Giustificazione motivazionale è di esclusivo dominio del giudice del merito

Corte di Cassazione, civile, Sentenza|13 giugno 2022| n. 19032.

Giustificazione motivazionale è di esclusivo dominio del giudice del merito

La giustificazione motivazionale è di esclusivo dominio del giudice del merito, con la sola eccezione del caso in cui essa debba giudicarsi meramente apparente; apparenza che ricorre allorquando essa, benché graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture. A tale ipotesi, deve aggiungersi il caso in cui la motivazione non risulti dotata dell’ineludibile attitudine a rendere palese (sia pure in via mediata o indiretta) la sua riferibilità al caso concreto preso in esame, di talché appaia di mero stile, o, se si vuole, standard: cioè un modello argomentativo a priori, che prescinda dall’effettivo e specifico sindacato sul fatto (Nel caso di specie, relativo ad una controversia insorta in materia di appalto lavori pubblici in cui parte ricorrente aveva denunciato la nullità della sentenza, ex art. 132, comma 2, n. 4, cod. proc. civ. in quanto affetta da motivazione apparente per avere la decisione di primo grado, rigettato la domanda di condanna della società controricorrente al pagamento della penale per la ritardata ultimazione dei lavori, la Suprema Corte, in applicazione degli enunciati principi ha cassato, in quanto nulla, la pronuncia impugnata in quanto sorretta da un costrutto motivazionale di pura ed evidente apparenza; in particolare, osserva la sentenza in epigrafe, il giudice si è illegittimamente sottratto al dovere di spiegare le ragioni della propria decisione, la quale s’impone e giustifica proprio attraverso la piena visibilità del percorso argomentativo, che non può ridursi al nudo atto di libera, anzi arbitraria, manifestazione del volere, avendo egli il dovere di indicare gli elementi da cui ha tratto il proprio convincimento, non essendo bastevole una sommaria evocazione priva di un’approfondita disamina logica e giuridica, rendendo, in tal modo, impossibile ogni controllo sull’esattezza e sulla logicità del suo ragionamento). (Riferimenti giurisprudenziali: Cassazione, sezione civile I, ordinanza 30 giugno 2020, n. 13248; Cassazione, sezione civile L, ordinanza 5 agosto 2019, n. 20921; Cassazione, sezione civile VI, ordinanza 23 maggio 2019, n. 13977; Cassazione, sezione civile VI, ordinanza 7 aprile 2017, n. 9105; Cassazione, sezioni civili unite, sentenza 3 novembre 2016, n. 22232).

Sentenza|13 giugno 2022| n. 19032. Giustificazione motivazionale è di esclusivo dominio del giudice del merito

Data udienza 10 maggio 2022

Integrale

Tag/parola chiave: OPERE E LAVORI PUBBLICI – APPALTO

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI VIRGILIO Rosa M. – Presidente

Dott. CARRATO Aldo – Consigliere

Dott. GRASSO Giuseppe – rel. Consigliere

Dott. DONGIACOMO Giuseppe – Consigliere

Dott. AMATO Cristina – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
sul ricorso 12693/2017 R.G. proposto da:
(OMISSIS), elettivamente domiciliato in (OMISSIS), presso lo studio degli avvocati (OMISSIS), E (OMISSIS), che lo rappresentano e difendono;
– ricorrente –
contro
(OMISSIS) SRL, elettivamente domiciliata in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), che la rappresenta e difende;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1898/2017 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 22/03/2017;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 10/05/2022 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE GRASSO.

