Falso ideologico per il curatore fallimentare

Corte di Cassazione, sezione quinta penale, Sentenza 3 gennaio 2020, n. 97

Massima estrapolata:

Rischia la condanna per falso ideologico il curatore fallimentare che, nella sua relazione, si discosta dai principi pacifici, affermati dalla giurisprudenza di legittimità in tema di reati fallimentari. L’attività del curatore non può, infatti, essere considerata del tutto discrezionale e dunque fuori dal raggio d’azione dell’articolo 479 del Codice penale che punisce il falso ideologico, affermato dal pubblico ufficiale.

Sentenza 3 gennaio 2020, n. 97

Data udienza 21 novembre 2019

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUINTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MORELLI Francesca – Presidente

Dott. CATENA Rossella – rel. Consigliere

Dott. MICCOLI Grazia – Consigliere

Dott. SCARLINI Enrico V.S. – Consigliere

Dott. BRANCACCIO Matilde – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
(OMISSIS), nato a (OMISSIS);
avverso la sentenza della Corte di Appello di Napoli emessa in data 19/03/2019;
visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Dott.ssa Rossella Catena;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Lignola Ferdinando, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
uditi per (OMISSIS) i difensori di fiducia, avv.to (OMISSIS) ed avv.to (OMISSIS), che hanno concluso per l’accoglimento del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1.Con la sentenza impugnata la Corte di Appello di Napoli confermava la sentenza emessa dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Napoli in data 18/06/2014, con cui (OMISSIS) era stato condannato a pena di giustizia per i reati di cui: D) all’articolo 81 c.p., comma 2 e articolo 479 c.p., perche’, con piu’ azioni esecutive del medesimo disegno criminoso commesse in tempi diversi, nella sua qualita’ di curatore del fallimento (OMISSIS) s.r.l., nella relazione redatta ai sensi dell’articolo 33 L.F., datata 03/03/2009 e depositata al Tribunale di Napoli sezione fallimentare in data 04/03/2009, nonche’ nella relazione datata 27/11/2010 e depositata all’Ufficio di Procura in data 01/12/2010, attestava falsamente: – con riferimento al contratto di affitto di ramo d’azienda, avente ad oggetto l’opificio industriale sito in (OMISSIS), concluso in data 14/09/1999 dalla fallita in favore della (OMISSIS) s.r.l., che “… tenuto conto dei chiarimenti forniti e della documentazione prodotta, pare potersi escludere la presenza di indici rivelatori di una operazione distrattiva di beni riferibili a tale complesso aziendale, in quanto gli stessi risulterebbero essere rientrati nuovamente nella disponibilita’ della (OMISSIS) s.r.l., la quale, a sua volta, dopo aver deciso di cessare l’attivita’ produttiva, li avrebbe ceduto a terzi….”, pur essendo evidente la fittizieta’ di detta operazione, posto che la (OMISSIS) s.r.l., costituita da (OMISSIS) e (OMISSIS), ed amministrata da (OMISSIS), era priva di ogni capacita’ patrimoniale ed organizzativa per la gestione del predetto ramo di azienda, risultando evidente che detta operazione era in realta’ finalizzata ad una mera interposizione fittizia di mano d’opera: in particolare, il volume di affari prodotto nell’anno 2008 dalla cessionaria era pari a Lire 1,300.000 circa; non era stato allegato all’atto di cessione un bilancio del ramo d’azienda ceduto, non era stata effettuata alcuna indicazione del numero di matricola dei macchinari presenti nel ramo d’azienda, del loro anno di costruzione e dello stato di ammortamento; era stato effettuato il trasferimento di 29 lavoratori dalla cedente alla cessionaria senza far riferimento, nell’atto di cessione, all’avvenuto ricorso alla procedura obbligatoria di consultazione sindacale, come pur previsto dalla L. n. 428 del 1990, articolo 47; – con riferimento alla vendita dell’immobile industriale sito in (OMISSIS), effettuata dalla fallita in data (OMISSIS) in favore