Il cambiamento di destinazione d’uso senza realizzazione di opere edilizie

Consiglio di Stato, sezione seconda, Sentenza 4 luglio 2019, n. 4590.

La massima estrapolata:

Il cambiamento di destinazione d’uso senza realizzazione di opere edilizie, pertanto, non costituisce un’attività del tutto libera e priva di vincoli, non potendo comportare la vanificazione di ogni previsione urbanistica che disciplini l’uso nel territorio nel singolo Comune; in effetti una diversa soluzione non solo costituirebbe, in linea di principio, una inammissibile vulnerazione delle prerogative di autonomia e responsabilità sul territorio degli enti locali, ma comporterebbe anche, in concreto, la violazione di regole generali finalizzate ad assicurare il corretto ed ordinato assetto del territorio, con conseguente inevitabile pericolo di pregiudizievoli modificazioni degli equilibri prefigurati dalla strumentazione urbanistica.

Sentenza 4 luglio 2019, n. 4590

Data udienza 21 maggio 2019

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Seconda
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 734 del 2011, proposto da
It. Mi., rappresentato e difeso dagli avvocati Lu. Ma., Vi. Do. e Pa. Ne., con domicilio eletto presso lo studio Lu. Ma. in Roma, via (…);
Es. Mi., rappresentata e difesa dagli avvocati Vi. Do., Lu. Ma. e Pa. Ne., con domicilio eletto presso lo studio Lu. Ma. in Roma, via (…);
contro
Comune di (omissis), in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Li. Vi. e Sa. Di Ma., con domicilio eletto presso lo studio Sa. Di Ma. in Roma, via (…);
per la riforma
della sentenza del T.A.R. VENETO – VENEZIA: SEZIONE II n. 02742/2010, resa tra le parti, concernente la rimozione di opere relative a cambio di destinazione d’uso.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio del Comune di (omissis);
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 21 maggio 2019 il Cons. Paolo Giovanni Nicolò Lotti e uditi per le parti gli avvocati Pa. Ca., su delega Lu. Ma., e Sa. Di Ma..

FATTO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto, Sez. II, con la sentenza 30 giugno 2010, n. 2742, ha respinto il ricorso proposto dall’attuale parte appellante per l’annullamento del provvedimento n. prot. 1355, emesso il 27.2.1996 dal Sindaco del Comune di (omissis) e notificato il 29.2.1996, con il quale si diffida il ricorrente dall’uso residenziale dei locali destinati a magazzino, nonché del provvedimento sindacale n. prot. 1356, emesso il 27.2.1996 e notificato il 29.2.1996, recante ingiunzione alla rimozione delle opere relative al cambio di destinazione d’uso con ripristino di quella originaria dei locali siti in via (omissis) n. (omissis), distinti al mappale (omissis) del foglio (omissis) del N.C.T. del Comune di (omissis).
Secondo il TAR, sinteticamente:
– nel 1990 il ricorrente aveva ottenuto una concessione edilizia per realizzare una costruzione interrata a uso autorimessa e magazzino;
– nel 1993 il ricorrente aveva chiesto l’autorizzazione per realizzare delle tramezzature interne ai locali;
– nel 1994 i vigili urbani avevano accertato il cambio di destinazione d’uso dell’edificio de quo da magazzino a civile abitazione mediante realizzazione di una cucina, di due camere da letto, di due bagni privi di areazione naturale, di un corridoio e di un ripostiglio;
– in data 6.9.1995 l’U.L.S.S. n. 1 aveva comunicato al Sindaco di Comelico Superiore il parere negativo all’idoneità igienico – sanitaria del predetto alloggio in quanto entrambi i bagni erano privi di aereazione e illuminazione naturale;
– la trasformazione di un deposito/magazzino, mediante la realizzazione di opere di impiantistica, e la predisposizione di servizi con una dotazione incompatibile con la originaria destinazione, concreta una modifica della destinazione d’uso;
– infatti, le opere effettuate, sebbene non integrino interventi murari e di rilevante entità (collocazione dei sanitari nei bagni, scala, soppalco, arredamento dei locali), appaiono essenziali per consentire la fruizione dell’alloggio come abitazione;
– l’unità immobiliare del ricorrente non è mai stata considerata interrata ma sempre seminterrata ed è quindi non sanabile, in quanto contrasta con la normativa edilizia vigente e più precisamente con l’art. 34 del regolamento edilizio;
– l’art. 37, comma 2, del regolamento edilizio richiede comunque la presenza di almeno un bagno munito di illuminazione ed areazione naturale nell’unità abitativa, ben potendo essere gli altri posti a servizio delle singole camere ciechi.
La parte appellante contestava la sentenza del TAR deducendone l’erroneità per i seguenti motivi:
– difetto di istruttoria e di motivazione; violazione e falsa applicazione dell’art. 1 L. n. 10-1977; violazione e falsa applicazione dell’art. 25, u.c., L. n. 47-1985; violazione e falsa applicazione dell’art. 76, commi 1 e 2, e dell’art. 93 L.R. Veneto n. 61-1985; eccesso di potere per erroneità dei presupposti, travisamento dei fatti, contraddittorietà interna;
– difetto di istruttoria e di motivazione sotto altro profilo; iolazione e falsa applicazione degli artt. 33, 34, 37 del Regolamento Edilizio comunale; eccesso di potere, sotto altro profilo, per erroneità dei presupposti, travisamento dei fatti, contraddittorietà interna e illogicità manifesta.
Con l’appello in esame chiedeva l’accoglimento del ricorso di primo grado.
Si costituiva la parte appellata, chiedendo la reiezione dell’appello.
All’udienza pubblica del 21 maggio 2019 la causa veniva trattenuta in decisione.

