Il compenso per l’attività di liquidazione di una società

Corte di Cassazione, civile, Ordinanza 16 ottobre 2020, n. 22583.

Il credito avente ad oggetto il compenso per l’attività di liquidazione di una società non è assistito dal privilegio di cui all’art. 2751-bis, n. 2, cod. civ. atteso che il rapporto intercorrente tra una società ed il suo liquidatore, quand’anche di nomina giudiziale, non è assimilabile al contratto d’opera di cui agli artt. 2230 e ss. cod. civ. Tale ultimo assunto, tuttavia, non giustifica la conclusione che la domanda giudiziale avente ad oggetto il predetto compenso non possa essere introdotta per via monitoria essendo quest’ultima riservata alle domande giudiziali relative ai compensi che trovino titolo in un contratto d’opera professionale. Infatti, l’art. 633 cod. proc. civ. contempla, al n. 3, i crediti riguardanti “…onorari diritti o rimborsi spettanti … ad … esercenti una libera professione o arte, per la quale esiste una tariffa legalmente approvata…”. La tariffa professionale prevede un compenso per determinate attività; che poi queste attività formino oggetto della prestazione dovuta dal professionista in forza di un contratto d’opera professionale oppure in forza di rapporti negoziali diversi dal contratto d’opera professionale (si pensi al mandato, o al rapporto associativo) è irrilevante ai fini dell’applicabilità della tariffa professionale e, quindi, ai fini dell’ammissibilità del ricorso alla procedura monitoria

Ordinanza 16 ottobre 2020, n. 22583

Data udienza 22 luglio 2020

Tag/parola chiave: ARTI E PROFESSIONI INTELLETTUALI – PRESTAZIONI PROFESSIONALI

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GORJAN Sergio – Presidente

Dott. COSENTINO Antonello – rel. Consigliere

Dott. CARRATO Aldo – Consigliere

Dott. GIANNACCARI Rossana – Consigliere

Dott. CRISCUOLO Mauro – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA
sul ricorso 385/2016 proposto da:
(OMISSIS), socio unico della societa’ s.n.c. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), che lo rappresenta e difende insieme con l’avvocato (OMISSIS);
– ricorrente –
contro
(OMISSIS), domiciliato presso la Cancelleria della Corte di cassazione e rappresentato e difeso dall’avvocato (OMISSIS), del foro di (OMISSIS);
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 768/2015 della CORTE D’APPELLO di LECCE, depositata il 07/10/2015;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 22/07/2020 da Dott. COSENTINO ANTONELLO.