Giustificazione motivazionale è di esclusivo dominio del giudice del merito

FATTI DI CAUSA

1. La vicenda processuale, per quel che qui rileva, puo’ sintetizzarsi nei termini che seguono.
La (OMISSIS) – s.r.l., premettendo che con contratto d’appalto del (OMISSIS) il (OMISSIS) le aveva commesso l’incarico di effettuare lavori di “profilatura del canale (OMISSIS)” per il corrispettivo netto pattuito di Lire 750.379.732; che dalle riserve formalmente sollevate nel corso dei lavori e confermate in sede di sottoscrizione dello stato finale emergevano i seguenti crediti:
– Lire 13.423.321 a titolo di risarcimento del danno causato dall’allagamento procurato dal mancato funzionamento delle pompe idrovore del Consorzio (riserva n. 2);
– Lire 281.420.024 a titolo di risarcimento del danno conseguente alla illegittima sospensione dei lavori dal 26/8/1988 al 18/5/1989, per fatto imputabile all’amministrazione (riserva n. 3);
– risarcimento del danno per la ritardata emissione del certificato di ultimazione lavori e revisione prezzi (riserva n. 7);
– rimborso di quanto speso per l’acquisto di taluni terreni mediante privata compravendita, non avendo il Consorzio ottenuto la proroga dei termini per l’espropriazione (riserva n. 8);
evocato in giudizio il Consorzio, chiese che lo stesso fosse condannato al risarcimento del danno complessivo, al pagamento del saldo e all’ulteriore risarcimento per non avere chiuso tempestivamente la contabilita’, cosi’ da consentire all’appaltatore di rimuovere il cantiere.
Il convenuto, contestata integralmente la domanda, in via riconvenzionale chiese che l’attrice fosse condannata al pagamento della penale di Lire 75.038.000, per avere ultimato i lavori con 1.257 giorni di ritardo.

 

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2. Il Tribunale, accolta in parte la domanda della (OMISSIS), condanno’ il Consorzio al pagamento della complessiva somma di Euro 106.531,55, oltre rivalutazione monetaria, nonche all’ulteriore somma di Euro 15.248,72, oltre interessi al tasso legale.
3. La Corte d’appello di Roma, investita dall’impugnazione del (OMISSIS) e da quello incidentale della (OMISSIS) – s.r.l., confermo’ la sentenza di primo grado.
4. Il Consorzio ricorreva avverso la decisione d’appello sulla base di tre motivi, ulteriormente illustrati da memoria e l’intimata resisteva con controricorso, anch’esso illustrato da memoria.
5. Venuto il processo in trattazione all’adunanza camerale del 16/11/2021, il Collegio disponeva la trattazione in pubblica udienza.
Fissata pubblica udienza, non essendo pervenuta dalle parti e dal P.G. richiesta di discussione orale, ai sensi del Decreto Legge 28 ottobre 2020, n. 137, articolo 23, comma 8bis, convertito nella L. n. 176 del 2000, si e’ proceduto in camera di consiglio.
All’approssimarsi della pubblica udienza il Consorzio ha fatto pervenire nuova memoria, assorbente del contenuto della prima.
Il P.G. ha fatto pervenire le sue conclusioni scritte, con le quali ha concluso “per l’accoglimento del solo terzo motivo di ricorso, disattesi gli altri”.

 

