Il reato di maltrattamenti in famiglia

Corte di Cassazione, sezione sesta penale, Sentenza 15 novembre 2019, n. 46476.

Massima estrapolata:

Il reato di maltrattamenti in famiglia è un reato proprio che può essere commesso solo da chi rivesta un ruolo nel contesto familiare (coniuge, genitore, figlio) e soltanto ai danni di un soggetto che faccia parte dell’aggregazione familiare, latu sensu intesa, laddove invece il reato di stalking può essere commesso da chiunque con atti di minaccia o molestia reiterati e non presuppone l’esistenza di relazioni soggettive specifiche tra l’agente e il soggetto passivo del reato.

Sentenza 15 novembre 2019, n. 46476

Data udienza 12 giugno 2019

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PETITTI Stefano – Presidente

Dott. COSTANZO Angelo – Consigliere

Dott. CAPOZZI Angelo – Consigliere

Dott. COSTANTINI Antonio – Consigliere

Dott. SILVESTRI Pietro – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
(OMISSIS), nato a (OMISSIS);
avverso la sentenza emessa dalla Corte di appello di Milano il 14/11/2018;
udita la relazione svolta dal Consigliere Dr. Silvestri Pietro;
udito il Sostituto Procuratore Generale, Dr. Orsi Luigi, che ha concluso chiedendo che il ricorso sia dichiarato inammissibile;
udito il difensore della parte civile, avv. (OMISSIS) in difesa di (OMISSIS), che ha concluso riportandosi alle conclusioni depositate

