Il contratto sottoposto a condizione potestativa mista è soggetto alla disciplina di cui all’art. 1358 cod. civ.

Corte di Cassazione, sezione seconda civile, SENTENZA 11 settembre 2018, n. 22046.

La massima estrapolata:

Il contratto sottoposto a condizione potestativa mista è soggetto alla disciplina di cui all’art. 1358 cod. civ., che impone alle parti l’obbligo giuridico di comportarsi secondo buona fede durante lo stato di pendenza della condizione, e la sussistenza di tale obbligo va riconosciuta anche per l’attività di attuazione dell’elemento potestativo della condizione mista.
In tema di contratto condizionato, l’omissione di un’attività in tanto può ritenersi contraria a buona fede e costituire fonte di responsabilità, in quanto l’attività omessa costituisca oggetto di un obbligo giuridico. La sussistenza di un siffatto obbligo deve affermarsi anche per il segmento non casuale della condizione mista. Ciò in quanto, gli obblighi di correttezza e buona fede, che hanno la funzione di salvaguardare l’interesse della controparte alla prestazione dovuta e all’utilità che la stessa assicura, impongono una serie di comportamenti di contenuto atipico, che assumono la consistenza di standard integrativi di tali principi generali, e sono individuabili mediante un giudizio applicativo di norme elastiche e soggetto al controllo di legittimità al pari di ogni altro giudizio fondato su norme di legge.