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RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di doglianza il ricorrente denuncia violazione del Decreto del Presidente della Repubblica n. 1063 del 1962, articolo 30 nonche’ violazione e falsa applicazione del Regio Decreto n. 2440 del 1923, articolo 16, comma 4.
La doglianza attinge la sentenza d’appello nella parte in cui essa ha disatteso il primo motivo d’appello, con il quale l’appellante aveva sostenuto che la sospensione dei lavori si era resa necessaria per fatti sopravvenuti, non imputabili alla stazione appaltante, al fine di adeguare i lavori alle richieste della Provincia di Latina (allargamento della carreggiata del ponte) e per far fronte a un rinvenuto maggior volume di scavo.
La Corte locale afferma che, avvenuta l’aggiudicazione il 18/10/1985 e l’approvazione in data 13/6/1986, la Provincia di Latina, con nota del 21/6/1986 aveva chiesto al Consorzio l’adeguamento alle norme tecniche del Consiglio superiore LL.PP. dell’11/11/1980; in data (OMISSIS) le parti avevano stipulato il contratto d’appalto, senza che la committente avesse provveduto a modificare il progetto. La sospensione dei lavori era stata ordinata dal 26/8/1988 al 18/5/1989. Poiche’ il contratto andava considerato concluso con la stipula dell’atto del (OMISSIS) e non gia’ con l’aggiudicazione del 18/10/1985 o con la successiva approvazione del 13/6/1986, la necessita’ delle varianti avrebbe dovuto essere esplicitata nel contratto, dovendosi, pertanto, negare ad esse natura di evenienze sopravvenute.
Assume la ricorrente che la decisione si poneva in contrasto con il Regio Decreto n. 2440 del 1923, articolo 16 che al comma 4 dispone. “I processi verbali di aggiudicazione definitiva, in seguito ad incanti pubblici o a provate licitazioni, equivalgono per ogni effetto legale al contratto”.
La giurisprudenza di legittimita’ richiamata dalla Corte di Roma non poteva reputarsi di decisiva pertinenza, stante che la Cassazione, con le pronunce in parola aveva inteso identificare il momento perfezionativo del sinallagma al solo fine d’individuare la giurisdizione. Pertanto, prosegue la ricorrente, “se pur e’ corretto affermare che il vincolo contrattuale si perfeziona, sotto ogni aspetto, con la stipula dell’atto pubblico, non potrebbe comunque disconoscersi che una volta disposta l’aggiudicazione non e’ consentito alla Stazione Appaltante operare consistenti modifiche alla prestazione richiesta all’Impresa”.
1.1. La doglianza deve essere rigettata.
Costituisce fermo approdo di legittimita’ l’affermazione, riferita alla portata del Regio Decreto 18 novembre 1923, n. 2240, articolo 16, comma 4, “secondo cui tale norma (in base alla quale “i processi verbali di aggiudicazione definitiva, in seguito ad incanti pubblici a private licitazioni, equivalgono per ogni legale effetto al contratto”) ha natura dispositiva, come costantemente affermato dal questa Corte e dalla giurisprudenza amministrativa (Cass., 4 marzo 2011, n. 5217; Cass., 27 marzo 2007, n. 7481; Cass., Sez. U, 15 aprile 2003, n. 5992; Cass., Sez. U, 11 giugno 1998, n. 5807; Tar Piemonte, 19 febbraio 2007, n. 706; Cons. Stato, 12 giugno 1987, n. 380): la pubblica amministrazione, alla quale spetta valutare discrezionalmente l’interesse pubblico, puo’ rinviare, anche implicitamente, la costituzione del vincolo al momento della stipulazione del contratto, fino al quale non sussiste un diritto soggettivo dell’aggiudicatario all’esecuzione di esso” (S.U., n. 8040, 30/3/2018).

 