della (OMISSIS) s.r.l., che “…. con riferimento alla possibilita’ di esperire l’azione di simulazione…. lo scrivente… rileva, contrariamente a quanto richiamato nella richiamata relazione (quella del precedente curatore, Dott.ssa (OMISSIS)) che risulta non supportata da idonei elementi la supposta distrazione dei beni aziendali dell’unita’ secondaria in (OMISSIS) allo stabilimento in (OMISSIS) (pag. 2 della relazione del 19/03/2008), e cio’ in virtu’ dei chiarimenti e della documentazione acquisita, secondo quanto evidenziato in precedenza in ordine alla risoluzione del fitto d’azienda ed alla dismissione del parco macchinari…”; – con riferimento alla “continuita’” rilevata dal precedente curatore Dott.ssa (OMISSIS) tra la fallita (OMISSIS) s.r.l. e la (OMISSIS) s.p.a.. che “….. il collegio sindacale della (OMISSIS) s.r.l. ha trasmesso in data 20/02/2009 documentazione relativa alla citata s.p.a. ed agli accordi da questa stipulati nel 2001 con la nota casa di moda (OMISSIS), evidenziando, sulla base di tali notizie e documenti, che la (OMISSIS) s.p.a. fu costituita per mercati e prodotti totalmente diversi da quelli della (OMISSIS) s.r.l. non sono emerse prove in ordine ad una eventuale amministrazione di fatto dalla (OMISSIS) s.r.l. da parte di (OMISSIS)…..”; con riferimento alla possibilita’ di esperire l’azione di responsabilita’ ai sensi dell’articolo 146 L.F., che “…. sia quest’ultimo ( (OMISSIS), amministratore della fallita), sia (OMISSIS) (amministratore della (OMISSIS) s.p.a.) sono risultati, dalle indagini immobiliari eseguite dallo scrivente, sostanzialmente impossidenti non vi e’ convenienza nell’esercitare l’azione di responsabilita’ ex articolo 146 L.F. nei confronti dell’amministratore/liquidatore (OMISSIS)….,”, cosa non rispondente al vero, atteso che (OMISSIS) risulta titolare delle quote sociali della (OMISSIS) s.p.a. e di quote di alcuni immobili; con riferimento a((e responsabilita’ del collegio sindacale denunciate dal precedente curatore Dott.ssa (OMISSIS), che “… non sono emerse responsabilita’ imputabili al collegio sindacale per danni cagionati alla societa’ fallita….”; in riferimento alle scritture contabili della fallita, che “…. non risulta depositata la documentazione contabile ed amministrativa…”, laddove in data 20/02/2009 aveva ricevuto dal Dott. (OMISSIS), componente del collegio sindacale della fallita, due pagine del libro giornale relative ai giorni 19 e 20/07/2001; con riferimento alle operazioni contabili dei giorni 19 e 20/07/2001 indicate al capo A), effettuate dall’amministratore della (OMISSIS) s.r.l., ometteva di segnalare l’esistenza di dette operazioni nelle relazioni depositate al G.D. ed al P.M., pur essendo in possesso delle pagine del libro giornale della fallita relative ai medesimi giorni, e pur in presenza di macroscopici elementi che evidenziavano la natura distrattiva di dette operazioni, quali, ad esempio, il fatto che in nessuna Delib. della (OMISSIS) s.r.l. risultava che fosse stato chiesto un finanziamento ai soci, ne’, tantomeno, che fosse stata disposta la restituzione di un precedente (n realta’ inesistente) finanziamento; E), del reato di cui all’articolo 81 c.p., comma 2 e articolo 378 c.p., perche’, con piu’ azioni esecutive del medesimo disegno criminoso commesse in tempi diversi, nella sua qualita’ di curatore del fallimento (OMISSIS) s.r.(., aiutava (OMISSIS) (amministratore della fallita (OMISSIS) s.r.l.) e (OMISSIS) (amministratore della (OMISSIS) s.p.a. ed amministratore di fatto della fallita), entrambi responsabili di gravi fatti di bancarotta fraudolenta in relazione al fallimento della (OMISSIS) s.r.l., ad eludere le investigazioni svolte dall’A.G. attestando falsamente nella relazione redatta ai sensi dell’articolo 33 L.F., datata 03/03/2009, nonche’ nella relazione datata 27/11/2010 e depositata all’Ufficio di Procura in data 01/12/2010, quanto indicato al capo che precede; in Napoli, il 04/03/2009 ed il 01/12/2010.
