Il datore di lavoro è obbligato a tutelare il lavoratore

Corte di Cassazione, sezione lavoro civile, Ordinanza 15 luglio 2020, n. 15105.

La massima estrapolata:

Il datore di lavoro è obbligato a tutelare il lavoratore adottando nell’esercizio dell’impresa le misure che secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità del lavoratore stesso.

Ordinanza 15 luglio 2020, n. 15105

Data udienza 25 settembre 2019

Tag – parola chiave: Impianti di videosorveglianza – Rapine – Responsabilità del datore di lavoro

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BERRINO Umberto – Presidente

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere

Dott. DE GREGORIO Federico – Consigliere

Dott. LEO Giuseppina – rel. Consigliere

Dott. SPENA Francesca – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA
sul ricorso 12637/2015 proposto da:
(OMISSIS) S.P.A., C.F. (OMISSIS), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), che la rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
I.N.A.I.L. – ISTITUTO NAZIONALE PER L’ASSICURAZIONE CONTRO GLI INFORTUNI SUL LAVORO, C.F. (OMISSIS), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in (OMISSIS), presso lo studio degli avvocati (OMISSIS) e (OMISSIS);
(OMISSIS), elettivamente domiciliata in (OMISSIS), presso lo studio degli avvocati (OMISSIS) e (OMISSIS), che la rappresentano e difendono;
– controricorrenti –
avverso la sentenza n. 2412/2014 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata il 07/05/2014 r.g.n. 4830/2010.

RITENUTO

che (OMISSIS) – dipendente di (OMISSIS) S.p.A. con la qualifica di operatrice di sportello, in servizio, in un primo tempo, presso l’ufficio postale di (OMISSIS) e, successivamente, presso quello di (OMISSIS) – ha proposto ricorso, dinanzi al Tribunale di Napoli, nei confronti della societa’ datrice di lavoro e dell’INAIL -Istituto Nazionale per l’Assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro, al fine di ottenere il risarcimento del danno biologico patito, “da cui era derivato un disturbo post-traumatico da stress di grado grave stabilizzatosi solo nel (OMISSIS), quale conseguenza delle dieci rapine subite presso i menzionati uffici postali tra il (OMISSIS)”;
che il primo giudice, in parziale accoglimento della domanda, riconosciuta la responsabilita’ di (OMISSIS) S.p.A. per i danni occorsi alla dipendente, ha condannato la societa’ al relativo risarcimento, liquidato nella misura di Euro 23.268,80;
che la Corte di Appello di Napoli, con sentenza depositata il 7.5.2014, ha rigettato il gravame interposto dalla societa’ datrice di lavoro, avverso la pronunzia del Tribunale, nei confronti della (OMISSIS) e dell’INAIL;
che la Corte territoriale, per quanto ancora in questa sede rileva, ha osservato che “la predisposizione, da parte della societa’, di misure di sicurezza quali l’impianto di telesorveglianza, la bussola multitransito, la cassaforte con apertura a tempo programmata, la cassaforte con apertura programmabile ogni 15 minuti, l’impianto di teleallarme a tastiera programmata e i vari pulsanti antirapina direttamente collegati a (OMISSIS) erano tutte misure dirette a non rendere fruttuosa per gli assalitori una azione criminale di rapina, ma non certo a tutelare i dipendenti. Il fine, dunque, non era certamente quello di proteggere i lavoratori dalle rapine ma di fare in modo che queste non recassero troppi danni alla azienda, vietando, cosi’ come emerge dai testi escussi, di consegnare valori ai rapinatori che tenessero in ostaggio i colleghi ed obbligandoli cosi’ ad assistere inerti alle percosse dei primi ai secondi e pretendendo il rimborso da parte del dipendente di quanto rapinato laddove avesse consegnato il denaro”, e che, pertanto, “riassunte in questi termini le circostanze salienti in fatto, puo’ ritenersi che esse siano sussumibili in un’ipotesi di responsabilita’ contrattuale dell’imprenditore alla stregua dell’articolo 2087 c.c., che pone un obbligo di garanzia in capo al datore di lavoro a tutela della persona del lavoratore, imponendo al primo di “adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarita’ del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrita’ fisica e la personalita’ morale” del secondo”;
che per la cassazione della sentenza ricorre la societa’ articolando un motivo contenente piu’ censure cui resistono con controricorso (OMISSIS) e l’INAIL;
che il P.G. non ha formulato richieste.

