Il reato di falsità ideologica in certificati

Corte di Cassazione, penale, Sentenza 19 ottobre 2020, n. 28847.

Integra il reato di falsità ideologica in certificati commesso da persone esercenti un servizio di pubblica necessità, la condotta del medico che prescriva sul proprio ricettario personale (cd. “ricetta bianca”) un farmaco senza accertare la sussistenza della specifica condizione patologica che ne giustifichi la somministrazione, in quanto, pur non essendo necessaria la esplicitazione della anamnesi e della diagnosi correlata alla prescrizione, tale ricetta ha natura attestativa del diritto dell’interessato alla prestazione farmacologica a cagione del suo stato di malattia.

Sentenza 19 ottobre 2020, n. 28847

Data udienza 7 settembre 2020

Tag – parola chiave: Falsità ideologica in certificati da parte di esercente una professione sanitaria – Prescrizione farmacologica – Accertamento diretto da parte del sanitario – Valenza certificativa della ricetta – Logicità della motivazione – Inammissibilità

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUINTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PALLA Stefano – Presidente

Dott. CATENA Rossella – rel. Consigliere

Dott. SETTEMBRE Antonio – Consigliere

Dott. MICHELI Paolo – Consigliere

Dott. CAPUTO Angelo – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
(OMISSIS), nato a (OMISSIS);
avverso la sentenza della Corte di Appello di Torino emessa in data 20/12/2019;
visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Dott.ssa Rossella Catena;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Picardi Antonietta, che ha concluso per l’inammissibilita’ del ricorso;
udito per il ricorrente (OMISSIS) il difensore di fiducia, avv.to (OMISSIS), che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1.Con la sentenza impugnata la Corte di Appello di Torino, in riforma della sentenza emessa in data 21/02/2014 dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Verbania, con cui (OMISSIS) era stato condannato a pena di giustizia per il reato di cui all’articolo 480 c.p. – cosi’ diversamente qualificata l’originaria imputazione di cui all’articolo 479 c.p. – qualificava la condotta ai sensi dell’articolo 481 c.p., determinando la pena in Euro 500,00 di multa.
2. In data 04/06/2020 (OMISSIS) ricorre, a mezzo del difensore di fiducia avv.to (OMISSIS), deducendo un unico motivo, di seguito enunciato nei limiti di cui all’articolo 173 disp. att. c.p.p., comma 1: violazione di legge, in riferimento all’articolo 481 c.p., ai sensi dell’articolo 606 c.p.p., lettera b), in quanto, nel caso in esame, le due ricette sottoscritte dal (OMISSIS) in data 11/09/2012 e 27/12/2012, contraddistinte dal numero 110912 la prima e 271212 la seconda, non sono riferibili al SSN, trattandosi di ricette cosi’ dette “bianche”, ossia ricette libere del medico di base; questi, pertanto, nel caso in esame, non e’ qualificabile come pubblico ufficiale, bensi’ come esercente una professione sanitaria – come riconosciuto dalla Corte territoriale -, ma le due ricette in esame non possono costituire certificati, bensi’ solo scritture private aventi natura autorizzativa, posto che non contengono alcuna attestazione di fatti di cui l’atto stesso e’ destinato a provare la verita’, trattandosi di ricette su carta bianca in cui si prescrive un farmaco senza dare atto di uno stato patologico, quindi prive di valenza certificativa ed a contenuto meramente autorizzatorio, con cui il medico rimuove l’ostacolo che la legge frappone fra il cittadino ed il farmacista al momento dell’acquisto di un farmaco di cui e’, appunto, consentita dalla legge la vendita solo se l’utente si munisca di apposita autorizzazione; nei documenti in esame manca, quindi, quel contenuto di dichiarazioni di scienza che connota i documenti individuati dalla fattispecie di cui all’articolo 481 c.p..