2. In data 07/08/2019 (OMISSIS) ricorre, a mezzo dei difensori di fiducia avv.to (OMISSIS) ed avv.to (OMISSIS), per:
2.1. violazione di legge, ai sensi dell’articolo 606 c.p.p., lettera b), in riferimento all’articolo 33 L.F. ed all’articolo 479 c.p., atteso che nell’atto di appello si era rilevato come consolidata giurisprudenza attribuisca valore probatorio privilegiato esclusivamente al contenuto della relazione ex articolo 33 L. Fall., in cui si dia atto dei fatti compiuti dal curatore o avvenuti in sua presenza, con esclusione, quindi, delle mere valutazioni, in cui si sostanziano le imputazioni in esame; anche volendo ritenere configurabile il reato nei casi di valutazioni riferibili ad una discrezionalita’ tecnica, ossia discendenti dall’applicazione di scienze esatte, come affermato dalla giurisprudenza amministrativa, nel caso dell’articolo 33 L.F. non appare possibile l’applicazione di parametri normativi che diano luogo ad un risultato certo, posto che la norma citata non offre alcun riferimento a scienze esatte, ma rende necessarie valutazioni di carattere sia fattuale che legale, rispetto alle quali sussistono consistenti margini di opinabilita’; cio’ e’ dimostrato non solo dal tenore dell’imputazione, ma anche dai diversi approdi a cui sono pervenuti vari giudici in riferimento alle decisioni concernenti amministratori e sindaci in relazione alla vicenda in esame;
2.2. vizio di motivazione, ai sensi dell’articolo 606 c.p.p., lettera e), atteso che la sentenza impugnata, richiamando i principi sulla motivazione per relationem, ha considerato solo la condotta relativa al prelievo della somma di 800.000.000 di vecchie Lire da parte degli amministratori, avendo, peraltro, omesso di valutare la fondatezza delle altre ipotesi di falso ascritte all’imputato; in particolare, quanto all’affitto del ramo di azienda alla (OMISSIS) s.r.l. – che il curatore non avrebbe valutato come operazione distrattiva – a fronte della ricostruzione della sentenza di primo grado l’appello aveva rilevato che il curatore, nella relazione del 04/03/2009, aveva dato atto di come, a seguito di ulteriori indagini e di ulteriore documentazione acquisita, era emerso che il contratto di fitto d’azienda del 1999 era stato risolto nel 2001, per cui la societa’ era rientrata in possesso dei beni prima del fallimento, cedendoli, poi, a terzi, data l’intenzione di cessare l’attivita’; peraltro, anche il precedente curatore aveva attestato che la fallita era rientrata nel possesso dei beni oggetto di locazione, per cui, alla luce della risoluzione del contratto, il curatore era ragionevolmente convinto della realta’ dell’operazione; cio’ anche alla luce delle ulteriori circostanze, evidenziate gia’ con l’atto di appello, circa il volume di affari della (OMISSIS) s.r.l., il mancato rinvenimento del contratto di affitto e le intervenute consultazioni sindacali. Quanto alla vendita dell’immobile alla (OMISSIS) s.r.l., la difesa nei motivi di appello aveva dimostrato come l’identita’ del codice fiscale tra la venditrice e l’acquirente fosse derivato da un mero errore materiale, rilevabile da altra documentazione; che per gli accordi di esternalizzazione non e’ richiesta alcuna formalita’ e gli stessi, inoltre, ben avrebbero potuto far parte della documentazione pacificamente mai consegnata al curatore; che la (OMISSIS) s.r.l., comunque, continuava la produzione in altro immobile in via (OMISSIS); che la maggior parte del prezzo era stata pagata a mezzo accollo del mutuo concesso dal MPS che, pertanto, non aveva presentato domanda di ammissione al passivo fallimentare, mentre la prova del pagamento del prezzo residuo era stata fornita dal presidente del Collegio sindacale nel corso del suo interrogatorio, tanto e’ vero che il legale del nuovo curatore fallimentare, nonostante l’imputazione di falso sul punto, aveva concluso in senso favorevole alla proposta transattiva a seguito di azione di responsabilita’. Quanto alla valutazione di “sostanziale impossidenza” formulata dal curatore nei confronti degli amministratori, essa non e’ certamente contraddetta dal fatto che (OMISSIS) fosse titolare di una quota in altra societa’ familiare al 20%, apparendo evidente come una quota di minoranza sia difficilmente liquidabile, mentre le indagini del consulente tecnico del pubblico ministero – che avrebbero individuato la titolarita’ di beni immobili in capo agli amministratori della fallita non erano state rinvenute agli atti, mentre l’imputato aveva prodotto, in sede di interrogatorio, le visure camerali negative circa i predetti amministratori, risultando, peraltro, la valutazione di “sostanziale impossidenza” confermata anche dal parere del legale della procedura di concludere transattivamente l’azione di responsabilita’ in base anche alla incapacita’ patrimoniale degli amministratori;