SENTENZA 11 settembre 2018, n. 22046

Presidente Petitti

Relatore Oliva

Ragioni della decisione

Con il primo motivo il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt.1183, 1322, 1325, 1343, 1346, 1354, 1355, 1359, 1362 e ss., 1418, 1421 c.c., in relazione all’art.111 Cost. e all’art.360 n.3, nonché l’omesso esame circa un fatto decisivo ex art.360 n.5 c.p.c. Ad avviso del ricorrente, la Corte di Appello avrebbe errato nel non ritenere meramente potestativa la condizione apposta al preliminare, secondo la quale l’atto notarile sarebbe stato stipulato non appena il promissario acquirente avesse ottenuto un mutuo occorrente per saldare il prezzo pattuito per la compravendita. La clausola in esame, infatti, avrebbe reso sin dal principio certa l’irrealizzabilità dell’evento dedotto in condizione, poiché il promittente venditore era di fatto soggetto al potere decisionale del promissario acquirente, il quale una volta conseguito l’anticipato possesso del bene non avrebbe avuto più alcun interesse a cooperare per l’avverarsi dell’evento dedotto in condizione. Né, d’altro canto, la clausola “al più presto possibile’ avrebbe potuto legittimare il promittente venditore a chiedere al giudice la fissazione di un termine per adempiere. Dal che, attesa la natura meramente potestativa della condizione, discenderebbe la nullità del preliminare de quo.
Il motivo è infondato.
In argomento, questa Corte ha ritenuto che “Nel caso in cui le parti subordinino gli effetti di un contratto preliminare di compravendita immobiliare alla condizione che il promissario acquirente ottenga da un istituto bancario un mutuo per poter pagare in tutto o in parte il prezzo stabilito – patto di cui non è contestabile la validità, poiché i negozi ai quali non è consentito apporre condizioni sono indicati tassativamente dalla legge -, la relativa condizione è qualificabile come ‘mista’, dipendendo la concessione del mutuo anche dal comportamento del promissario acquirente nell’approntare la relativa pratica, ma la mancata concessione del mutuo comporta le conseguente previste in contratto, sena che rilevi, ai sensi dell’art. 1359 cod. civ., un eventuale comportamento omissivo del promissario acquirente, sia perché tale disposi ione è inapplicabile nel caso in cui la parte tenuta condizionatamente ad una data prestazione abbia anch’essa interesse all’avveramento della condizione, sia perché l’omissione di un’attività in tanto può ritenersi contraria a buona fede e costituire fonte di responsabilità, in quanto l’attività omessa costituisca oggetto di un obbligo giuridico, e la sussistenza di un siffatto obbligo deve escludersi per l’attività di attuazione dell’elemento potestativo in una condizione mista’ (Cass. Sez. 2, Sentenza n.10074 del 18/11/1996, Rv.500605; conf. Cass. Sez. 3, Sentenza n.23824 del 22/12/2004, Rv. 578807).
Il richiamo a tali precedenti è sufficiente ad escludere che, nel caso di specie, si possa configurare una nullità del preliminare, posto che la clausola che subordina il trasferimento della proprietà all’ottenimento, da parte del promissario acquirente, di un mutuo non integra gli estremi della condizione meramente potestativa.
Peraltro, occorre ribadire che l’accertamento inteso a stabilire se un contratto sia sottoposto a condizione sospensiva ed a determinare l’effettiva portata della condizione stessa, nonché il suo avveramento, costituisce indagine devoluta al giudice del merito (Cass Sez. 2, Sentenza n.3804 del 29/07/1978, Rv.393359; Cass Sez. 1, Sentenza n.4483 del 14/05/1996, Rv.497599; Cass Sez. 3, Sentenza n.1555 del 13/02/1998, Rv.512605). Tale indagine la Corte territoriale ha compiuto, nel rispetto dei canoni ermeneutici di interpretazione del contratto, esaminando la clausola contrattuale in questione e richiamando i precedenti specifici di questa Corte. Il ricorrente contesta l’interpretazione del giudice di merito, ma in tal modo finisce, anche là dove denuncia la violazione degli artt. 1362 e ss. c.c., con il sollecitare un diverso approdo ricostruttivo della volontà delle parti.
La doglianza va quindi respinta.
Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 1343, 1346, 1418, 1421 c.c., nonché dell’art.40 comma 2 della L n.47/1985, in relazione all’art.360 n.3 c.p.c. Considerato che il promissario acquirente aveva ottenuto l’anticipato possesso dell’immobile oggetto di causa per eseguire alcuni lavori di ristrutturazione, e che detti interventi erano stati eseguiti, secondo il ricorrente senza le prescritte autorizzazioni edilizie ed urbanistiche, la Corte territoriale avrebbe dovuto dichiarare anche d’ufficio la nullità del contratto preliminare, perché relativo ad un cespite non regolare dal punto di vista urbanistico.
Anche tale censura va respinta, considerato che il ricorrente non allega alcun elemento idoneo a dimostrare l’effettiva esecuzione, da parte del promissario acquirente, di opere in difformità dalle prescritte autorizzazioni edilizie. Peraltro, dal riferimento operato nel ricorso alla consulenza di parte prodotta in prime cure (cfr. pagg.12 e ss.) si evince che gli interventi de quibus si sono sostanziati in opere di manutenzione e restauro dell’immobile, in particolare relativamente alle pareti, agli infissi, agli impianti, e in una diversa distribuzione degli spazi interni. Di talché non può, neanche con il ricorso allo strumento della presunzione, sostenersi che in concreto l’immobile presentasse difformità che ne precludessero la libera commerciabilità, non avendo il ricorrente fornito alcun riscontro sul punto.