CONSIDERATO IN DIRITTO

Il ricorso e’ inammissibile, in quanto reiterativo di argomentazioni ampiamente analizzate dalla sentenza impugnata.
Va ricordato che l’istruttoria dibattimentale aveva accertato che presso la farmacia (OMISSIS) erano state acquisite due prescrizioni di Andriol, farmaco a base di testosterone, rilasciate dal Dott. (OMISSIS) nei confronti di (OMISSIS); mentre in un primo momento il (OMISSIS) aveva affermato di aver prescritto il farmaco al proprio suocero di 89 anni, da poco operato alla prostata, il farmacista (OMISSIS) aveva ammesso di aver venduto, in realta’, anabolizzanti in assenza di prescrizione medica ad una sola persona e che, pertanto, aveva chiesto al (OMISSIS) il rilascio delle due prescrizioni di comodo, indicandogli le date. Pacifica appare la circostanza, evidenziata dalla Corte di merito, che il (OMISSIS) avesse redatto le due prescrizioni farmacologiche su ricettari liberi, pertanto al di fuori dell’esercizio di attivita’ in convenzione con il Servizio Sanitario Nazionale quindi nel suo ruolo di libero professionista, non potendosi pertanto attribuire al
ricorrente la qualifica di pubblico ufficiale, bensi’ quella di esercente una professione sanitaria; il contenuto della prescrizione – ha affermato la sentenza impugnata – e’ comunque di natura certificativa, in quanto attesta il diritto dell’interessato all’erogazione del medicinale in conseguenza del riscontrato stato patologico, cio’ che, nel caso di specie, era reso evidente dal fatto che il medicinale prescritto era a base di testosterone, la cui commercializzazione e’ rigidamente regolamentata e subordinata a specifiche finalita’ terapeutiche. Ne consegue, secondo la Corte territoriale, l’inquadramento della condotta ai sensi dell’articolo 481 c.p., nonche’ la constatazione che la prescrizione farmacologica presuppone l’accertamento, da parte del medico, della sussistenza di una condiziona patologica che giustifichi la somministrazione del prodotto, a prescindere dall’esplicitazione, sulla ricetta, della diagnosi correlata alla prescrizione.
Dal punto di vista dell’inquadramento della fattispecie, correttamente effettuato dalla Corte di merito, va ricordato quanto affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte, con una non recente ma incontestata pronuncia (Sez. U, sentenza n. 18056 del 24/04/2002, Panarelli ed altro, Rv. 221404), che ha chiarito come, non provenendo da un pubblico ufficiale, i certificati rilasciati da persone esercenti un servizio di pubblica necessita’ non sono ne’ atti pubblici, tutelabili a norma degli articoli 476 o 479 c.p., ne’ certificati amministrativi, tutelabili a norma degli articolo 477 o 480 c.p..
L’articolo 481 c.p., infatti, prevede uno speciale titolo di reato per le falsita’ ideologiche relative a questi atti, che hanno rilevanza pubblica in quanto certificazioni, ma natura privata in quanto provenienti da soggetti non investiti di pubbliche funzioni.
Le Sezioni Unite hanno ricordato come, secondo la consolidata giurisprudenza di legittimita’, il certificato amministrativo proveniente da un pubblico ufficiale debba essere connotato dalla presenza di due condizioni: che l’atto non attesti i risultati di un accertamento compiuto dal pubblico ufficiale redigente, ma riproduca attestazioni gia’ documentate e che, pur quando riproduca informazioni desunte da altri atti gia’ documentati, non abbia una propria distinta e autonoma efficacia giuridica, ma si limiti a riprodurre anche gli effetti dell’atto preesistente. A differenza del certificato amministrativo proveniente da un pubblico ufficiale, quindi, il certificato disciplinato e tutelato dall’articolo 481 c.p. va individuato in qualsiasi attestazione di fatti rilevanti nell’ambito del servizio di pubblica necessita’ esercitato dall’autore dell’atto. Proprio detta delimitazione della categoria – secondo le Sezioni Unite – fa si’ che “i certificati di esercenti un servizio di pubblica necessita’ non sono certificati in senso proprio, in quanto possono anche richiedere un accertamento di fatti direttamente percepiti da parte dell’autore dell’atto (Cass., sez. V, 14 dicembre 1977, Cristiani, m. 138192, Cass., sez. V, 26 novembre 1981, Faina, m. 152705)”, in tal senso, quindi, emergendo la differenza tra la categoria dei documenti tutelati dall’articolo 481 c.p. e la categoria dei certificati amministrativi proveniente da un pubblico ufficiale.
