratore della (OMISSIS) (nella persona del rag. (OMISSIS)), o della designazione del consulente incaricato di redigere il piano di risanamento.
Orbene, tali condotte, alcune precedenti e altre successive all’epoca dell’omessa dichiarazione contestata, sono state ragionevolmente ritenute dalla Corte di appello sintomatiche di un ben preciso modus operandi che, travalicando l’ambito professionale del ruolo svolto dal ricorrente, ha assunto le dimensioni di una vera e propria compartecipazione alle attivita’ gestionali del gruppo societario di cui facevano parte la (OMISSIS) e la controllata (OMISSIS) s.p.a..
In quanto sorretta da argomentazioni coerenti e logiche, la motivazione della sentenza impugnata resiste quindi alle censure difensive, che invero si articolano prevalentemente in una lettura alternativa del materiale probatorio che, tuttavia, non e’ consentita in questa sede e che, in ogni caso, non vale di per se’ a inficiare il ragionamento della Corte territoriale, risultato viceversa fondato su una disamina non parcellizzata delle fonti dimostrative acquisite, rispetto alle quali alcun travisamento appare in concreto ravvisabile, avendo i giudici di appello operato un coordinamento razionale di vari elementi probatori, rivelatisi convergenti, proprio perche’ riferiti a momenti diversi, nel delineare la continuita’ del coinvolgimento dell’imputato nelle dinamiche societarie di tipo gestionale.
Del resto, una volta ribadita la ragionevolezza dell’apparato argomentativo della sentenza impugnata, privo di elementi di contraddittorieta’ e di incoerenza rispetto agli esiti dell’attivita’ istruttoria, deve ribadirsi che alla Corte di cassazione e’ preclusa la possibilita’ di una nuova valutazione delle risultanze da contrapporre a quella effettuata dal giudice di merito, attraverso una diversa lettura, sia pure anch’essa logica e plausibile, dei dati processuali o una differente ricostruzione storica dei fatti, o comunque un opposto giudizio di rilevanza o attendibilita’ delle fonti di prova (cfr. in tal senso Sez. 2, n. 7380 dell’11/01/2007, Rv. 235716 e Sez. 5, n. 39048 del 25/09/2007, Rv. 238215).
2. In conclusione, stante la manifesta infondatezza della doglianza sollevata, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, con conseguente onere per il ricorrente, ex articolo 616 c.p.p., di sostenere le spese del procedimento. Tenuto conto infine della sentenza della Corte costituzionale n. 186 del 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi e’ ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza “versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilita’”, si dispone che il ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di Euro 2.000 in favore della Cassa delle Ammende.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2.000 in favore della Cassa delle Ammende.