RAGIONI IN FATTO ED IN DIRITTO DELLA DECISIONE

Il sig. (OMISSIS), divenuto socio unico della societa’ (OMISSIS) s.n.c., ha proposto ricorso, sulla scorta di quattro motivi, per la cassazione della sentenza con cui la Corte d’appello di Lecce, riformando la sentenza di primo grado del Tribunale della medesima citta’, ha rigettato l’opposizione proposta dalla suddetta (OMISSIS) s.n.c. al decreto ingiuntivo con cui quest’ultima era stata condannata a pagare al Dott. (OMISSIS) la somma di Euro 17.751,05 a titolo di compenso per le funzioni di liquidatore, giudizialmente nominato, della stessa.
La Corte salentina – premesso che non era in discussione ne’ lo stato di liquidazione della societa’ appellante ne’ l’attribuzione della carica di liquidatore al sig. (OMISSIS) – ha ritenuto congruo il compenso preteso dal professionista in via monitoria in base alla parcella approvata dall’Ordine dei dottori commercialisti; sotto altro aspetto, la stessa Corte ha disatteso le doglianze mosse dall’opponente in relazione alla richiesta di fallimento della societa’ presentata dal liquidatore medesimo.
Il Dott. (OMISSIS) ha presentato controricorso.
La causa e’ stata chiamata all’adunanza di camera di consiglio dell’8 aprile 2020 e, in seguito al differimento di ufficio disposto ai sensi del Decreto Legge 8 marzo 2020, n. 11, articolo 1, comma 1 (Misure straordinarie ed urgenti per contrastate l’emergenza epidemiologica da COVID-19 e contenere gli effetti negativi sullo svolgimento dell’attivita’ giudiziaria), e’ stata nuovamente chiamata, e decisa, all’adunanza di Camera di consiglio del 22 luglio 2020, in prossimita’ della quale entrambe le parti hanno depositato una memoria.
Nel primo motivo di ricorso, riferito indistintamente dell’articolo 360 c.p.c., nn. 3, 4, 5, vengono articolate due distinte censure.
a) In primo luogo, il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione dell’articolo 112 c.p.c., lamentando l’omessa pronuncia della Corte territoriale sul motivo di appello con cui egli aveva dedotto l’illegittimita’ del decreto ingiuntivo per non esser stato emesso dal presidente del Tribunale, bensi’ da altro magistrato dell’ufficio.
b) In secondo luogo, reiterando la doglianza sviluppata nel suddetto motivo di appello, il ricorrente solleva la questione di legittimita’ costituzionale, in relazione agli articoli 76 e 77 Cost., Decreto Legislativo n. 51 del 1998, articolo 100 (modificativo del testo dell’articolo 637 c.p.c.), per eccesso di delega, sostenendo che la Legge Delega n. 254 del 1997, non conterrebbe alcuna disposizione che consentisse al legislatore delegato di modificare la disposizione del previgente testo dell’articolo 637 c.p.c., che assegnava al Presidente del Tribunale la competenza all’emissione dei decreti ingiuntivi. Conseguentemente il ricorrente deduce la nullita’ del decreto opposto (a cui conseguirebbe la cassazione dell’impugnata sentenza nella parte in cui la stessa ha posto a suo carico anche le spese del procedimento monitorio), in quanto emesso da magistrato diverso dal Presidente del Tribunale, ancorche’ non risultasse alcun impedimento di quest’ultimo.
La doglianza sub a) va giudicata inammissibile in base al consolidato principio di questa Corte secondo il quale il mancato esame, da parte del giudice, di una questione puramente processuale non e’ suscettibile di dar luogo al vizio di omissione di pronuncia, il quale si configura esclusivamente nel caso di mancato esame di domande od eccezioni di merito, ma puo’ configurare un vizio della decisione per violazione di norme diverse dall’articolo 112 c.p.c., se, ed in quanto, si riveli erronea e censurabile, oltre che utilmente censurata, la soluzione implicitamente data dal giudice alla problematica prospettata dalla parte (cfr. Cass. n. 321/16).
La doglianza sub b) va giudicata infondata, perche’ il decreto opposto e’ stato emesso da magistrato diverso dal Presidente del Tribunale in conformita’ al testo vigente dell’articolo 637 c.p.c., quale risultante dalla modifica recata dal Decreto Legislativo n. 51 del 1989; articolo 100, la questione di legittimita’ costituzionale di quest’ultima disposizione, per eccesso di delega, e’, d’altra parte, manifestamente infondata, perche’ l’assegnazione della competenza all’emissione del decreto ingiuntivo dal tribunale in composizione monocratica, invece che al presidente del tribunale, risulta compresa nella delega conferita al Governo dalla L. n. 254 del 1997, laddove, dell’articolo 1, comma 1, lettera a), indica, tra i principi e criteri direttivi che devono orientare il legislatore delegato quello di “ristrutturare gli uffici giudiziari di primo grado secondo il modello del giudice unico”. Nella ristrutturazione degli uffici giudiziari secondo il modulo del giudice unico rientra, infatti, anche la ridefinizione delle competenze giurisdizionali assegnate al dirigente dell’ufficio.