Pertanto, “I certificati rilasciati da persone esercenti un servizio di pubblica necessita’ sono attestazioni private qualificate di una particolare rilevanza pubblica, che ne giustifica la tutela anche contro le falsita’ ideologiche, punite a norma dell’articolo 481 c.p.; ma quando i relativi documenti sono oggetto di falsita’ materiale, per contraffazione o per alterazione, il reato configurabile e’ quello di falsita’ in scrittura privata previsto dall’articolo 485 c.p.”.
Non vi e’ alcun dubbio, quindi, alla luce della giurisprudenza di legittimita’, che la prescrizione medica, documento compilato da un esercente la professione sanitaria, abbia duplice natura: di atto certificativo, da un lato, in quanto presuppone una condizione di malattia o, comunque, di sofferenza del soggetto che richiede la somministrazione della terapia prescritta e, in tal senso, la prescrizione rappresenta l’attivita’ ricognitiva, da parte del sanitario, circa il diritto dell’assistito alla erogazione di quello specifico medicinale; per altro verso, se ne apprezza la natura autorizzativa, in quanto la prescrizione rende fruibile detto diritto, consentendo all’amministrazione, tramite il servizio farmaceutico, la vendita del medicinale stesso, con rimozione di ogni ostacolo alla erogazione, escluse le ipotesi di farmaci “da banco”, per i quali la vendita e’ libera, essendo gli stessi commerciabili a prescindere da prescrizione medica.
Detta impostazione trova conferma nella giurisprudenza delle Sezioni semplici di questa Corte, altrettanto univocamente orientata nella parte in cui ha approfondito il profilo certificativo dei documenti tutelati dalla disposizione di cui all’articolo 481 c.p., tra cui la prescrizione farmacologica redatta su ricettario personale del sanitario. E’ stato infatti affermato, sul tema, che il reato di falsita’ ideologica in certificazioni amministrative deve ritenersi sussistente in tutti i suoi elementi quando il giudizio diagnostico espresso dal medico certificante si fonda su fatti esplicitamente dichiarati o implicitamente contenuti nel giudizio medesimo, che siano non rispondenti al vero, e che cio’ sia conosciuto da colui che ne fa attestazione (Sez. 5, sentenza n. 13509 del 13/01/2015, Vabba, Rv. 263066; Sez. 5, sentenza n. 6934 del 16/02/1981, Grassi, Rv. 149762;
Sez. 5, sentenza n. 9412 del 03/07/1979, Gavazzi, Rv. 143386; Sez. 5,
sentenza n. 2514 del 14/12/1977, dep. 06/03/1978, Cristiani, Rv. 138192; Sez. 6, sentenza n. 11482 del 24/05/1977, Coluccia, Rv. 136820; Sez. 1, sentenza n. 1073 del 25/06/1969, Pietrocola, Rv. 113207).
In altre parole, alla luce della peculiare natura della prescrizione farmacologica, e’ evidente, anzitutto sotto un profilo logico, che tale documento non possa essere considerato la mera riproduzione di un fatto gia’ rappresentato da altri documenti; esso, infatti, presuppone un’attivita’ di accertamento diretto da parte del sanitario che emette la prescrizione, che si pone in rapporto di funzionalita’ con il contenuto della certificazione stessa. Detta attivita’ di accertamento diretto puo’ assumere varie forme, a seconda dei casi, ma non puo’ certamente basarsi sulla mera riproduzione di una semplice notizia, in quanto, nel prescrivere un farmaco specifico, il sanitario attesta che il soggetto fruitore appartiene ad una delle categorie rispetto alle quali il farmaco e’ destinato a produrre i propri effetti. Detta attestazione si puo’ basare, evidentemente, su svariate modalita’ ricognitive: su di una specifica visita del paziente, ovvero sul colloquio personale del medico con il paziente che gli riferisce determinati sintomi, ovvero ancora sullo svolgimento di esami clinico-diagnostici, sulla pregressa conoscenza del paziente da parte del medico e sulle pregresse cure allo stesso somministrate, modalita’ tutte che, in ogni caso, implicano una cognizione diretta della specifica situazione rispetto alla quale la prescrizione si pone come necessaria.