DIRITTO

1. Parte appellante ha depositato in data 9 aprile 2019, assunta al prot. comunale n. 1160, “istanza di sanatoria ex art. 36 d.P.R. n. 380-2001.
Il Collegio non disconosce l’orientamento giurisprudenziale secondo cui, quando viene presentata domanda di sanatoria di abusi edilizi, diventano inefficaci i precedenti atti sanzionatori (ordini di demolizioni, in particolare) nel presupposto, così come affermato da ricorrente giurisprudenza, che “sul piano procedimentale, il Comune è tenuto innanzi tutto a esaminare ed eventualmente a respingere la domanda di condono effettuando, comunque, una nuova valutazione della situazione mentre, dal punto di vista processuale, la documentata presentazione di istanza di condono comporta l’improcedibilità del ricorso per carenza di interesse avverso i pregressi provvedimenti repressivi” (cfr., ex multis, Consiglio di Stato, Sez. V, 31 ottobre 2012, n. 5553).
Nel caso in esame, tuttavia, il ricorso proposto dall’attuale parte appellante riguarda anche il preteso annullamento del provvedimento n. prot. 1355, emesso il 27.2.1996 dal Sindaco del Comune di (omissis) e notificato il 29.2.1996, con il quale si diffida il ricorrente dall’uso residenziale dei locali destinati a magazzino e, rispetto a tale atto, (anche volendo condividere la predetta giurisprudenza) sussiste ancora la necessità di pronunciarsi circa la relativa legittimità .
2. In ogni caso, si deve ritenere che la dichiarazione di improcedibilità del ricorso consegua alla considerazione che, in presenza di un’istanza di sanatoria, l’Amministrazione non potrebbe eseguire la precedente ordinanza demolitoria, vale a dire postula che la proposizione dell’istanza di accertamento di conformità urbanistica determina la definitiva cessazione d’efficacia del provvedimento demolitorio a suo tempo adottato.
Ciò, pertanto, non si verifica in numerosi casi ove sia stata esclusa la possibilità di rinvenire nel sistema una previsione alla quale riallacciare un tale effetto.
Nel caso in esame, l’istanza ex art. 36 d.P.R. n. 380-2001 è idonea a determinare un mero arresto di efficacia dell’ordine di demolizione, destinato a venir meno in caso di rigetto dell’istanza in questione.
In altri termini, non sono ravvisati motivi per imporre all’Amministrazione comunale il riesercizio del potere sanzionatorio a seguito dell’esito negativo del procedimento di accertamento di conformità urbanistica, atteso che il provvedimento di demolizione costituisce un atto vincolato a suo tempo adottato in esito ad un procedimento amministrativo sul quale non interferisce l’eventuale conclusione negativa del procedimento ad istanza di parte ex art. 36 d.P.R. n. 380-2001.
Aderendo a tale secondo orientamento in ragione dei contenuti della normativa vigente e delle peculiarità della fattispecie (le quali impongono l’obbligo di escludere un’assimilazione con quella scaturente dall’inoltro di un’istanza per ottenere il c.d. condono edilizio), il Collegio ritiene che persista l’interesse degli appellanti al ricorso.
3. Nel merito, l’appello è infondato.
Infatti, non è contestato che la parte appellante abbia effettivamente eseguito un mutamento d’uso di un magazzino – deposito (non accessorio ad un’abitazione, ma un edificio così autonomamente e precisamente destinato), trasformando lo stesso in un’unità immobiliare residenziale, ovvero in un appartamento nel quale lo stesso ricorrente, unitamente alla madre, ha stabilito la propria abitazione.