Con il secondo motivo di ricorso, riferito dell’articolo 360 c.p.c., n. 3, il sig. (OMISSIS) denuncia la violazione e falsa applicazione dell’articolo 633 c.p.c., n. 3 e degli articoli 2229, 2233, 2293 c.c., in relazione agli articoli 2276 e 1703 c.c., nonche’ la violazione dell’articolo 409 c.p.c., n. 3, in relazione all’articolo 426 c.p.c.. Nel mezzo di impugnazione si argomenta che, poiche’ l’attivita’ di liquidatore della societa’ non rappresenta una prestazione d’opera intellettuale riconducibile all’oggetto del contratto d’opera di cui agli articoli 2222 c.c. e segg., il relativo compenso non potrebbe essere giudizialmente richiesto con il procedimento monitorio, difettando i presupposti di cui all’articolo 633 c.p.c., n. 3.
Secondo il ricorrente, pertanto, il rapporto intercorrente tra una societa’ e il suo liquidatore andrebbe ricondotto nell’ambito di un rapporto di lavoro, sicche’ la competenza funzionale all’emissione del decreto ingiuntivo competerebbe al Presidente della Sezione Lavoro del Tribunale.
Anche il secondo mezzo di ricorso va disatteso. L’assunto da cui prende le mosse l’argomentazione del ricorrente – ossia che il rapporto intercorrente tra una societa’ e il suo liquidatore, quand’anche di nomina giudiziale, non e’ assimilabile al contratto d’opera di cui agli articoli 2230 c.c. e segg. – e’ giuridicamente esatto; proprio su tale assunto, infatti, si fonda la giurisprudenza di questa Corte che ha negato che il credito avente ad oggetto il compenso per l’attivita’ di liquidazione di una societa’ sia assistito dal privilegio di cui all’articolo 2751 bis, n. 2 (cfr. Cass. 13805/04 e altre). Tale assunto, tuttavia, non giustifica la conclusione che la domanda giudiziale avente ad oggetto il compenso dell’attivita’ di liquidazione di una societa’ non potrebbe essere introdotta per via monitoria. Non puo’ infatti condividersi la tesi secondo la procedura monitoria sarebbe riservata alle domande giudiziali relative ai compensi che trovino titolo in un contratto d’opera professionale. L’articolo 633 c.p.c., contempla, al n. 3, i crediti riguardanti “onorari diritti o rimborsi spettanti… ad… esercenti una libera professione o arte, per la quale esiste una tariffa legalmente approvata”. La tariffa professionale prevede un compenso per determinate attivita’; che poi queste attivita’ formino oggetto della prestazione dovuta dal professionista in forza di un contratto d’opera professionale oppure in forza di rapporti negoziali diversi dal contratto d’opera professionale (si pensi al mandato, o al rapporto associativo) e’ irrilevante ai fini dell’applicabilita’ della tariffa professionale e, quindi, ai fini dell’ammissibilita’ del ricorso alla procedura monitoria.
Quanto, poi, alla doglianza secondo cui il decreto ingiuntivo avrebbe dovuto essere emesso da un magistrato della Sezione Lavoro, invece che da un magistrato della Sezione Imprese, e che, conseguentemente, il giudizio di opposizione avrebbe dovuto svolgersi nelle forme del rito del lavoro, previa ordinanza di mutamento di rito ex articolo 426 c.p.c., e’ sufficiente osservare che, secondo la piu’ recente giurisprudenza di questa Corte, la controversia sul compenso dell’amministratore di una societa’ (a cui va assimilato il liquidatore) rientra nella competenza del tribunale delle imprese; si veda, in proposito, Cass. 13956/16: “va attribuita alla cognizione della sezione specializzata in materia di impresa la controversia introdotta da un amministratore nei confronti della societa’ e riguardante le somme da quest’ultima dovute in relazione all’attivita’ esercitata, deponendo in tal senso, oltre alla ratio del Decreto Legislativo n. 168 del 2003, articolo 3, comma 2, lettera a), in quanto volto a concentrare tutta la materia societaria innanzi al giudice specializzato, anche la sua formulazione letterale, la quale, facendo riferimento alle cause ed ai procedimenti “relativi a rapporti societari ivi compresi quelli concernenti l’accertamento, la costituzione, la modificazione o l’estinzione di un rapporto societario”, si presta a comprendere, quale specie di questi, tutte le liti che vedano coinvolti la societa’ ed i suoi amministratori, senza poter distinguere fra quelle che riguardino l’attivita’ gestoria svolta dagli amministratori nell’espletamento del rapporto organico ed i diritti ad essi spettanti in forza del rapporto contrattuale che intercorre con la societa’” (conf. Cass. 2759/16, nonche’, successivamente, Cass. SSUU n. 1545/17).
Con il terzo motivo di ricorso, riferito dell’articolo 360 c.p.c., nn. 3 e 5, il sig. (OMISSIS) deduce la violazione e falsa applicazione degli articoli 115 e 116 c.p.c. e dell’articolo 2697 c.c., nonche’ il vizio di omesso esame circa fatti decisivi per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti, attinenti all’avvenuta contestazione dell’avversa pretesa e alla mancanza, o insufficienza, di prove dimostrative dell’attivita’ a cui si riferisce il corrispettivo giudizialmente richiesto dal Dott. (OMISSIS); nel motivo, inoltre, si lamenta la violazione dei principi regolatori del giusto processo sulla disponibilita’ delle prove e sull’onere della prova. Il ricorrente sostiene che il Dott. (OMISSIS) null’altro avrebbe provato se non i colloqui intrattenuti con lo studio del Dott. Terragno, commercialista della societa’ (OMISSIS) s.n.c., al fine di ricevere le necessarie informazioni sulla contabilita’ aziendale; la partecipazione, in rappresentanza di detta societa’, ad una assemblea di condominio; la presentazione di una istanza (disattesa dal Tribunale) di fallimento della stessa societa’ alla cui liquidazione egli attendeva. Sulla scorta di tali premesse il ricorrente censura il giudizio della Corte d’appello di congruita’ della notula emessa dal suddetto Dott. (OMISSIS) per l’attivita’ di liquidazione societaria da lui svolta.