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Lo sforzo argomentativo del ricorrente, al chiaro scopo di bypassare l’ostacolo costituito dal richiamato “diritto vivente”, di cui il medesimo mostra di avere piena consapevolezza, appare vano. Invero, non e’ dato rinvenire la consistenza giuridica dell’affermazione, sopra riportata, secondo la quale “il vincolo contrattuale si perfeziona, sotto ogni aspetto, con la stipula dell’atto pubblico”, tuttavia sostenendo, allo stesso tempo, che dal momento dell’aggiudicazione non sarebbe piu’ consentito alla p.a. apportare modifiche alla prestazione. Esattamente all’opposto, fermo restando il potere dell’amministrazione, cui corrisponde la posizione soggettiva tutelabile dell’aggiudicatario, di “rinviare la costituzione del vincolo”, la predetta costituzione, con la stipula dell’atto, rappresenta, a un tempo, la nascita dei rispettivi diritti e obbligazioni contrattuali e la definitiva assegnazione dell’opus.
2. Con il secondo motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell’articolo 2697 c.c. e degli articoli 115 e 116 c.p.c.
La doglianza critica la sentenza d’appello per avere confermato la statuizione di primo grado, che aveva condannato il Consorzio per i danni dipendenti dalla riserva n. 3.
La sentenza del Tribunale, secondo l’assunto impugnatorio, aveva quantificato il danno in complessivi Euro 106.531,55 sulla base di una “insignificante” motivazione, strutturata in quattro righi. La Corte locale, sollecitata sul punto, con il secondo motivo d’impugnazione, ha deciso sulla base di una motivazione che presupporrebbe un giudizio d’adeguatezza del “supporto probatorio acquisito in I grado”, supporto, invece, mancante, poiche’ il Tribunale si era limitato a genericamente richiamare le risultanze istruttorie, con particolare riferimento alla prova testimoniale e all’esame dei bilanci.
2.1. Il motivo non supera lo scrutinio d’ammissibilita’.
2.1.1. La doglianza investe inammissibilmente l’apprezzamento delle prove effettuato dal giudice del merito, in questa sede non sindacabile, neppure attraverso l’escamotage dell’evocazione dell’articolo 116 c.p.c., in quanto, come noto, una questione di violazione o di falsa applicazione degli articoli 115 e 116 c.p.c. non puo’ porsi per una erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito (cfr., da ultimo, Sez. 6, n. 27000, 27/12/2016, Rv. 642299). Punto di diritto, questo, che ha trovato recente conferma nei principi enunciati dalle Sezioni unite in epoca recente (sent. n. 20867, 30/09/2020, conf. Cass. n. 16016/2021), essendosi affermato che in tema di ricorso per cassazione, la doglianza circa la violazione dell’articolo 116 c.p.c. e’ ammissibile solo ove si alleghi che il giudice, nel valutare una prova o, comunque, una risultanza probatoria, non abbia operato – in assenza di diversa indicazione normativa – secondo il suo “prudente apprezzamento”, pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore oppure il valore che il legislatore attribuisce ad una differente risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale), oppure, qualora la prova sia soggetta ad una specifica regola di valutazione, abbia dichiarato di valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento, mentre, ove si deduca che il giudice ha solamente male esercitato il proprio prudente apprezzamento della prova, la censura e’ ammissibile, ai sensi del novellato articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5, solo nei rigorosi limiti in cui esso ancora consente il sindacato di legittimita’ sui vizi di motivazione (Rv. 659037). E inoltre che per dedurre la violazione dell’articolo 115 c.p.c., occorre denunciare che il giudice, in contraddizione espressa o implicita con la prescrizione della norma, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli (salvo il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilita’ di ricorrere al notorio), mentre e’ inammissibile la diversa doglianza che egli, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attivita’ valutativa consentita dall’articolo 116 c.p.c. (Rv. 659037).
2.1.2. La denunzia di violazione di legge non determina, per cio’ stesso, nel giudizio di legittimita’ lo scrutinio della questione astrattamente evidenziata sul presupposto che l’accertamento fattuale operato dal giudice di merito giustifichi il rivendicato inquadramento normativo, essendo, all’evidenza, occorrente che l’accertamento fattuale, derivante dal vaglio probatorio, sia tale da doversene inferire la sussunzione nel senso auspicato dal ricorrente (da ultimo, S.U. n. 25573, 12/11/2020, Rv. 659459).