Tale situazione di fatto è stata realizzata in modo completamente abusivo ed è stata rilevata dalla polizia municipale (doc. 6 Comune in primo grado) e, poi, anche dalla locale autorità sanitaria (docc. 4 e 5 Comune in primo grado), ritenuta da quest’ultima contraria ai regolamenti igienico – sanitari e pericolosa per la presenza di una caldaia a gas in un ambiente privo di aerazione.
4. Per quanto riguarda l’abusiva trasformazione dell’immobile destinato a magazzino e deposito in unità abitativa (appartamento residenziale), si deve rilevare che detto mutamento è rilevante urbanisticamente perché intervenuto tra categorie urbanistiche diverse, essendo la destinazione a deposito e magazzino assimilabile a quella produttiva artigianale o, altrimenti, a quella commerciale, non certo a quella residenziale.
Infatti, non si può ritenere urbanisticamente irrilevante la trasformazione di un garage o di una soffitta in un locale abitabile e deve ritenersi che solo il cambio di destinazione d’uso fra categorie edilizie omogenee non necessita di permesso di costruire (in quanto non incide sul carico urbanistico), mentre, allorché lo stesso intervenga tra categorie edilizie funzionalmente autonome e non omogenee, così come tra locali accessori e vani ad uso residenziale, integra una modificazione edilizia con effetti incidenti sul carico urbanistico, con conseguente assoggettamento al regime del permesso di costruire e ciò indipendentemente dall’esecuzione di opere che, comunque, nel caso di specie sono presenti.
Il cambiamento di destinazione d’uso senza realizzazione di opere edilizie, pertanto, non costituisce un’attività del tutto libera e priva di vincoli, non potendo comportare la vanificazione di ogni previsione urbanistica che disciplini l’uso nel territorio nel singolo Comune; in effetti una diversa soluzione non solo costituirebbe, in linea di principio, una inammissibile vulnerazione delle prerogative di autonomia e responsabilità sul territorio degli enti locali, ma comporterebbe anche, in concreto, la violazione di regole generali finalizzate ad assicurare il corretto ed ordinato assetto del territorio, con conseguente inevitabile pericolo di pregiudizievoli modificazioni degli equilibri prefigurati dalla strumentazione urbanistica (cfr., ex multis, Consiglio di Stato, sez. I, 25 maggio 2012, n. 759).
La circostanza che il mutamento di destinazione d’uso sia intervenuto già nel 1994, quando la legislazione regionale veneta non assoggettava il mutamento di destinazione d’uso meramente funzionale a concessione edilizia bensì ad autorizzazione, non toglie pregio al principio dalla giurisprudenza, posto che ancorché manchi la disciplina regionale, il cambiamento di destinazione d’uso senza realizzazione di opere edilizie non costituisce una attività del tutto libera e priva di vincoli (cfr. Consiglio di Stato n. 759-2012 cit.).
Peraltro, nel caso di specie si verte in un’ipotesi di mutamento di destinazione d’uso con opere edilizie, costituite dalla realizzazione di tramezze, di servizi igienici (bagni e scarichi) con installazione dei relativi sanitari, una scala e anche un soppalco: il tutto, come si evince dalle relazioni di sopralluogo, ha determinato la nascita di un vero e proprio appartamento, attrezzato con impianti e completamente arredato, nonché abitato dal ricorrente.