2.3. violazione di legge, ai sensi dell’articolo 606 c.p.p., lettera b), in riferimento all’articolo 2467 c.c., Decreto Legislativo n. 6 del 2000, articoli 9 e 10, articolo 223 L. Fall., in quanto i prelievi in favore degli amministratori risultano avvenuti in data (OMISSIS), epoca in cui l’articolo 2467 c.c. non prevedeva affatto la postergazione dei crediti dei soci, introdotta dalla riforma del diritto societario del 2003, applicabile dal 01/01/2004; ne consegue che la motivazione della sentenza impugnata – basata erroneamente sull’applicabilita’ della disciplina dell’articolo 2456 c.c. in una formulazione non ancora vigente, in considerazione dell’epoca dei fatti – rende del tutto incongrua la motivazione;
2.4. vizio di motivazione, ai sensi dell’articolo 606 c.p.p., lettera e), avendo la Corte territoriale del tutto erroneamente individuato la data dei prelievi effettuati dagli amministratori in quella del luglio 2011, piuttosto che nel luglio 2001, come si evince chiaramente dalla motivazione del primo giudice, dalla relazione del consulente tecnico del pubblico ministero, dalla formulazione del capo di imputazione e dalla data della sentenza di fallimento, intervenuta il 04/12/2004;
2.5. vizio di motivazione, ai sensi dell’articolo 606 c.p.p., lettera e), in quanto, premesse le considerazioni contenute nel precedente motivo di ricorso, contrariamente a quanto affermato dal primo giudice, le due fotocopie del libro giornale, dalle quali risultava la giustificazione della documentazione contabile relativa alla movimentazione circa la vendita della partecipazione della fallita nella (OMISSIS) U.K., erano state consegnate proprio dall’imputato al consulente tecnico del pubblico ministero, con mail del 12/07/2011, come confermato dallo stesso consulente al pubblico ministero, apparendo, quindi, evidente la mancanza di qualsivoglia volonta’ di occultare la documentazione spontaneamente consegnata, indicata anche nella relazione del 04/03/2009, come risulta dall’allegato 11 alla memoria del 18/06/2014, nonche’ dall’allegato 11 all’atto di appello; quanto all’operazione di rimborso del finanziamento soci, l’operazione in se’ non presentava alcuna anomalia, come dimostrato dal fatto che i bilanci degli anni precedenti davano conto di un consistente indebitamento che, invece, era stato sensibilmente ridotto nell’anno in cui vi era stato il prelievo, come dimostrato dai bilanci di cui agli allegati n. 13 e n. 15 dell’atto di appello, per cui la ricostruzione dell’operazione attraverso i bilanci, soli documenti nella disponibilita’ del curatore, non consentiva affatto di attribuire alcun carattere sospetto all’operazione, non essendo prevista da alcuna norma la necessita’ di apposita Delib. in caso di effettuazione o restituzione di finanziamenti dei soci, salva l’ipotesi di finanziamento in conto futuro aumento capitale, non ricorrente nel caso in esame; inoltre, una eventuale Delib. sarebbe stata rilevabile solo dal libro dei verbali dell’assemblea, nel caso di specie mai consegnato al curatore; su nessuno di detti aspetti la Corte di merito ha fornito alcuna motivazione;
2.6. violazione di legge, ai sensi dell’articolo 606 c.p.p., lettera b), in riferimento alla sussistenza dell’elemento soggettivo del delitto di cui all’articolo 479 c.p., in quanto il dolo del reato non puo’ essere considerato in re ipsa, alla luce della giurisprudenza di legittimita’, anche in assenza di qualsivoglia movente;
2.7. violazione di legge, ai sensi dell’articolo 606 c.p.p., lettera b), in riferimento alla sussistenza dell’elemento soggettivo del delitto di cui all’articolo 378 c.p., anche in tal caso in assenza di qualsivoglia movente ed alla luce dei principi affermati dalla giurisprudenza di legittimita’;
2.8. vizio di motivazione, ex articolo 606 c.p.p., lettera e), in riferimento alla mancata considerazione dei motivi di appello con cui si illustravano le condotte concrete dell’imputato, dimostrative di un atteggiamento psicologico opposto a quello necessario all’integrazione del reati; dette circostanze – specificamente indicate in ricorso con richiami agli allegati all’appello ed alla memoria del 18/06/2014 – non sono state oggetto di alcuna risposta da parte della Corte di appello; inoltre, la motivazione della sentenza impugnata – con riferimento al delitto di cui all’articolo 378 c.p. – risulta in contrasto con la circostanza che il primo atto di indagine era consistito nell’affidamento al consulente tecnico dell’incarico, cosa verificatasi in data 03/03/2011, in data successiva anche alla seconda relazione ex articolo 33 L. Fall., in una fase, cioe’, in cui il curatore non avrebbe potuto avere alcuna notizia di un’indagine che non era neanche iniziata.

CONSIDERATO IN DIRITTO

Il ricorso e’ parzialmente fondato, per le ragioni di seguito illustrate.
1.IlI primo motivo di ricorso richiede, da parte di questa Corte, anzitutto la verifica circa la possibilita’ dell’astratto inquadramento della condotta ascritta al ricorrente nel concetto di falsa attestazione, ai sensi dell’articolo 479 c.p., considerata – secondo la formulazione del capo di imputazione sub D) – la natura valutativa del contenuto delle dichiarazioni rese dal curatore fallimentare nell’ambito delle relazioni redatte ai sensi dell’articolo 33 L. Fall..