Si avrebbe violazione dell’articolo 2697 c.c. nel caso in cui il giudice ponesse a carico della parte non onerata dalla legge il carico probatorio, non gia’ allorquando, rispettato il riparto dell’onere, sulla base delle emergenze istruttorie, ricostruisca la vicenda fattuale, diversamente da come pretenda il ricorrente (cfr., ex multis, Cass. n. 17313/2020).
2.1.3. Sotto altro profilo e’ appena il caso di soggiungere che la rappresentazione del ricorrente si scontra con un ordito motivazionale qui non censurabile, il quale, per vero, richiama quello di primo grado, che, a sua volta, si fondava sulle emergenze istruttorie, che il ricorrente non assume, con precipua allegazione, essere state travisate.
3. Con il terzo motivo il ricorrente denuncia nullita’ della sentenza, ex articolo 132 c.p.c., comma 2, n. 4, in quanto affetta da motivazione apparente.
L’esponente premette di avere espressamente censurato con uno dei motivi d’appello la decisione di primo grado, per avere rigettato la domanda con la quale egli aveva chiesto condannarsi la (OMISSIS) al pagamento della penale per la ritardata ultimazione dei lavori.
Il Consorzio riporta per esteso, in seno al motivo qui in esame, la censura d’appello, con la quale, in particolare si era doluto del fatto che, nonostante la Commissione di collaudo avesse accertato un ritardo di 1257 giorni, il Tribunale, non avendo ben chiara la disciplina che regola il procedimento espropriativo, aveva confuso il termine contrattuale, entro il quale l’impresa era tenuta a completare i lavori, definendo le procedure espropriative, con la fissazione dei termini di durata della dichiarazione di pubblica utilita’ di competenza della p.a.
La Corte di Roma, chiosa il ricorrente, “dopo un riferimento alla posizione in merito assunta da Collaudatori e Direttore dei Lavori (posizioni evidentemente non in grado di incidere efficacemente sul diritto del Consorzio a percepire la penale, tenuto conto che ne’ i collaudatori ne’ il Direttore dei lavori avrebbero potuto efficacemente impegnare la stazione appaltante, ne’ in un senso ne’ nell’altro, competendo il diritto di disporre della penale non ai predetti ma all’amministrazione dell’Ente, che – nella specie – non ha mai dichiarato di volere rinunciare alla penale)…conclude l’esame della censura affermando che l’attenta condivisibile ricostruzione che il Tribunale ha compiuto circa il termine previsto per l’ultimazione dei lavori, consente di escludere l’applicazione della penale””.
Trattasi, a parere del ricorrente, di un argomento non sussumibile nel “genus” di motivazione, non avendo il Giudice d’appello, con le espressioni usate, in alcun modo esaminato il riportato motivo, con il quale si era contestata la motivazione del Tribunale a riguardo dell’asserita tempestiva conclusione delle attivita’ espropriative da parte dell’appaltatore.
3.1. La doglianza e’ fondata.
3.1.1. La giustificazione motivazionale e’ di esclusivo dominio del giudice del merito, con la sola eccezione del caso in cui essa debba giudicarsi meramente apparente; apparenza che ricorre, come di recente ha ribadito questa Corte, allorquando essa, benche’ graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perche’ recante argomentazioni obiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le piu’ varie, ipotetiche congetture (Sez. 6, n. 13977, 23/5/2019, Rv. 654145; ma gia’ S.U. n. 22232/2016).
A tale ipotesi deve aggiungersi il caso in cui la motivazione non risulti dotata dell’ineludibile attitudine a rendere palese (sia pure in via mediata o indiretta) la sua riferibilita’ al caso concreto preso in esame, di talche’ appaia di mero stile, o, se si vuole, standard; cioe’ un modello argomentativo apriori, che prescinda dall’effettivo e specifico sindacato sul fatto.
Siccome ha gia’ avuto modo questa Corte di piu’ volte chiarire, la riformulazione dell’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal Decreto Legge 22 giugno 2012, n. 83, articolo 54 conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’articolo 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimita’ sulla motivazione, con la conseguenza che e’ pertanto, denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in se’, purche’ il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali; anomalia che si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (S.U., n. 8053, 7/4/2014, Rv. 629830; S.U. n. 8054, 7/4/2014, Rv. 629833; Sez. 6-2, ord., n. 21257, 8/10/2014, Rv. 632914).