Non è tanto la quantità degli interventi edilizi che determina il rilievo degli stessi ai fini del mutamento d’uso con opere, bensì soprattutto la qualità ossia il fatto che gli stessi risultino finalizzati ad un diverso utilizzo del bene.
La realizzazione di ben due bagni (ancorché “ciechi”) senza autorizzazione determina già di per sé il mutamento d’uso.
Anche il soppalco appare a ciò destinato, così come la scala per raggiungere lo stesso, che sembrano integrare interventi strutturali, riguardando la realizzazione, in sostanza, di un nuovo piano soppalcato e di una struttura verticale di collegamento, che hanno consentito un ampliamento a fini abitativi della stessa superficie utile dell’appartamento abusivo.
5. L’art. 37, comma 2, del Regolamento edilizio prevede necessariamente per ogni unità residenziale la presenza di un bagno con aperture verso l’esterno ed è coerente con l’impianto della norma che i bagni c.d. “ciechi” non possano che essere quelli a servizio di singole e specifiche camere da letto, non certo di un intera unità residenziale (come nel caso di specie) che evidentemente è formata anche da altre parti abitate che non corrispondono con le sole camere da letto.
Né la norma regolamentare in parola prevede alcuna deroga alla necessità della presenza di almeno un bagno con apertura diretta verso l’esterno, atta ad assicurare l’indispensabile ricambio dell’aria.
Tale norma ha natura igienico-sanitaria e, come tale, è di stretta interpretazione.
6. La pretesa errata qualificazione di edificio “interrato” anziché “seminterrato” dell’immobile è stata oggetto di una specifica (ipotizzata) dimostrazione soltanto in sede di appello, laddove è stato dedotto il motivo delle misure di riferimento delle quote altimetriche del pavimento che la norma di cui all’articolo 34 del Regolamento Edilizio del Comune impone debbano insistere a non più di un metro al di sotto della quota più alta delle sistemazioni esterne.
Peraltro, quanto dedotto circa la reale natura “seminterrata” dell’immobile, nulla ha a che fare con la motivazione del provvedimento comunale che non ha mai qualificato come “interrato” l’immobile del signor Mina.
In appello si sostiene che vi sarebbe stato il rispetto della quota del metro del pavimento rispetto alle sistemazioni esterne, ma tale elemento specifico non è mai stato né esplicitamente né implicitamente dedotto quale motivo del ricorso di primo grado ed è, pertanto, inammissibile in sede d’appello.
7. Conclusivamente, alla luce delle predette argomentazioni, l’appello deve essere respinto, in quanto infondato.
Le spese di lite del presente grado di giudizio, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
Sezione Seconda,
Definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe indicato, lo respinge.
Condanna l’appellante al pagamento delle spese di lite del presente grado di giudizio in favore della parte appellata, spese che liquida in euro 4.000,00, oltre accessori di legge.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 21 maggio 2019 con l’intervento dei magistrati:
Gianpiero Paolo Cirillo – Presidente
Paolo Giovanni Nicolò Lotti – Consigliere, Estensore
Giancarlo Luttazi – Consigliere
Giovanni Sabbato – Consigliere
Carla Ciuffetti – Consigliere

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