Detta analisi non puo’ prescindere dalla considerazione della qualifica di pubblico ufficiale, espressamente attribuita al curatore fallimentare dall’articolo 30 L.F. – secondo cui “Il curatore, per quanto attiene all’esercizio delle sue funzioni, e’ pubblico ufficiale” – nonche’ dal contenuto dell’articolo 33 della predetta legge che, in riferimento alla relazione al giudice ed ai rapporti riepilogativi, sancisce che “1. Il curatore, entro sessanta giorni dalla dichiarazione di fallimento, deve presentare al giudice delegato una relazione particolareggiata sulle cause e circostanze del fallimento, sulla diligenza spiegata dal fallito nell’esercizio dell’impresa, sulla responsabilita’ del fallito o di altri e su quanto puo’ interessare anche ai fini delle indagini preliminari in sede penale.
2. Il curatore deve inoltre indicare gli atti del fallito gia’ impugnati dai creditori, nonche’ quelli che egli intende impugnare. Il giudice delegato puo’ chiedere al curatore una relazione sommaria anche prima del termine suddetto.
3. Se si tratta di societa’, la relazione deve esporre i fatti accertati e le informazioni raccolte sulla responsabilita’ degli amministratori e degli organi di controllo, dei soci e, eventualmente, di estranei alla societa’.
4. Il giudice delegato ordina il deposito della relazione in cancelleria, disponendo la segretazione delle parti relative alla responsabilita’ penale del fallito e di terzi ed alle azioni che il curatore intende proporre qualora possano comportare l’adozione di provvedimenti cautelari, nonche’ alle circostanze estranee agli interessi della procedura e che investano la sfera personale del fallito. Copia della relazione, nel suo testo integrale, e’ trasmessa al pubblico ministero.
5. Il curatore, ogni sei mesi successivi alla presentazione della relazione di cui al comma 1, redige altresi’ un rapporto riepilogativo delle attivita’ svolte, con indicazione di tutte le informazioni raccolte dopo la prima relazione, accompagnato dal conto della sua gestione. Copia del rapporto e’ trasmessa al comitato dei creditori, unitamente agli estratti conto dei depositi postali o bancari relativi al periodo. Il comitato dei creditori o ciascuno dei suoi componenti possono formulare osservazioni scritte. Altra copia del rapporto e’ trasmessa, assieme alle eventuali osservazioni, per via telematica all’ufficio del registro delle imprese, nei quindici giorni successivi alla scadenza del termine per il deposito delle osservazioni nella cancelleria del tribunale. Nello stesso termine altra copia del rapporto, assieme alle eventuali osservazioni, e’ trasmessa a mezzo posta elettronica certificata ai creditori e ai titolari di diritti sui beni”.
Dal tenore letterale degli obblighi che l’articolo 33 individua in capo al curatore – “Il curatore…..deve presentare al giudice delegato una relazione particolareggiata sulle cause e circostanze del fallimento, sulla diligenza spiegata dal fallito nell’esercizio dell’impresa, sulla responsabilita’ del fallito o di altri e su quanto puo’ interessare anche ai fini delle indagini preliminari in sede penale. Se si tratta di societa’, la relazione deve esporre i fatti accertati e le informazioni raccolte sulla responsabilita’ degli amministratori e degli organi di controllo, dei soci e, eventualmente, di estranei alla societa’” – si evince, senza alcun dubbio, che la complessa attivita’ delineata richieda l’esercizio di un’attivita’ di tipo valutativo, la quale non puo’ che accompagnarsi, sovrapporsi e inscindibilmente mescolarsi ad un’attivita’ meramente riproduttiva di fatti compiuti dal curatore o avvenuti alla sua presenza.
Come noto, la giurisprudenza di questa Corte regolatrice ha da tempo chiarito il perimetro concettuale della discrezionalita’ ai fini della rilevanza del falso ideologico, individuando nella discrezionalita’ tecnica il limite alla rilevanza della condotta penalmente rilevante.