CONSIDERATO

che, con il ricorso, si denunzia, in riferimento all’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione dell’articolo 2087 c.c., nonche’, in riferimento all’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’omesso esame circa un fatto decisivo e controverso per il giudizio, ed in particolare, si lamenta che i giudici di merito avrebbero riconosciuto la responsabilita’ della societa’ datrice di lavoro per i danni occorsi alla dipendente, perche’ avrebbero erroneamente ritenuto che non fossero state predisposte adeguate misure di sicurezza per la tutela dei lavoratori, in particolare nell’ufficio postale di (OMISSIS), ed avrebbero, in conseguenza di cio’, reputato che la societa’ avesse violato l’articolo 2087 c.c., ai sensi del quale l’imprenditore, nell’adottare le misure necessarie a tutelare l’integrita’ fisica e la personalita’ morale dei prestatori di lavoro, deve tenere conto della “particolarita’ del lavoro, dell’esperienza e della tecnica”; si deduce, altresi’, che i dispositivi di sicurezza predisposti dalla parte datrice (e di cui e’ menzione in narrativa) sarebbero gli unici che “ragionevolmente possono essere adottati in un ufficio postale e che hanno l’evidente scopo dissuasivo dell’intento criminoso e, conseguentemente, di garantire gli operatori addetti allo sportello”, ed inoltre, che i giudici di merito avrebbero addebitato alla societa’ una ipotesi di responsabilita’ oggettiva, non considerando che la responsabilita’ datoriale deve essere necessariamente collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da una fonte legislativa, ovvero suggeriti dalle conoscenze tecniche del momento, omettendo, tra l’altro, ogni esame e valutazione in ordine alla idoneita’ degli strumenti predisposti a fornire la tutela adeguata ai dipendenti;
che il motivo non e’ fondato; ed invero, alla stregua dei consolidati arresti giurisprudenziali di legittimita’ (cfr, ex plurimis, Cass. nn. 10145/2017; 22710/2015; 18626/2013; 17092/2012; 13956/2012), la responsabilita’ dell’imprenditore per la mancata adozione delle misure idonee a tutelare l’integrita’ fisica del lavoratore discende o da norme specifiche o, nell’ipotesi in cui esse non siano rinvenibili, dalla norma di ordine generale di cui all’articolo 2087 c.c., costituente norma di chiusura del sistema antinfortunistico estensibile a situazioni ed ipotesi non ancora espressamente considerate e valutate dal legislatore al momento della sua formulazione e che impone all’imprenditore l’obbligo di adottare, nell’esercizio dell’impresa, tutte le misure che, avuto riguardo alla particolarita’ del lavoro in concreto svolto dai dipendenti, siano necessarie a tutelare l’integrita’ psico-fisica dei lavoratori (cfr., tra le molte, Cass. nn. 27964/2018; 16645/2003; 6377/2003). Per la qual cosa, in particolare nel caso in cui si versi in ipotesi di attivita’ lavorativa divenuta “pericolosa”, come nella fattispecie, a causa della numerose e continue rapine (ben dieci) subite dai dipendenti presso gli uffici postali di cui si tratta, la responsabilita’ del datore di lavoro-imprenditore ai sensi dell’articolo 2087 c.c., non configura una ipotesi di responsabilita’ oggettiva e tuttavia non e’ circoscritta alla violazione di regole di esperienza o di regole tecniche preesistenti e collaudate, ma deve ritenersi volta a sanzionare, anche alla luce delle garanzie costituzionali del lavoratore, l’omessa predisposizione, da parte del datore di lavoro, di tutte quelle misure e cautele atte a preservare l’integrita’ psicofisica e la salute del lavoratore nel luogo di lavoro, tenuto conto della concreta realta’ aziendale, del concreto tipo di lavorazione e del connesso rischio (cfr., ex plurimis, Cass. nn. 10145/2017, cit.; 15156/2011);
che, al riguardo, e’ altresi’ da osservare che la dottrina e la giurisprudenza piu’ attente hanno sottolineato come le disposizioni della Carta costituzionale abbiano segnato anche nella materia giuslavoristica un momento di rottura rispetto al sistema precedente “ed abbiano consacrato, di conseguenza, il definitivo ripudio dell’ideale produttivistico quale unico criterio cui improntare l’agire privato”, in considerazione del fatto che l’attivita’ produttiva – anch’essa oggetto di tutela costituzionale, poiche’ attiene all’iniziativa economica privata quale manifestazione di essa (articolo 41 Cost., comma 1) – e’ subordinata, ai sensi del comma 2 della medesima disposizione, alla utilita’ sociale, che va intesa non tanto e soltanto come mero benessere economico e materiale, sia pure generalizzato alla collettivita’, quanto, soprattutto, come realizzazione di un pieno e libero sviluppo della persona umana e dei connessi valori di sicurezza, di liberta’ e dignita’. Da cio’ consegue che la concezione “patrimonialistica” dell’individuo deve necessariamente recedere di fronte alla diversa concezione che fa leva essenzialmente sullo svolgimento della persona, sul rispetto di essa, sulla sua dignita’, sicurezza e salute – anche nel luogo nel quale si svolge la propria attivita’ lavorativa -; momenti tutti che “costituiscono il centro di gravita’ del sistema”, ponendosi come valori apicali dell’ordinamento, anche in considerazione del fatto che la mancata predisposizione di tutti i dispositivi di sicurezza al fine di tutelare la salute dei lavoratori sul luogo di lavoro viola l’articolo 32 Cost., che garantisce il diritto alla salute come primario ed originario