Il motivo non puo’ trovare accoglimento.
Quanto alla doglianza con cui si addebita alla Corte d’appello di aver fatto malgoverno del principio di non contestazione, e’ sufficiente rilevare che l’impugnata sentenza non afferma che l’opponente non avrebbe contestato le attivita’ di cui il liquidatore ha chiesto il pagamento, ma afferma, correttamente, che l’opponente non ha contestato ne’ che la societa’ fosse in liquidazione ne’ che il Dott. (OMISSIS) fosse stato nominato liquidatore.
Per il resto, la Corte salentina ha ritenuto provato lo svolgimento, da parte del Dott. (OMISSIS), delle attivita’ “elencate nella nota specifica in atti” (pagina 10 della sentenza, ultimo capoverso); tale giudizio di fatto non e’ censurabile in sede di legittimita’ se non con il mezzo, e nei limiti, di cui dell’articolo 360 c.p.c., n. 5. Il motivo di ricorso in esame, per contro, non indica alcun un fatto storico, che abbia formato oggetto di discussione tra le parti, che la corte territoriale avrebbe omesso di esaminare e che, essendo decisivo, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia (cfr. Cass. 27415/18). Il ricorrente si limita a sviluppare doglianze di merito, che si risolvono nella richiesta a questa Corte di sostituirsi alla Corte territoriale nell’apprezzamento delle risultanze istruttorie. Tale richiesta va giudicata inammissibile, in conformita’ al costante insegnamento giurisprudenziale alla cui stregua, come ricordato ancora di recente dalle Sezioni Unite di questa Corte nella sentenza n. 34476/19, “e’ inammissibile il ricorso per cassazione che, sotto l’apparente deduzione del vizio di violazione o falsa applicazione di legge, di mancanza assoluta di motivazione e di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio miri, in realta’, ad una rivalutazione dei fatti storici operata dal giudice di merito”.
Con il quarto motivo di ricorso, riferito dell’articolo 360 c.p.c., nn. 3 e 5, il sig. (OMISSIS) lamenta l’omesso esame dei fatti, asseritamente decisivi per il giudizio, dedotti dalla societa’ (OMISSIS) a fondamento della propria domanda riconvenzionale di risarcimento del danno cagionatole dalla presentazione dell’istanza di fallimento. Nel mezzo di impugnazione si denuncia altresi’ la violazione e falsa applicazione degli articoli 115 e 116 c.p.c., in relazione alla prova del danno causato da detta istanza alla societa’ in liquidazione, la violazione degli articoli 2043, 1223, 1226, 2056 c.c. e la violazione del principio del giusto processo sulla disponibilita’ delle prove. Il ricorrente sostiene che il Dott. (OMISSIS) – prestando acquiescenza alla pretesa della (OMISSIS), anziche’ contestarla, e proponendo istanza di fallimento avrebbe arrecato un danno alla societa’ (OMISSIS) non solo per le spese legali sostenute, comprensive del compenso del consulente contabile, ma anche e soprattutto per l’allarme che la pendenza dell’istanza di fallimento aveva generato nell’ambiente economico; danno di carattere sia patrimoniale che non patrimoniale.
Anche il quarto motivo di ricorso va giudicato inammissibile, per le stesse ragioni di diritto processuale da cui dipende l’inammissibilita’ del terzo motivo. Pure il quarto motivo, infatti, si risolve nella proposizione di una richiesta di rivalutazione di merito delle risultanze istruttorie, che non puo’ essere svolta nel giudizio di legittimita’. La Corte territoriale ha disatteso la domanda di risarcimento dei danni derivati alla (OMISSIS) s.n.c. dalla istanza di “autofallimento” presentata dal suo liquidatore sulla scorta di una duplice ratio decidendi, ossia, per un verso, escludendo in radice della presentazione di tale istanza e, per altro verso, ritenendo non raggiunta la prova di un qualunque danno. Le doglianze proposte dal ricorrente non attingono adeguatamente la prima ratio decidendi, in quanto dalle argomentazioni sviluppate alle pagine 24 e 25 del ricorso per cassazione non emerge alcun fatto decisivo trascurato dalla Corte d’appello che, se esaminato, avrebbe condotto all’accertamento di una condotta colposa del liquidatore nella proposizione dell’istanza di fallimento.
Il ricorso va quindi, in definitiva, rigettato.
Le spese seguono la soccombenza.
Deve altresi’ darsi atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, del raddoppio del contributo unificato Decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2002, ex articolo 13, comma 1-quater, se dovuto.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.
Condanna il ricorrente a rifondere al controricorrente le spese del giudizio di cassazione, che liquida in Euro 7.300, oltre Euro 200 per esborsi e oltre accessori di legge.
Si da’ atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso articolo 13, comma 1 bis, se dovuto.

 

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