E’ stato, infatti, piu’ volte affermato – potendosi ritenere, sul punto, del tutto consolidata la giurisprudenza di legittimita’ – che, in riferimento al falso ideologico in atto pubblico, se il pubblico ufficiale, chiamato ad esprimere un giudizio, sia libero anche nella scelta dei criteri di valutazione, la sua attivita’ e’ assolutamente discrezionale e, come tale, il documento che contiene il giudizio non e’ destinato a provare la verita’ di alcun fatto; al contrario, se l’atto fa riferimento, anche implicitamente, a previsioni normative che dettano criteri di valutazione, si e’ in presenza di un esercizio di discrezionalita’ tecnica; in tal caso, cioe’, la valutazione e’ vincolata ad una verifica di conformita’ della situazione fattuale a parametri predeterminati, sicche’ l’atto potra’ risultare falso se detto giudizio di conformita’ non sara’ rispondente ai parametri cui esso e’ implicitamente vincolato (Sez. 3, sentenza n. 46239 del 12/07/2018, Morciano Vito, Rv. 274207, in tema di autorizzazione paesaggistica contenente l’attestazione della conformita’ urbanistica e della compatibilita’ ambientale delle opere da edificare, in cui il falso ideologico in autorizzazione amministrativa e’ stato fondato sul giudizio oggettivo espresso, basato su criteri normativi, con conseguente configurabilita’ del reato se detto giudizio non sia rispondente ai parametri cui esso e’ vincolato; Sez. 3, sentenza n. 46228 del 09/07/2018, Strambace Antonia Maria, Rv. 274673, in cui e’ stata ritenuta la falsita’ dell’autorizzazione paesaggistica fondata su presupposti urbanistici e paesaggistici non corrispondenti al vero, contenuti nella relazione tecnica allegata; Sez. 3, sentenza n. 30025 del 04/12/2017, dep. 04/07/2018, Scrudato ed altri, Rv. 273691, in cui e’ stato ravvisato il reato in riferimento all’attestazione redatta da funzionari e dirigenti comunali sulla compatibilita’ ambientale di un intervento edilizio avente, invece, una volumetria notevolmente maggiore a quella assentibile, e in relazione ai permessi di costruire nella parte in cui attestavano la conformita’ dell’intervento rispetto alle norme di legge ed agli strumenti urbanistici regionali e locali; Sez. 5, sentenza n. 38774 del 12/05/2017, P.C. in proc. Traetta, Rv. 271203, in riferimento ad un caso in cui e’ stato escluso il reato a carico di un funzionario comunale che, sulla base di una valutazione assolutamente discrezionale prevista da una norma amministrativa, l’articolo 338 Testo Unico leggi sanitarie, aveva consentito lo sviluppo dell’area cimiteriale in deroga all’obbligo di distanza minima previsto nella misura di 200 metri dai centri abitati; Sez. F., sentenza n. 39843 del 04/08/2015, Di Napoli ed altri, Rv. 264364, in cui e’ stato ravvisato il reato con riferimento alla omessa indicazione, in provvedimenti urbanistici di tipo abilitativo, da parte di funzionari e dirigenti comunali, della reale consistenza delle opere, della loro incidenza sulla realta’ territoriale e della normativa correttamente applicabile nel caso concreto; Sez. 5, sentenza n. 39814 del 13/11/2014, dep. 16/01/2015, Armanno ed altro, Rv. 262728, in riferimento al giudizio di attestazione di idoneita’ alla guida, che si traduce nella constatazione dell’esistenza delle abilita’ individuate attraverso un accertamento tecnico, ossia la specifica condotta di guida tenuta dal candidato durante la prova, che il funzionario della Motorizzazione civile attesta essere avvenute in sua presenza; Sez. 2, sentenza n. 1417 del 11/10/2012, dep. 11/01/2013, P.C. in proc. Platamone ed altro, in riferimento a rilascio di autorizzazione paesaggistica contenente l’attestazione della conformita’ urbanistica e della compatibilita’ ambientale delle opere da edificare; Sez. 5, sentenza n. 14283 del 17/11/1999, Pinto ed altri, Rv. 216123, in cui e’ stato affermato che: “ai fini dell’articolo 479 c.p., se il p.u., che esprime un giudizio, e’ libero anche nella scelta dei criteri di valutazione, la sua attivita’ e’ assolutamente discrezionale e, come tale, il documento che lo rappresenta non e’ destinato a provare la verita’ di alcun fatto. Ma se l’atto fa riferimento implicito a previsioni normative, che dettano criteri di valutazione, si e’ in presenza di quella che, in sede amministrativa, si denomina discrezionalita’ tecnica, che cioe’ vincola la valutazione ad una verifica. In sua attuazione il p.u. esprime bensi’ un giudizio, ma l’atto puo’ essere obiettivamente falso se il giudizio, che e’ di conformita’, non risponde ai parametri cui e’ implicitamente vincolato. E, poiche’ nella specie si tratta di un parere squisitamente tecnico, si e’ per definizione in presenza di un giudizio di conformita’”).
Il delineato indirizzo ermeneutico – che richiama, senza alcun dubbio, le categorie elaborate dalla dottrina amministrativistica – merita, tuttavia, un ulteriore approfondimento, sia in riferimento all’inquadramento generale della detta problematica ed ai principi richiamati, che in riferimento alla vicenda in esame.