Cio’ che rileva, infatti, non e’ la specifica modalita’ ricognitiva a monte dell’attestazione, bensi’ la circostanza che un’attivita’ diretta di ricognizione vi sia stata, posto che – a norma dell’articolo 22 del Codice Deontologico adottato dal Consiglio Nazionale della Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri – il sanitario, nel redigere certificazioni, deve valutare ed attestare soltanto dati clinici che abbia direttamente constatato, ossia dati obiettivi di competenza tecnica che abbia personalmente accertato in totale aderenza alla realta’. Ad esempio, un sanitario che conosce gia’ la situazione di un paziente, per averlo in cura da tempo, a fronte di determinati sintomi ricorrenti, sara’ in grado di procedere ad una prescrizione anche prescindendo da una visita accurata, ed all’esito di un semplice colloquio con il paziente stesso. Al contrario, allorche’ lo stato patologico non sia riscontrabile a mezzo dell’esame obiettivo e/o degli accertamenti strumentali, il medico non puo’ affermare di aver trovato il paziente affetto dalla patologia lamentata, ma deve certificare solo che il paziente riferisce determinati sintomi; in sostanza, proprio l’articolo 22 del Codice Deontologico prevede che il medico, nel redigere le certificazioni, debba attestare solo dati clinici che abbia direttamente constatato, al fine di evitare il rilascio di certificati di comodo; certamente, quindi, non puo’ essere considerata attivita’ ricognitiva – nonostante la prassi diffusa in tal senso – quella del medico che prescriva un farmaco semplicemente colloquiando al telefono con un assistito mai incontrato, il quale gli descrive determinati sintomi, senza averlo mai visitato e senza neanche conoscerne, ad esempio, le potenziali reazioni allergiche ad un determinato farmaco.
Sicche’ deve affermarsi che la prescrizione di un medicinale presuppone, in linea generale, che il medico abbia visitato il paziente e abbia riscontrato l’esistenza di una patologia o di un disturbo per la cui cura e’ necessario il farmaco prescritto nella ricetta. Ovviamente questo principio vale in senso ampio, atteso che se il medico conosce il paziente ed e’ a conoscenza del tipo di patologia da cui e’ affetto (ad esempio nel caso di malattie croniche), puo’ anche rilasciare la ricetta senza dover necessariamente visitare ogni volta il paziente. L’importante, pero’, e’ che il medico non rilasci mai ricette “al buio”, senza essere sicuro della patologia esistente o basandosi soltanto su quanto gli viene riferito, senza aver provveduto a riscontrare oggettivamente la sussistenza della patologia.
Ne consegue, quindi, che in tal senso deve sicuramente affermarsi, in relazione alla specifica natura della prescrizione farmacologica, come essa non possa basarsi su di una mera notizia fornita da parte di chi la richiede.
In questi termini non puo’ non convenirsi con gli approdi ermeneutici che hanno ribadito come un documento proveniente da un medico puo’ qualificarsi certificato medico, ai sensi e per gli effetti di cui all’articolo 481 c.p., in quanto il suo contenuto rappresenti una “certificazione”, attesti, cioe’, fatti dei quali l’atto e’ destinato a provare la verita’, per cui il reato di falsita’ ideologica in certificazione amministrativa deve ritenersi sussistente in tutti i suoi elementi quando il giudizio diagnostico espresso dal medico certificante si fonda su fatti, esplicitamente dichiarati o implicitamente contenuti nel giudizio medesimo, che siano non rispondenti al vero, e cio’ sia conosciuto da colui che ne fa attestazione (Sez. 5, sentenza n. 6934 del 16/02/1981, Grassi, Rv. 149762).
Non puo’, invece, concordarsi con una rigida presunzione, quale, ad esempio, quella che sembra richiamata da Sez. 5, sentenza n. 2659 del 26/11/1981, dep. 10/03/1982, Faina, Rv. 152705, secondo cui “I certificati rilasciati da chi esercita un servizio di pubblica necessita’, che non riproducano un fatto gia’ rappresentato da altri documenti, presuppongono un’attivita’ diretta di accertamento da parte di chi emette il certificato”. Tale pronuncia, infatti, ha affermato che il certificato medico implichi necessariamente la visita del paziente da parte del sanitario che lo ha rilasciato.
Si tratta, in realta’, di un’affermazione che puo’ essere condivisa solo in parte, nel senso che – come gia’ in precedenza chiarito – cio’ che rileva dal punto di vista della certificazione, nel caso previsto dall’articolo 481 c.p., e’ la individuazione, da parte del sanitario, del titolare del diritto all’acquisizione del farmaco come soggetto che rientra nella categoria – o in una delle categorie – rispetto alla quale il farmaco svolge la propria finalita’ curativa. In tal modo, quindi, la funzione accertativa si pone in rapporto di causalita’ con la funzione autorizzatoria che, per altro aspetto, caratterizza il documento.
Sarebbe, al contrario, eccessivo dilatare la portata della norma dando per implicito che ogni prescrizione farmacologica corrisponda necessariamente ad una visita del sanitario, automatismo che non puo’ essere individuato soprattutto nei casi – come quello in esame – di assenza nel certificato di una anamnesi e di una diagnosi, che mancano anche sotto l’aspetto grafico.
Come detto, infatti, cio’ che rileva e’ la funzione certificativa del sanitario, nel senso indicato, non anche come il sanitario stesso sia pervenuto a porre in essere la certificazione medesima, se attraverso una visita del paziente, un colloquio visivo con lo stesso o altro, soprattutto in considerazione della variegata tipologia di relazione professionale che puo’ sussistere tra un medico ed i suoi pazienti, nonche’ in considerazione della diversissima tipologia di farmaci prescrivibili.
Occorre, quindi, ai fini di inquadrare correttamente i profili rilevanti nel caso di specie, ricordare la differenza tra le varie tipologie di ricette, per quanto di interesse, fermo restando che entrambe condividono la medesima funzione accertativa, come dinanzi descritta (Sez. 5, sentenza n. 13509 del 13/01/2015, Vabba, Rv. 263066; Sez. 5, sentenza n. 33548 del 23/03/2005, Cantalino, Rv. 232332)
In particolare rileva la differenza tra la ricetta redatta su ricettario regionale che permette l’erogazione di farmaci e prestazioni a carico del servizio sanitario regionale – e la cosiddetta ricetta “bianca” del ricettario personale del medico, che permette comunque l’erogazione delle prestazioni e dei farmaci, a completo carico del cittadino.
La prima e’ anche detta ricetta “rossa” o rosa”, cosi’ definita per la bordatura colorata dei campi in cui il medico inserisce i dati necessari, puo’ essere compilata solo dai medici dipendenti di strutture pubbliche o convenzionate con il Servizio Sanitario Nazionale e viene utilizzata per la prescrizione di una terapia farmacologica, la prescrizione di un esame diagnostico o una visita specialistica a carico del detto Servizio Sanitario Nazionale. I medici dipendenti di strutture pubbliche o convenzionate con il Servizio Sanitario Nazionale utilizzano questo ricettario solo nell’ambito dell’esercizio della loro attivita’ di medici del servizio stesso; se un medico svolge anche attivita’ privata, in quel contesto egli non e’ piu’ un “medico pubblico”, bensi’ un medico privato e, quindi, non puo’ prescrivere farmaci, viste o esami a carico del Servizio Sanitario Nazionale, ma deve utilizzare esclusivamente la cosiddetta “ricetta bianca”, cosi’ come il medico ospedaliero che svolge anche attivita’ libero professionale in intramoenia, ambito nel quale non puo’ usare il ricettario regionale.
La ricetta bianca, invece, e’ quella che il medico compila su carta bianca, sulla quale devono essere, pero’, riportati il nome e cognome del medico, la data, il luogo e la sua firma autografa. In questo tipo di ricetta, quindi, non sono necessari ne’ il nome dell’assistito ne’ l’indicazione dell’anamnesi. Con la ricetta bianca possono essere prescritte tutte le prestazioni di specialistica ambulatoriale, di diagnostica strumentale e di laboratorio, di norma correlate alla branca di specializzazione del medico, ed i farmaci, prestazioni che saranno sempre a carico del cittadino assistito.
Per completezza va ricordato che la ricetta rossa, una volta cartacea, e’ ora sempre piu’ sostituita dalla ricetta elettronica o dematerializzata; si tratta di una vera e propria ricetta virtuale, che il medico compila usando uno specifico programma del sistema sanitario della regione, per cui e’ abilitato. Per permettere ai cittadini di prenotare esami e visite e ritirare i farmaci, il medico stampa un “promemoria” su carta comune, che riporta campi e informazioni dello stesso tipo della ricetta rossa del servizio sanitario; il medico, inoltre, inserisce al computer le stesse informazioni di cui necessita per compilare la ricetta rossa cartacea. Non c’e’, quindi, alcuna differenza, in quanto la ricetta
elettronica ha le stesse caratteristiche della ricetta rossa che, tuttavia, e’ ancora necessaria per alcune specifiche tipologie di prescrizioni (ossigeno, farmaci stupefacenti, sostanze psicotrope, ed altro) – in termini di capacita’ di prescrizione da parte del medico e di validita’ temporale, con il vantaggio che, al contrario della ricetta cartacea, quella elettronica permette di ritirare i farmaci in qualunque regione, anche diversa dalla propria, senza pagare il prezzo del farmaco, ma solo il ticket della propria regione di residenza e l’eventuale differenza rispetto al prezzo di riferimento del generico a piu’ basso costo.
La ricetta redatta sul ricettario del Sevizio Sanitario Nazionale e la ricetta bianca differiscono, quindi, anche perche’ solo sulla prima devono essere indicato il nome e il cognome dell’assistito, il suo codice fiscale, il codice dell’Azienda Sanitaria di riferimento, gli eventuali codici e motivi di esenzione e l’eventuale nota AIFA pertinente, salva la richiesta dell’assistito che sul proprio nome e cognome sia apposta una etichetta adesiva per tutelare la sua riservatezza.
La ragione di tale differenza sta nel fatto che la prescrizione del Sevizio Sanitario Nazionale non occorre solo per ritirare i medicinali in farmacia, ma e’ necessaria anche al farmacista per farsi rimborsare dallo Stato il costo dei medicinali forniti agli assistiti. Questa ricetta, quindi, ha anche una finalita’ amministrativa e
contabile, perche’ con essa il medico pone a carico della finanza pubblica la spesa dei medicinali, con la conseguenza che eventuali prescrizioni di farmaci a carico del Servizio Sanitario Nazionale che siano ritenute inappropriate, possono essere contestate al medico da parte della Corte dei Conti.
Tali requisiti, al contrario, non sono richiesti per la “ricetta bianca”, data la sua funzione, appena descritta, sicche’ proprio dette caratteristiche consentono di considerare non condivisibile l’affermazione secondo la quale anche tale tipo di ricetta implichi necessariamente la preventiva visita del paziente da parte del sanitario che la ha rilasciata, non potendosi considerare verificata, in virtu’ di un ingiustificabile automatismo, una circostanza che non corrisponde neanche ad un’informazione necessaria ai fini della compilazione della prescrizione, posto che l’anamnesi e la diagnosi – come visto – non sono elementi essenziali ed indefettibili della ricetta bianca.
Cio’ nondimeno, il documento, come detto, conserva intatta la propria valenza certificativa – su cui, quindi, puo’ innestarsi il falso ideologico – nella misura in cui attesti, attraverso la prescrizione, che l’assistito abbia diritto a quella specifica prestazione o a quel determinato farmaco, a prescindere, quindi, dalla peculiare modalita’ con cui l’accertamento medico e’ stato effettuato che resta, in questa tipologia di documenti, in un certo senso sullo sfondo, nella misura in cui non e’ richiesta una specifica tipologia di verifica da parte del medico, che non deve essere neanche attestata; cio’ che rileva infatti, e’ l’attestazione che l’assistito rientri nella categoria dei soggetti aventi diritto alla specifica prestazione farmacologica.
Ne discende, quindi, come nel caso di specie la valutazione operata dalla Corte territoriale appaia in linea con tale incontrastato inquadramento giurisprudenziale, posto che entrambe le ricette “bianche” rilasciate dal (OMISSIS) risultano ideologicamente false, sia quanto all’identita’ dell’assistito a cui il farmaco era stato rilasciato sia, quindi, in riferimento alla totale carenza dei presupposti per la prescrizione del farmaco

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e della somma di Euro 3.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.

 

In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.

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