La sentenza di appello, motivata “per relationem” alla sentenza di primo grado, deve considerarsi nulla qualora la laconicita’ della motivazione non consenta di appurare che alla condivisione della decisione di prime cure il giudice d’appello sia pervenuto attraverso l’esame e la valutazione di infondatezza dei motivi di gravame, previa specifica ed adeguata considerazione delle allegazioni difensive, degli elementi di prova e dei motivi di appello (Sez. 6, n. 22022, 21/9/2017, Rv. 645333; si veda pure Cass. n. 16057/2018).
3.1.2. Alla luce dei richiamati principi la sentenza della Corte di Roma deve essere dichiarata nulla, poiche’ sorretta da un costrutto motivazionale di pura ed evidente apparenza, attraverso il quale il giudice si e’ illegittimamente sottratto al dovere di spiegare le ragioni della propria decisione, la quale s’impone e giustifica proprio attraverso la piena visibilita’ del percorso argomentativo, che non puo’ ridursi al nudo atto di libera, anzi arbitraria, manifestazione del volere, avendo egli il dovere di indicare gli elementi da cui ha tratto il proprio convincimento, non essendo bastevole una sommaria evocazione priva di un’approfondita disamina logica e giuridica, rendendo, in tal modo, impossibile ogni controllo sull’esattezza e sulla logicita’ del suo ragionamento (in tal senso, da ultimo, Cass. nn. 9105/2017, 20921/2019, 13248/2020).
3.1.3. Nel caso al vaglio risulta evidente l’inconcludenza motivazionale (“tamquam non esset”).
Come si e’ riportato, il Consorzio aveva, con un articolato motivo, chiesto al Giudice d’appello di riformare la sentenza di primo grado sul punto qui in discussione, in quanto, a suo parere, il ritardo nell’ultimazione dei lavori era addebitabile all’impresa, poiche’ costei, alla quale competeva l’onere, aveva definito in ritardo le procedure d’espropriazione, non assumendo rilievo che la Giunta regionale del Lazio avesse fissato il termine per il completamento delle procedure espropriative per il 29/7/1993 e per l’ultimazione dei lavori, per il 19/5/1992. L’appellante aveva addebitato al Tribunale di avere “confuso i termini del procedimento espropriativo (fissati dalla regione, nella sua veste di autorita’ espropriante…), con il termine contrattuale – che nulla aveva a che vedere con il primo – entro il quale l’Impresa avrebbe dovuto portare a compimento i lavori, nonche’ concludere le procedure espropriative”.
La risposta della Corte d’appello, nella sua nuda stringatezza, nella sua prima parte risulta del tutto eccentrica rispetto al quesito che le era stato posto, che resta, pertanto del tutto eluso. La fondatezza o meno della prospettazione dell’appellante, implicante valutazioni giuridiche, non trova alcuna correlazione con la circostanza fattuale, riportata dalla sentenza, che “la stessa commissione di collaudo, dopo aver affermato l’esistenza del ritardo, aveva chiesto al Direttore dei Lavori se ritenesse di dover applicare la penale, tenuto conto che egli aveva certificato l’ultimazione dei lavori nel tempo utile contrattuale. Il D.L., con nota del 16/04/1994 vistata dall’Ingegnere Capo, pur affermando che le procedure espropriative alla data del 06/07/1989 non si erano concluse, ribadiva di non dovere applicare la penale per la ritardata ultimazione per i lavori per i motivi riportati nella relazione di collaudo, diversamente dalla Commissione di Collaudo, che riteneva di applicare la penale”.
Nella sua seconda parte, evoca, ad “adiuvandum”, la “condivisibile ricostruzione (compiuta dal Tribunale) circa il termine previsto per l’ultimazione dei lavori”. Evocazione che, alla luce di quanto fin qui detto, non permette di sottrarre alla categoria dell’apparenza la complessiva giustificazione motivazionale approntata.
In definitiva, resta insondabile il percorso argomentativo giuridico seguito dal giudice e cripticamente apodittica la decisione. Di talche’ si versa nell’ipotesi del modello di decisione apriori, nel quale assume rilievo l’atto del puro volere del giudice (rigetto dell’impugnazione), privo del costrutto giuridico giustificativo, in difformita’ del modello imposto dall’articolo 111 Cost.
4. In relazione a quest’ultimo motivo, pertanto, la sentenza impugnata deve essere cassata con rinvio, rimettendosi al Giudice del rinvio anche il regolamento delle spese del giudizio di legittimita’.

P.Q.M.

accoglie il terzo motivo, rigetta il primo e dichiara inammissibile il secondo, cassa la sentenza impugnata in relazione all’accolto motivo e rinvia alla Corte d’appello di Roma in diversa composizione, anche per il regolamento delle spese del giudizio di legittimita’.

 

In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.

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