Sotto il primo aspetto va osservato che la nozione di discrezionalita’ amministrativa e’ caratterizzata da un momento essenziale di giudizio nell’ambito del quale la P.A. e’ tenuta ad individuare e valutare tutti i fatti e gli interessi rilevanti, all’esito di adeguata istruttoria, in base alle regole dettate dalla L. n. 241 del 1990 – e da una fase di scelta, in cui, all’esito dell’attivita’ istruttoria, la P.A. individua la soluzione piu’ idonea a realizzare l’interesse pubblico primario, di cui la stessa amministrazione e’ portatrice, con il minor sacrificio possibile per gli altri interessi pubblici e privati coinvolti. In detto contesto, tuttavia, non vi e’ alcun dubbio – nell’ambito della dottrina amministrativistica – che il concetto di “discrezionalita’ amministrativa” sia connotato da due aspetti essenziali: la legittimita’ dell’azione amministrativa ossia la coerenza della condotta rispetto alle regole giuridiche che disciplinano l’esercizio del potere, come poste dalla stessa norma che attribuisce il potere, ovvero desumibili dai limiti opposti all’esercizio del potere – ed il merito amministrativo – tradizionalmente individuato come sfera di liberta’ della P.A., in cui, tuttavia, vigono le regole dell’opportunita’ e della convenienza amministrativa. Ne discende che l’area riservata alle scelte di merito e’ quella affidata alla liberta’ della P.A., una volta rispettati tutti i parametri legali che sovrintendono all’esercizio della discrezionalita’, e va intesa come area nella quale la P.A. e’ sottratta ad un sindacato esterno del giudice amministrativo, che non puo’ sostituirsi alla P.A. stessa, ma e’, comunque, sottoposta a ricorso gerarchico.
Di discrezionalita’ tecnica, invece, si parla in riferimento ai casi in cui la P.A. non e’ chiamata a valutare comparativamente interessi, scegliendo le modalita’ che consentano il piu’ efficace soddisfacimento dell’interesse pubblico primario, ma soltanto a verificare, in applicazione di regole specialistiche, la sussistenza di taluni presupposti richiesti dalla norma per l’adozione della determinazione amministrativa. Nell’esercizio della discrezionalita’ tecnica, quindi, la P.A. applica norme riferibili a nozioni e regole tecnico-scientifiche, procedendo da una fase di accertamento dei fatti, attraverso la “contestualizzazione della norma” ed il confronto con il parametro normativo, pervenendo, infine, all’applicazione della norma ai fini dell’adozione del provvedimento. In tali casi, nel sindacare la discrezionalita’ tecnica, mentre in passato si riteneva che al giudice amministrativo fosse consentita la sola verifica dell’iter logico seguito dall’amministrazione, opinandosi, quindi, che la discrezionalita’ tecnica si differenziasse da quella amministrativa solo in relazione al suo oggetto, per cui le scelte di discrezionalita’ tecnica operate dalla P.A. sarebbero state sindacabili dal giudice solo applicando i criteri di logica formale e, pertanto, individuando vizi quali l’errore di fatto, l’illogicita’ manifesta, la motivazione contraddittoria, a partire dalla decisione del Consiglio di Stato, Sez. 4, 9 aprile 1999, n. 610, e’ attualmente ammesso un controllo intrinseco sulla valutazione tecnica operata dalla P.A.; cio’ in base all’assunto secondo cui l’apprezzamento degli elementi di fatto del provvedimento attiene sempre alla legittimita’ dello stesso e, pertanto, non puo’ essere sottratto al giudice, a cui viene riconosciuto il potere di verificare direttamente l’attendibilita’ delle operazioni tecniche, sotto il profilo della loro correttezza. Detto orientamento sembra essere stato recepito dallo stesso legislatore che, con la legge del 21 luglio 2000, n. 205, all’articolo 16, ha previsto la possibilita’, per il giudice amministrativo, di disporre una consulenza tecnica anche in sede di giurisdizione generale di legittimita’, al fine di verificare se il potere attribuito alla P.A. sia stato correttamente esercitato. Detta breve sintesi delle predette categorie – discrezionalita’ amministrativa e discrezionalita’ tecnica – consente di verificare come l’utilizzazione delle stesse, elaborate in riferimento ad un contesto assolutamente eccentrico rispetto a quello riferibile alla sfera di operativita’ delle categorie penali, appaia solo in parte adeguato al caso in esame.
Cio’ in quanto il concetto di discrezionalita’ amministrativa – che si ritiene, secondo la prospettazione difensiva, applicabile all’ufficio pubblico del curatore fallimentare – appare del tutto decontestualizzato, se solo si riflette sulla circostanza che la funzione ed il ruolo del curatore, come descritto dalle disposizioni di settore, presuppone una scelta normativa gia’ definitivamente individuata in riferimento alla priorita’ degli interessi coinvolti ed alla tutela agli stessi funzionale. Il curatore, cioe’, in quanto organo della procedura fallimentare, rappresenta una figura professionale a tutela di una categoria di interessi gia’ normativamente individuata – quella del ceto creditorio della fallita – e, come tale, non ha alcuna possibilita’ di operare scelte che coinvolgano spazi decisionali, seppure con criteri di opportunita’.