Con il terzo motivo, il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 115, 116, 345, 346 c.p.c.; degli artt.1124, 1147, 1175, 1176, 1218, 1277, 1343, 1346, 1375, 2041, 2042, 2697, 2727 c.c., in relazione all’art.111 Cost. e all’art.360 n.3 c.p.c.; nonché la nullità della sentenza e del procedimento per omessa pronunzia ex art.360 n.4 c.p.c. e l’omesso esame su un punto decisivo ex art.360 n.5 c.p.c. Ad avviso del ricorrente, la Corte di Appello avrebbe dovuto ritenere ammissibili tutte le domande restitutorie formulate dal L. , inclusa quella relativa agli interessi, perché costituenti diretta conseguenza della domanda di accertamento della nullità del preliminare di cui è causa; pertanto, almeno a decorrere dalla sentenza, detti interessi avrebbero dovuto essere riconosciuti al ricorrente. Inoltre la Corte territoriale, nel valutare la condotta dei paciscenti, avrebbe errato nel dar rilievo prevalente al fatto che il L. non aveva informato il D.C. dell’avvenuta liberazione dell’immobile di cui è causa, senza considerare il fatto che il secondo avrebbe potuto comunque conoscere aliunde la circostanza, stante la pubblicità legale che assiste la materia dei trasferimenti dei beni immobili e le aste immobiliari. Ancora, il ricorrente si duole che il giudice di appello non avrebbe considerato il fatto che il D.C. si era risolto ad agire a distanza di sette anni dalla scoperta della trascrizione pregiudizievole, soltanto dopo che il L. aveva ottenuto l’aggiudicazione della quota oggetto del pignoramento, e quindi a scopo solo strumentale. Infine, la Corte territoriale avrebbe errato anche nel respingere la domanda di arricchimento senza causa, posta la condizione di buona fede del L. , da un lato, e di malafede del D.C. , dall’altro lato.
La censura si suddivide idealmente in tre parti: (1) la prima, relativa alla domanda di riconoscimento degli interessi, che a detta del ricorrente fu ingiustamente ritenuta inammissibile dal giudice di appello perché non proposta in prime cure; (2) la seconda, riguardante la natura della condizione apposta al preliminare, la ritenuta nullità di esso e, più in generale, la valutazione delle condotte delle parti, ai fini di individuare la rispettiva buona e mala fede; (3) la terza, concernente la domanda ex art. 2041 c.c..
È opportuno esaminare preliminarmente la seconda parte della doglianza, in relazione alla quale, va premesso che “Il contratto sottoposto a condizione potestativa mista è soggetto alla disciplina di cui all’art. 1358 cod. civ., che impone alle parti l’obbligo giuridico di comportarsi secondo buona fede durante lo stato di pendenza della condizione, e la sussistenza di tale obbligo va riconosciuta anche per l’attività di attuazione dell’elemento potestativo della condizione mista’ (Cass. Sez. U, Sentenza n.18450 del 19/09/2005, Rv.583707).
Più specificamente, “In tema di contratto condizionato, l’omissione di un’attività in tanto può ritenersi contraria a buona fede e costituire fonte di responsabilità, in quanto l’attività omessa costituisca oggetto di un obbligo giuridico. La sussistenza di un siffatto obbligo deve affermarsi anche per il segmento non casuale della condizione mista. Ciò in quanto, gli obblighi di correttezza e buona fede, che hanno la funzione di salvaguardare l’interesse della controparte alla prestazione dovuta e all’utilità che la stessa assicura, impongono una serie di comportamenti di contenuto atipico, che assumono la consistenza di standard integrativi di tali principi generali, e sono individuabili mediante un giudizio applicativo di norme elastiche e soggetto al controllo di legittimità al pari di ogni altro giudizio fondato su norme di legge’ (Cass. Sez. 1, Sentenza n.14198 del 28/07/2004, Rv.575005; conf. Cass. Sez. 2, Sentenza n.23014 del 14/12/2012, Rv.624391).
Ciò posto, spetta comunque alla parte interessata la dimostrazione del fatto che l’altro paciscente abbia tenuto un comportamento idoneo ad impedire l’avveramento della condizione, e si sia in tal modo reso inadempiente agli obblighi generali di buona fede e correttezza richiamati dalla giurisprudenza di questa Corte. In proposito, si è affermato che la fictio di avveramento della condizione prevista dall’art.1359 c.c. si possa applicare anche alla condizione di natura mista, fermo restando che ‘incombe sul creditore, che lamenti tale mancato avveramento, l’onere di provarne l’imputabilità al debitore a titolo di dolo o di colpa’ (Cass. Sez. 1, Sentenza n.5492 del 08/03/2010, Rv.611872; negli stessi termini, cfr. Cass. Sez. 2, Sentenza n.24325 del 18/11/2011, Rv.619796, secondo cui la norma in commento ‘non si riferisce solo a coloro che, per contratto, apparivano avere interesse al verificarsi della condizione, ma anche ai comportamenti di chi in concreto ha dimostrato, con una successiva condotta, di non avere più interesse al verificarsi della condizione, ponendo in essere atti tali da contribuire a far acquistare al contratto un elemento modificativo dell’iter ‘attuativo della sua efficacia”).