RITENUTO IN FATTO

1. La Corte di appello di Milano ha confermato la sentenza con cui (OMISSIS) e’ stato condannato per il reato aggravato di maltrattamenti in famiglia, commesso in danno della convivente e dalla figlia minore fino al (OMISSIS).
2. Ha proposto ricorso per cassazione il difensore dell’imputato articolando un unico motivo con sui si deduce violazione di legge e vizio di motivazione in ordine al giudizio di penale responsabilita’.
La sentenza sarebbe viziata, sotto un primo profilo, quanto alla qualificazione giuridica dei fatti che sarebbero riconducibili, si assume, al delitto di cui all’articolo 612 bis c.p. e non a quello di maltrattamenti in famiglia.
Il reato di atti persecutori sarebbe stato escluso in ragione della clausola di sussidiarieta’ interna all’articolo 612 bis c.p. e della ritenuta maggiore gravita’ del delitto previsto dall’articolo 572 c.p., considerato speciale rispetto a quello di atti persecutori; secondo il ricorrente, invece, in ragione delle modifiche legislative apportate alla cornice edittale della norma in questione con la L. n. 119 del 2013, il reato piu’ grave dovrebbe essere considerato quello di atti persecutori e non quello di maltrattamenti in famiglia; la struttura delle fattispecie sarebbe infatti sovrapponibile, soprattutto se la comparazione venga compiuta con il disposto di cui all’articolo 612 bis c.p., comma 2.
Nel caso di specie, la fattispecie applicabile sarebbe dunque quella di atti persecutori.
Sotto altro profilo, si assume che, ove pure si volesse propendere per la tesi secondo cui i fatti sarebbero riconducibili al reato di maltrattamenti in famiglia, nondimeno occorrerebbe distinguere le condotte illecite poste in essere in costanza di convivenza e/o coabitazione da quelle realizzate dopo la cessazione di tale rapporto, configurandosi in tal caso un concorso tra i due reati; nel caso di specie la convivenza sarebbe cessata nel (OMISSIS) e dunque gli episodi successivi dovrebbero essere condotti al reato di atti persecutori.
Sotto ulteriore profilo, la sentenza sarebbe viziata nella parte in cui ha ritenuto integrato il reato anche rispetto alla figlia minore in ragione dei maltrattamenti inflitti alla di lei madre; l’imputato avrebbe compiuto solo in due occasioni comportamenti vessatori direttamente rivolti verso la figlia minore e dunque non vi sarebbe l’abitualita’ dei comportamenti in tal senso; in ogni caso difetterebbe l’elemento soggettivo, non configurabile nemmeno nella forma del dolo eventuale.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1.II ricorso e’ infondato.
2. Dalla sentenza impugnata e da quella del Tribunale emerge che: a) i fatti oggetto del procedimento furono compiuti nell’ambito “di interrelazioni soggettive specifiche”, cioe’ di rapporti di convivenza fra il ricorrente e la sua compagna, unitamente ad una figlia minore; 2) anche nel periodo in cui vi fu una breve interruzione del rapporto di convivenza, le condotte attribuite all’odierno imputato trovavano la loro ragione giustificativa nel rapporto di convivenza, atteso il tentativo di indurre la persona offesa a “tornare a casa”.
La Corte di cassazione ha individuato l’ambito di applicazione del reato di maltrattamenti in famiglia attraverso una interpretazione estensiva della nozione di rapporti basati sui vincoli familiari, intendendosi per famiglia non solo quella fondata sul matrimonio ma ogni gruppo di persone tra le quali, per strette relazioni e consuetudini di vita, si siano instaurati rapporti di assistenza e solidarieta’ reciproche, senza la necessita’ (pure ricorrente) della convivenza o di una stabile coabitazione.
Il delitto di maltrattamenti in famiglia e’ stato configurato in tutti i casi le condotte siano compiute nell’ambito di qualunque relazione sentimentale che, per la consuetudine dei rapporti creati, implichi l’insorgenza di vincoli affettivi e aspettative di assistenza assimilabili a quelli tipici della famiglia o della convivenza abituale (Sez. 6, n. 31121 del 18/03/2014, C., Rv. 261472).
Si e’ precisato che in ragione dei doveri di rispetto reciproco, assistenza morale e materiale e di solidarieta’ nascenti dal rapporto coniugale o dal rapporto di filiazione il reato in esame e’ configurabile anche in danno di persona non convivente o non piu’ convivente con l’agente quando quest’ultimo e la vittima siano legati da vincoli nascenti dal coniugio o dalla filiazione (Sez. 6, n. 30704 del 19/05/2016, D’A, Rv. 267942; Sez. 6, n. 33882 del 08/07/2014, C., Rv. 262078)
Il quadro delineato non muta a seguito dell’entrata in vigore del Decreto Legge 23 febbraio 2009, n. 11 convertito, con modificazioni, dalla L. 23 aprile 2009, n. 38, che ha introdotto nell’ordinamento il reato di atti persecutori, cioe’ di un delitto: a) che ha una oggettivita’ giuridica diversa rispetto a quello di maltrattamenti in famiglia, essendo questo un reato contro l’assistenza familiare ed il primo un reato contro la liberta’ morale; b) che riguarda soggetti attivi e passivi diversi, dal momento che il reato di atti persecutori e’ un reato che puo’ essere commesso da chiunque con atti di minaccia o molestia “reiterati” (reato abituale) e che non presuppone l’esistenza di interrelazioni soggettive specifiche tra l’agente e il soggetto passivo del reato mentre, al di la’ della lettera della norma incriminatrice (chiunque), il reato di maltrattamenti familiari e’ un reato proprio che puo’ essere commesso soltanto da chi ricopra un ruolo nel contesto della famiglia (coniuge, genitore, figlio) e soltanto in pregiudizio di un soggetto che faccia parte dell’aggregazione familiare, lato sensu intesa.
In tale contesto la Corte di cassazione ha chiarito i rapporti tra le due fattispecie incriminatrici, affermando che, salvo il rispetto della clausola di sussidiarieta’ prevista dall’articolo 612-bis c.p., comma 1, – che rende applicabile il piu’ grave reato di maltrattamenti quando la condotta valga ad integrare gli elementi tipici della relativa fattispecie – e’ invece configurabile l’ipotesi aggravata del reato di atti persecutori, di cui all’articolo 612 bis c.p., comma 2, in presenza di comportamenti che, sorti nell’ambito di una comunita’ familiare (o a questa assimilata), ovvero determinati dalla sua esistenza e sviluppo, esulino dalla fattispecie dei maltrattamenti per la sopravvenuta cessazione del vincolo familiare ed affettivo o comunque della sua attualita’ temporale. (Sez. 6, n. 24575 del 24/11/2011 (dep. 2012) Frasca, Rv. 252906).