dell’individuo, nonche’ le diposizioni antinfortunistiche, fra le quali quelle contenute nel Decreto Legislativo n. 626 del 1994 – attuativo, come e’ noto, di direttive Europee riguardanti il miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori nello svolgimento dell’attivita’ lavorativa -, ed altresi’ l’articolo 2087 c.c., che, imponendo la tutela dell’integrita’ psico-fisica del lavoratore da parte del datore di lavoro, prevede un obbligo, da parte di quest’ultimo, che non si esaurisce “nell’adozione e nel mantenimento perfettamente funzionale di misure di tipo igienico-sanitarie o antinfortunistico”, ma attiene anche – e soprattutto – alla predisposizione “di misure atte, secondo le comuni tecniche di sicurezza, a preservare i lavoratori dalla lesione di quella integrita’ nell’ambiente o in costanza di lavoro anche in relazione ad eventi, pur se allo stesso non collegati direttamente, ed alla probabilita’ di concretizzazione del conseguente rischio”;
che tale interpretazione estensiva della citata norma del codice civile si giustifica alla stregua dell’ormai consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimita’ (cfr., gia’ da epoca risalente, Cass. nn. 8422/1997; 7768/1995), sia in base al rilievo costituzionale del diritto alla salute – articolo 32 Cost. -, sia per il principio di correttezza e buona fede nell’attuazione del rapporto obbligatorio – articoli 1175 e 1375 c.c., disposizioni caratterizzate dalla presenza di elementi “normativi” e di clausole generali (Generalklauseln) -, cui deve essere improntato e deve ispirarsi anche lo svolgimento del rapporto di lavoro, sia, infine, “pur se nell’ambito della generica responsabilita’ extracontrattuale”, ex articolo 2043 c.c., in tema di neminem laedere (al riguardo, questa Suprema Corte ha messo, altresi’, in evidenza, gia’ da epoca non recente, che, in conseguenza del fatto che la violazione del dovere del neminem laedere puo’ consistere anche in un comportamento omissivo e che l’obbligo giuridico di impedire l’evento puo’ discendere, oltre che da una norma di legge o da una clausola contrattuale, anche da una specifica situazione che esiga una determinata attivita’, a tutela di un diritto altrui, e’ da considerare responsabile il soggetto che, pur consapevole del pericolo cui e’ esposto l’altrui diritto, ometta di intervenire per impedire l’evento dannoso);
che, fatte tali premesse, deve osservarsi che, nel caso di specie, l’onere della prova gravava sul datore di lavoro, che avrebbe dovuto dimostrare di avere fatto tutto il possibile per evitare il danno (prova liberatoria) derivato alla (OMISSIS), attraverso l’adozione di cautele previste in via generale e specifica dalle norme antinfortunistiche, di cui, correttamente, i giudici di merito hanno ravvisato la violazione, ritenendo la sussistenza del nesso causale tra il danno occorso alla lavoratrice, a seguito delle dieci rapine subite, e l’attivita’ svolta dalla stessa, senza la predisposizione, da parte della datrice di lavoro, di adeguate misure dirette a tutelare i dipendenti;
che, pertanto, e’ condivisibile la conclusione cui i medesimi sono giunti, dopo avere messo in evidenza la mancanza della prova liberatoria da parte della societa’ datrice di lavoro, trattandosi di responsabilita’ contrattuale per omessa adozione, ai sensi dell’articolo 2087 c.c., delle opportune misure di prevenzione atte a preservare l’integrita’ psico-fisica del lavoratore sul luogo di lavoro;
che, per le considerazioni innanzi svolte, appare superfluo soffermarsi sul fatto che la seconda censura, sollevata in riferimento all’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5, sarebbe stata, comunque, inammissibile, per la formulazione non piu’ consona con le modifiche introdotte dell’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5, Decreto Legge 22 giugno 2012, n. 83, articolo 54, comma 1, lettera b), convertito, con modificazioni, nella L. 7 agosto 2012, n. 134, applicabile, ratione temporis, al caso di specie poiche’ la sentenza oggetto del giudizio di legittimita’ e’ stata depositata, come riferito in narrativa, il 7.5.2014;
che, per tutto quanto in precedenza esposto, il ricorso va rigettato;
che le spese del presente giudizio, liquidate come in dispositivo per ciascuno dei controricorrenti – e da distrarre, ai sensi dell’articolo 93 c.p.c., in favore dei difensori della (OMISSIS), avv.ti (OMISSIS) e (OMISSIS), dichiaratisi antistatari -, seguono la soccombenza;
che, avuto riguardo all’esito del giudizio ed alla data di proposizione del ricorso, sussistono i presupposti di cui al Decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2002, articolo 13, comma 1 quater, come specificato in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; condanna la societa’ ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimita’, liquidate in Euro 2.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge per ciascuno dei controricorrenti; dispone la distrazione delle spese liquidate alla (OMISSIS) in favore dei suoi difensori antistatari, avv.ti (OMISSIS) e (OMISSIS).
Ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2002, articolo 13, comma 1 quater, da’ atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, se dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso articolo 13, comma 1 bis.
PUBBLICAZIONE

 

In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.

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