Nel caso di specie, il ricorso non indica in che modo il L. avesse offerto, nei gradi di merito, la necessaria prova della condotta dolosa o colposa del D.C. , ma si limita ad una censura dell’iter logico-argomentativo seguito dalla Corte territoriale. In tal modo, il ricorrente finisce per richiedere un riesame dell’apprezzamento di merito, che è precluso in questa sede.
In funzione del rigetto della seconda parte del motivo, resta assorbita la prima parte, concernente la contestazione del punto della sentenza impugnata con cui la Corte territoriale aveva ritenuto la novità della domanda di interessi, in relazione alla quale (peraltro) il ricorso non indica in quale atto del giudizio di prime cure essa sarebbe, in ipotesi, stata proposta.
Quanto invece alla terza parte del motivo in esame, riguardante la domanda ex art. 2041 c.c., si osserva che “L’azione generale di arricchimento ingiustificato, avendo natura sussidiaria, può essere esercitata solo quando manchi un titolo specifico sul quale fondare un diritto di credito, con la conseguenza che il giudice, anche d’ufficio, deve accertare che non sussista altra specifica alcione per le restituzioni ovvero per l’indennizzo del pregiudizio subito, contro lo stesso soggetto arricchito o contro soggetti terzi’ (Cass. Sez. 6-1, Ordinanza n.26199 del 03/11/2017, Rv. 647016; conf. Cass. Sez. 3, Sentenza n.16594 del 05/08/2005, Rv. 584746). Nel caso di specie il ricorrente ha proposto, in via riconvenzionale, azione di ingiustificato arricchimento invocando il pagamento in suo favore di somme a titolo di indennità di occupazione dell’immobile oggetto del preliminare di cui è causa, di oneri condominiali relativi allo stesso, e di imposte che esso ricorrente avrebbe dovuto sostenere ope legis non essendo mai stato perfezionato tra le parti il rogito definitivo di compravendita. A ben vedere tutte queste pretese traggono il loro titolo dal rapporto contrattuale esistente tra le parti e si risolvono in una richiesta di risarcimento, o comunque di indennizzo, che può presupporre -alternativamente- l’invalidità del contratto preliminare ovvero il suo inadempimento da parte del promissario acquirente.
Inoltre, sempre a termini dell’art.2041 c.c., l’attore è tenuto a fornire la duplice dimostrazione della propria deminutio patrimoniale e dell’altrui correlato arricchimento. Nella fattispecie, il ricorso non chiarisce adeguatamente tali aspetti, che costituiscono presupposti dell’azione de quo, né indica il momento o l’atto del giudizio di merito in cui i predetti elementi sarebbero stati dedotti e dimostrati.
Dalle esposte considerazioni discende l’insussistenza dei presupposti per l’applicazione dell’art. 2041 c.c., onde la censura va, per la relativa parte, respinta.
Con il quarto e ultimo motivo, infine, il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 1183, 2907, 2908, 2909 c.c. e degli artt. 282, 324, 359 c.p.c. in relazione all’art. 360 n.3 c.p.c. A suo avviso, il giudice di appello avrebbe errato nel fissare il termine di 90 giorni per il saldo prezzo a decorrere dalla pubblicazione della sentenza, e non invece dal suo passaggio in giudicato, senza considerare che la natura costitutiva della decisione ne escludeva l’efficacia provvisoriamente esecutiva.
La censura è inammissibile per tre diverse ma concorrenti ragioni: in primis, perché la fissazione di un termine per il saldo prezzo è evidentemente a beneficio di ambo le parti; in secondo luogo, posto che il L. aveva espressamente richiesto tale fissazione, sia pure in via subordinata, nelle conclusioni rassegnate in secondo grado; ed infine, considerato che l’agganciamento della decorrenza del termine dalla pubblicazione, anziché dal successivo passaggio in giudicato, della sentenza di secondo grado costituisce un vantaggio per il ricorrente, promittente venditore del bene immobile di cui è causa. Ne consegue che il L. non ha alcun interesse alla censura.
In conclusione, i primi tre motivi vanno respinti, mentre il quarto va dichiarato inammissibile.
Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.
Poiché il ricorso per cassazione è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto, ai sensi dell’art. 1 comma 17 della Legge n.228 del 2012, che ha aggiunto il comma 1-quater all’art.13 del Testo Unico di cui al D.P.R. n.115 del 2002, della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

P.Q.M.

la Corte rigetta il ricorso e condanna;1 ricorrente al pagamento delle spese del grado, che liquida in Euro 3.200, di cui Euro 200 per spese, oltre rimborso spese generali nella misura del 15%, cap ed iva come per legge.
Ai sensi dell’art.13 comma 1-quater del D.P.R n.115/2002, inserito dall’art.1 comma 17 della Legge n.228/12, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente del contributo unificato dovuto per il ricorso principale a norma dell’art.1-bis dello stesso art.13

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