Nella motivazione della sentenza si precisa che cio’ puo’ valere, in particolare, in caso di divorzio o di relazione affettiva definitivamente cessata con la persona offesa, ravvisandosi viceversa il reato di maltrattamenti in caso di condotta posta in essere in presenza di una separazione legale o di fatto.
Tale conclusione e’ fondata sul rispetto dei doveri di rispetto reciproco, assistenza morale e materiale e di solidarieta’ nascenti dal rapporto coniugale che neppure la separazione vale a porre nel nulla; risalente nella giurisprudenza e’, infatti, l’affermazione secondo la quale, poiche’ la convivenza non rappresenta un presupposto della fattispecie criminosa in questione, il suddetto stato di separazione non esclude il reato di maltrattamenti, quando l’attivita’ persecutoria si valga o comunque incida su quei vincoli che, rimasti intatti a seguito del provvedimento giudiziario, pongono la parte offesa in posizione psicologica subordinata (Sez. 6, n. 282 del 26/1/1998, Traversa, Rv. 210838).
La permanenza della condotta di maltrattamenti cessa solo allorche’ interviene il divorzio cui non segua la ricomposizione di una relazione e consuetudine di vita improntata a rapporti di assistenza e solidarieta’ reciproche (Sez. 6, n. 50333 del 12/06/2013, L., Rv. 258644).
Dunque, fermo restando la clausola di sussidiarieta’ prevista dall’articolo 612 bis c.p., comma 1, le condotte vessatorie poste in essere ai danni del coniuge non piu’ convivente, a seguito di separazione legale o di fatto, continuano ad integrare il reato di maltrattamenti in famiglia e non quello di atti persecutori, in quanto i vincoli nascenti dal coniugio o dalla filiazione permangono integri anche a seguito del venir meno della convivenza; il reato previsto dall’articolo 612-bis c.p. e’ configurabile solo nel caso di divorzio tra i coniugi, ovvero di cessazione della relazione di fatto (Sez. 6, n. 3087 del 19/12/2017, dep. 2018, F., Rv. 272134).
Tali considerazioni inducono nel caso di specie non solo a riaffermare la sussistenza del reato di maltrattamenti in famiglie per le condotte compiute nel corso della convivenza, ma anche per quelle successive al periodo in cui la convivenza fu solo interrotta, ma mai di fatto cessata.
Ne consegue l’infondatezza del motivo di ricorso sul tema.
3. Inammissibile e’ invece il motivo di ricorso relativo alla configurazione del delitto di cui all’articolo 572 c.p. per le condotte in danno della figlia minore.
A fonte di una motivazione puntuale da cui emerge che la bambina non solo fu costretta ad assistere alle violenze ed ai maltrattamenti compiuti dall’imputato in danno della madre, ma divenne essa stessa destinataria delle gravi minacce e delle condotte gravissime dell’imputato (tutte descritte nelle sentenze di merito) e fu costretta a vivere in un clima generalizzato e sistemico di timore che (OMISSIS) potesse riversare la sua rabbia in famiglia, nulla di specifico e’ stato dedotto.
Le censure dedotte si sviluppano infatti sul piano della ricostruzione fattuale e sono sostanzialmente volte a sovrapporre un’interpretazione delle risultanze probatorie diversa da quella recepita dai giudici di merito, piuttosto che a far emergere un vizio della motivazione rilevante ai sensi dell’articolo 606 c.p.p..
Secondo i principi consolidati dalla Corte di cassazione la sentenza non puo’ essere annullata sulla base di mere prospettazioni alternative che si risolvano in una rilettura orientata degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, ovvero nell’assunzione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, da preferire rispetto a quelli adottati dal giudice del merito, perche’ considerati maggiormente plausibili, o perche’ assertivamente ritenuti dotati di una migliore capacita’ esplicativa nel contesto in cui la condotta delittuosa si e’ in concreto realizzata (Sez. 6, n. 47204 del 7/10/2015, Musso, rv. 265482; Sez. 6, n. 22256 del 26/04/2006, Bosco, rv. 234148).
L’odierno ricorrente ha riproposto con il ricorso per cassazione la versione dei fatti dedotta in primo e secondo grado e disattesa dai Giudici del merito; compito del giudice di legittimita’ nel sindacato sui vizi della motivazione non e’ tuttavia quello di sovrapporre la propria valutazione a quella compiuta dai giudici di merito, ma quello di stabilire se questi ultimi abbiano esaminato tutti gli elementi a loro disposizione, se abbiano fornito una corretta interpretazione di essi, dando completa e convincente risposta alle deduzioni delle parti, e se abbiano esattamente applicato le regole della logica nello sviluppo delle argomentazioni che hanno giustificato la scelta di determinate conclusioni a preferenza di altre.
Nel caso di specie, i giudici di appello, che pure hanno fatto riferimento alle argomentazioni sviluppate nella sentenza di primo grado, hanno fornito una valutazione analitica ed autonoma sui punti specificamente indicati nell’impugnazione di appello, di talche’ la motivazione risulta esaustiva ed immune dalle censure proposte.
5. Al rigetto del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento ed alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute dalla parte civile, ammessa al gratuito patrocinio, che saranno liquidate in separata sede.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Condanna, inoltre, l’imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile ammessa al patrocinio a spese dello Stato, nella misura che sara’ separatamente liquidata, disponendo il pagamento di tali spese in favore dello Stato.
In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalita’ e gli altri dati identificativi, a norma del Decreto Legislativo n. 196 del 2003, articolo 52, in quanto imposto dalla legge.

 

In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.

Per aprire la pagina facebook @avvrenatodisa
Cliccare qui

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *