Il processo amministrativo non costituisce una giurisdizione di diritto oggettivo

Consiglio di Stato, sezione quinta, Sentenza 9 dicembre 2019, n. 8399

La massima estrapolata:

Il processo amministrativo non costituisce una giurisdizione di diritto oggettivo, volta semplicemente a ristabilire una legalità che si assume violata, ma ha la funzione di dirimere una controversia fra un soggetto che si afferma leso in modo diretto e attuale da un provvedimento amministrativo e l’amministrazione che lo ha emanato.

Sentenza 9 dicembre 2019, n. 8399

Data udienza 10 ottobre 2019

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Quinta
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso in appello numero di registro generale 8737 del 2010, proposto da
Sa. Et., rappresentato e difeso da se medesimo ex art. 86 Cod. proc. amm., con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Pa. Pa. in Roma, via (…);
contro
Comune di (omissis), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Gi. De Pi. e Fr. Ci., con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato As. Ma. in Roma, via (…);
Soc. Edil Ma. di Ma. Gi. & C. s.n. c., Gi. Ma., non costituiti in giudizio;
per la riforma
della sentenza breve del Tribunale amministrativo regionale per la Campania (sezione sesta) n. 3095/2010, resa tra le parti.
Visto il ricorso in appello;
Visto l’atto di costituzione in giudizio del Comune di (omissis);
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del 10 ottobre 2019 il Cons. Anna Bottiglieri e uditi per le parti gli avvocati Sa. e Ni. per delega dell’avv. Ci.;
Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue.

FATTO

L’avvocato Et. Sa., con ricorso notificato e depositato nel marzo 2010, impugnava al Tribunale amministrativo regionale per la Campania gli atti con cui il Comune di (omissis) ha alienato, ai sensi dell’art. 35 del d.lgs. n. 76 del 1990, un immobile sito in fraz. (omissis), via (omissis), sul presupposto che tale bene, di cui egli era comproprietario, fosse stato acquisito gratuitamente alla proprietà comunale, perché ricostruito fuori sito a seguito degli eventi sismici che hanno colpito negli anni ’80 parte del territorio della Regione Campania.
Il ricorrente, esponendo trattarsi di fabbricato rurale, sosteneva l’illegittimità degli atti della procedura (delibera consiliare n. 40/2000 di avvio della procedura di vendita; avviso d’asta pubblica del 22 luglio 2009; verbale d’asta del 10 agosto 2009; atto del 22 settembre 2009 di alienazione dell’immobile alla Ed. Ma. s.n. c.) e l’erroneità del predetto presupposto, in quanto il comma 7 dello stesso art. 35 del d.lgs. n. 76 del 1990 esclude l’acquisibilità alla mano pubblica delle aree di sedime degli edifici non ricostruibili in sito ove localizzate in zona agricola, e lamentando la mancata comunicazione dell’avvio del procedimento.
Con sentenza breve n. 3095/2010 l’adito Tribunale amministrativo, nella resistenza del Comune di (omissis), dichiarava il ricorso inammissibile. Condannava il ricorrente alle spese del giudizio.
Il primo giudice rilevava che il ricorrente non aveva impugnato la delibera consiliare n. 20/1993, con la quale l’Amministrazione comunale aveva disposto l’acquisizione al patrimonio comunale, tra altri, dell’area di cui sopra, e ciò ancorché tale atto, come dimostrato dall’Amministrazione, gli fosse stato notificato a mezzo posta, mediante raccomandata con ricevuta di ritorno, pervenuta nella sfera giuridica del destinatario, cui era indirizzata, il 22 novembre 1993, ritirata da un terzo. Rilevava in ogni caso come la prova della conoscenza del contenuto lesivo di un provvedimento di acquisizione comunale emergesse da una nota del 22 settembre 2009 indirizzata al Comune, in atti, con la quale il ricorrente aveva contestato l’acquisizione stessa, senza, peraltro, impugnarla nei termini decadenziali di legge, con conseguente inammissibilità dell’impugnativa, per carenza di legittimazione attiva e interesse a ricorrere, proposta avverso gli atti della procedura di vendita da un soggetto che ormai doveva ritenersi non più proprietario del bene in base a un atto amministrativo divenuto inoppugnabile.
Avverso la sentenza l’interessato ha proposto l’odierno appello, con cui, riprodotto il contenuto del ricorso di primo grado e della sentenza appellata e sintetizzate le difese opposte dal Comune nel relativo giudizio, ha dedotto: 1) Error in procedendo: violazione dell’art. 102 Cod. proc. civ., carenza, contraddittorietà e apoditticità della motivazione, comunque apparente; 2) Violazione e falsa applicazione degli artt. 1335 Cod. civ. e 8 l. n. 890 del 1982 in relazione agli artt. 2697 Cod, civ., 214 e seg. Cod. proc. civ. e 24 Cost., error in procedendo, error in iudicando, travisamento dei fatti, apoditticità, illogicità, contraddittorietà della motivazione, motivazione apparente, nullità della sentenza e del procedimento; 3) Violazione e falsa applicazione dell’art. 100 Cod. proc. civ., vizio in iudicando, carenza e contraddittorietà di motivazione, comunque abnorme; 4) Violazione e falsa applicazione della l. 219/1981 e del d.lgs. n. 76/1990, abuso ed eccesso di potere, violazione dell’art. 97 Cost., violazione del principio di ragionevolezza, manifesta ingiustizia; 5) Violazione di legge, in particolare degli artt. 7 e 8 della l. n. 241 del 1990, per omessa preventiva comunicazione di avvio del procedimento, eccesso di potere per violazione del giusto procedimento; 6) in subordine, domanda risarcitoria; 7) applicazione quanto alle spese di lite del principio della soccombenza, riferito all’esito definitivo del duplice grado di giudizio.
L’appellante ha domandato per tali ragioni la riforma della sentenza gravata e l’annullamento degli atti impugnati e di quelli presupposti e connessi, con condanna dell’Amministrazione comunale alle restituzioni e al risarcimento dei danni così come quantificati in prime cure, con ordine di cancellazione di ogni trascrizione pregiudizievole sul bene immobile de quo, a cura e spese dell’Amministrazione e del terzo.
Il Comune di (omissis) si è costituito in resistenza, eccependo questioni preliminari e di merito e concludendo per la reiezione dell’appello.
La causa è stata trattenuta in decisione alla pubblica udienza del 10 ottobre 2019.

DIRITTO

1. Il processo amministrativo non costituisce una giurisdizione di diritto oggettivo, volta semplicemente a ristabilire una legalità che si assume violata, ma ha la funzione di dirimere una controversia fra un soggetto che si afferma leso in modo diretto e attuale da un provvedimento amministrativo e l’amministrazione che lo ha emanato (Cons. Stato, V, 19 febbraio 2007, n. 826).
In particolare, il diritto al ricorso nel processo amministrativo sorge in conseguenza della lesione attuale di un interesse sostanziale e tende a un provvedimento del giudice idoneo, se favorevole, a rimuovere quella lesione (Cons. Stato, II, 20 giugno 2019, n. 4233).
Le condizioni soggettive per agire in giudizio sono la legittimazione processuale, cosiddetta legittimazione ad agire, e l’interesse a ricorrere (Cons. Stato, IV, 21 gennaio 2019, n. 508).
Nel giudizio impugnatorio, la legittimazione ad agire spetta al soggetto che afferma di essere titolare della situazione giuridica sostanziale di cui lamenta l’ingiusta lesione per effetto del provvedimento amministrativo, posizione speciale e qualificata, che lo distingue dal quisque de populo rispetto all’esercizio del potere amministrativo, mentre l’interesse al ricorso consiste nel vantaggio pratico e concreto che può derivare al ricorrente dall’accoglimento dell’impugnativa (Cons. Stato, IV, 1° giugno 2018, n. 3321; 19 luglio 2017, n. 3563).
2. Alla stregua delle illustrate coordinate, l’appello è infondato.
3. L’appellante ha lamentato nel ricorso definito con la sentenza appellata che il Comune di (omissis) ha messo in vendita un bene immobile, di cui egli era comproprietario, sull’erroneo presupposto che lo stesso fosse stato preventivamente acquisito dall’Amministrazione comunale ai sensi dell’art. 35 del d.lgs. 30 marzo 1990, n. 76, Testo unico delle leggi per gli interventi nei territori della Campania, Basilicata, Puglia e Calabria colpiti dagli eventi sismici del novembre 1980, del febbraio 1981 e del marzo 1982, perché ricostruito fuori sito, mentre l’art. 35, comma 7, esclude l’acquisibilità alla mano pubblica delle aree di sedime degli edifici non ricostruibili in sito ove localizzate in zona agricola, fattispecie che assume qui sussistente.
La posizione che l’appellante ha azionato in giudizio è quella corrispondente al suo stato di comproprietario del bene immobile, che si assume illegittimamente leso dagli atti con cui l’Amministrazione ha disposto in ordine a tale bene.
Ciò posto, osserva il Collegio che tale posizione è stata effettivamente incisa da un unico atto.
Tale atto è la delibera consiliare n. 20 del 6 ottobre 1993, con cui l’Amministrazione comunale ha acquisito al proprio patrimonio l’area di sedime dell’immobile di cui trattasi, così interrompendo la relazione giuridica preesistente tra l’appellante e l’immobile, che non è stata più investita dai successivi atti, con cui il Comune si è limitato a esercitare, nella veste di proprietario, le facoltà connesse al diritto reale in tal modo acquisito.
La eventuale non conformità a legge di tale acquisizione per le ragioni di cui sopra avrebbe quindi dovuto essere opposta in giudizio nei confronti della predetta delibera n. 20/1993.
Essa, invece, si è consolidata per mancata impugnazione.
Da tanto deriva la duplice conseguenza, correttamente rilevata dal primo giudice, che, nell’impugnativa proposta avverso gli atti che hanno concretato la successiva vendita dell’immobile a terzi, l’odierno appellante:
– è carente di legittimazione ad agire, in quanto privo di qualsiasi situazione giuridica sostanziale che possa dirsi lesa ex se dall’alienazione;
– è carente di interesse ad agire, in quanto anche l’eventuale annullamento degli atti gravati, lasciando fermo l’assetto proprietario derivante dal consolidamento della delibera n. 20/1993, sarebbe insuscettibile di arrecargli una qualche utilità, e, segnatamente, non sarebbe idonea a fondare né la pretesa restitutoria del bene né la domanda di risarcimento dei danni patiti per l’illegittima acquisizione dell’immobile, pure avanzate in giudizio.
4. Chiarito, alla luce di quanto sopra, che la declaratoria di inammissibilità di cui alla sentenza appellata va indenne dalle mende denunziate, va respinto il primo motivo di appello, con cui l’appellante sostiene che, trattandosi di immobile in comproprietà, il contraddittorio andava esteso iussu iudicis agli altri comproprietari, e che pertanto il primo giudice non avrebbe potuto affermare che la causa poteva essere definita in camera di consiglio con sentenza in forma semplificata, ciò che presuppone l’integrità del contraddittorio, ai sensi degli allora vigenti artt. 21, comma 10, e 26, quarto comma, l. n. 1034 del 1971 e, ora, dell’art. 60 Cod. proc. amm..
Rileva, infatti, il principio, allo stato codificato nel giudizio amministrativo dagli artt. 49, comma 2 e 95, comma 5 Cod. proc. amm., e reputato compatibile anche rispetto al contesto ordinamentale precedente (Cons. Stato, IV, 14 gennaio 2013, n. 160), che il principio della ragionevole durata del processo (art. 111, secondo comma, Cost.) impone (ai sensi degli artt. 175 e 127 del Codice di procedura civile) di evitare e contrastare comportamenti che siano solo d’ostacolo a una sollecita definizione dello stesso, tra cui quelli che si traducono in un inutile dispendio di attività processuali e formalità superflue perché non giustificate dalla struttura dialettica del processo e, in particolare, dal rispetto effettivo del principio del contraddittorio, espresso dall’articolo 101 del Codice di procedura civile, da sostanziali garanzie di difesa (art. 24 Cost.) e dal principio di partecipazione al processo in condizioni di parità (articolo 111, secondo comma 2, Cost.) dei soggetti nella cui sfera giuridica l’atto finale va a produrre effetti. Ne deriva che in caso di ricorso prima facie inammissibile è superflua la fissazione di un termine per la integrazione del contraddittorio nei confronti delle altre parti, che si tradurrebbe, oltre che in un aggravio di spese, in un prolungamento dei termini per la definizione del giudizio, senza comportare alcun beneficio per la garanzia della effettività dei diritti processuali delle parti (da ultimo, Cass., VI, 17 giugno 2019, n. 16141, che menziona, tra altro, Cass., SS.UU., 22 marzo 2010, n. 6826; II, 28 dicembre 2018, n. 33547).
5. Con il secondo motivo l’appellante, anche invocando le formalità da osservarsi in caso di notifica a mezzo posta raccomandata pel caso di temporanea assenza del destinatario, sostiene l’erroneità di tutte le argomentazioni della sentenza che hanno ritenuto che egli avesse conosciuto la delibera n. 20/1993 rimasta inoppugnata all’atto della sua notifica a mezzo posta avvenuta il 22 novembre 1993 o comunque in occasione della contestazione da lui indirizzata al Comune con nota 22 settembre 1993.
Questi motivi sono destituiti di fondamento.
Lo stesso appellante, nel ripercorrere il contenuto del ricorso di primo grado, dà atto alle pagine nn. 3 e 4 dell’appello che tale delibera n. 20/1993 è stata prodotta, tra altro, all’udienza di comparizione della parti del 1° febbraio 2010 del giudizio civile di tutela possessoria da lui instaurato innanzi al Tribunale di Benevento avverso l’acquirente dell’immobile, e che solo a tale data si colloca il momento in cui egli è venuto a conoscenza, tra altro, della delibera stessa.
Indi, a tutto voler concedere, ovvero anche accedendo a tale prospettazione, la conoscenza dell’appellante della delibera di cui trattasi è comunque avvenuta precedentemente alla notifica e al deposito del ricorso di primo grado, adempimenti entrambi effettuati nel marzo 2010.
6. Alla luce di tutto quanto sopra, va confermata la declaratoria di irritualità dell’azione proposta dall’appellante già pronunziata dal primo giudice.
La disamina dei motivi di appello pertanto si arresta alle questioni sin qui trattate, con impossibilità di esaminare il terzo, il quarto e il quinto motivo, con cui si afferma che i provvedimenti gravati violano sia la fattispecie normativa sostanziale di cui hanno fatto applicazione sia le norme generali che regolano il procedimento amministrativo, e che attengono pertanto al merito della vicenda contenziosa.
Per le stesse ragioni non può trovare favorevole valutazione né la domanda risarcitoria avanzata con il sesto motivo né la domanda di cui al settimo motivo di riforma della sentenza appellata quanto alla regolazione delle spese di giudizio, che risulta conforme al principio della soccombenza invocato dallo stesso appellante.
7. In definitiva, assorbita ogni altra questione pure sollevata dal Comune resistente, la sentenza appellata deve essere confermata, con reiezione di tutte le domande demolitorie, restitutorie e risarcitorie avanzate nell’appello.
Le spese di lite, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
Sezione Quinta, definitivamente pronunciando sull’appello di cui in epigrafe, lo respinge.
Condanna la parte appellante alla refusione in favore del Comune resistente delle spese di lite, che liquida nell’importo complessivo pari a Euro 5.000,00 (euro cinquemila/00) oltre oneri di legge.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 10 ottobre 2019 con l’intervento dei magistrati:
Giuseppe Severini – Presidente
Stefano Fantini – Consigliere
Giovanni Grasso – Consigliere
Giuseppina Luciana Barreca – Consigliere
Anna Bottiglieri – Consigliere, Estensore

 

 

In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.

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