L’applicazione dei criteri amministrativistici, inoltre, risulta non aderente anche in riferimento ai criteri stessi, posto che in ambito amministrativo si distingue la discrezionalita’ tecnica, come in precedenza descritta, dall’accertamento tecnico, in cui la verifica demandata alla P.A. e’ da condurre non gia’ in base a regole dal risultato opinabile, bensi’ in base a regole tratte da scienze esatte, che consentono, cioe’, di approdare a risultati certi ed univocamente verificabili.
In tal senso, quindi, puo’ ritenersi individuabile la differenza tra accertamento tecnico e discrezionalita’ tecnica, ossia tra la natura di scienze esatte applicabili nel primo caso e di scienze sociali, non esatte, applicabili nel secondo caso. Solo in riferimento a detti concetti, quindi, puo’ essere valutata l’attivita’ e la condotta del curatore fallimentare.
Se si esamina detto aspetto – che rappresenta, quindi, il secondo profilo oggetto di disamina – non puo’ che rilevarsi come le valutazioni operate dal curatore fallimentare – cio’ emergendo intuitivamente dalla descrizione del contenuto della relazione prevista dall’articolo 33 L.F. – non possono essere considerate come riferibili a previsioni normative che si limitano a dettare precisi criteri di valutazione, per cui le stesse valutazioni devono ritenersi vincolate ad una verifica di conformita’ della situazione fattuale a parametri predeterminati; esse, al contrario, si basano su analisi di situazioni fattuali che il curatore non solo deve descrivere, ma deve, molto frequentemente, inquadrare in funzione di categorie concettuali – quali le cause e le circostanze del fallimento, la diligenza spiegata dal fallito nell’esercizio dell’impresa, la responsabilita’ del fallito o di altri e, nel caso di societa’, la responsabilita’ degli amministratori e degli organi di controllo, dei soci e, eventualmente, di estranei alla societa’, oltre che su quanto puo’ interessare anche ai fini delle indagini preliminari in sede penale – che sfuggono a qualsiasi criterio valutativo normativamente predeterminato e/o oggettivamente circoscrivibile a criteri riferibili a scienze “esatte”.
Le valutazioni in esame, infatti, spesso implicano la ricognizione di situazioni suscettibili di essere inquadrate – all’esito di un’ulteriore valutazione, che sara’ operata dagli organi inquirenti, prima, e da quelli giudicanti, poi – in fattispecie penalmente rilevanti, come descritte da norme di legge. Le norme di legge che rilevano sono, in particolare, quelle di cui alla L.F. che, come noto, individuano reati a forma libera, la cui concreta verificazione, nella inesauribile congerie delle possibili manifestazioni, dipende sia dal loro inquadramento attraverso le griglie costituite da criteri interpretativi di tipo tecnico – alla luce, ad esempio, di criteri contabili, di estimo, ovvero di principi economici o di categorie delle scienze finanziarie – sia dalla loro lettura alla stregua di criteri ermeneutici basati su canoni giurisprudenziali, a loro volta suscettibili di modifiche ed evoluzioni.
In riferimento ai predetti criteri tecnici – dettati dai principi contabili, finanziari, ragionieristici, ecc. -, va poi osservato che essi, evidentemente, si basano su griglie e parametri ricognitivi che non possono ascriversi alle scienze esatte, ma devono sicuramente ricondursi ad una metodologia interpretativa consensualmente accettata all’interno della specifica categoria professionale di riferimento, non diversamente da quanto avviene in relazione, ad esempio, alle varie branche della scienza medica che, a loro volta, sicuramente non costituiscono “scienze esatte”.
Il reato di falso, quindi, anche nel caso delle relazioni ex articolo 33 L.F. considerate, puo’ consistere nel dare pareri o interpretazioni mendaci ovvero nell’affermare fatti non conformi al vero. Quest’ultima ipotesi non da’ luogo a particolari problemi, apparendo evidente come non sussista certamente alcun problema in riferimento alla qualificazione come falsa dell’attestazione del pubblico ufficiale che, nel documentare la sua attivita’ valutativa, dichiari di aver assunto dati diversi da quelli realmente acquisiti, ovvero affermi di aver utilizzato elementi in realta’ inesistenti (Sez. 6, sentenza n. 23987 del 13/02/2008, Di Bello, Rv. 241702).
Al contrario, i casi di pareri o di interpretazioni mendaci pongono una serie di difficolta’ interpretative e di accertamento, in quanto, in dette ipotesi, il curatore non si limita a riferire quanto e’ caduto sotto i suoi sensi, ma formula un giudizio. Cio’ che rileva, quindi, e’ come ricostruire, in detti ultimi casi, se ed a quali condizioni il giudizio possa dirsi mendace, posto che solo una lettura riduttiva dei criteri ermeneutici delineati dalla giurisprudenza di questa Corte potrebbe condurre alla conclusione, irricevibile, di ritenere non configurabile il delitto di falso ideologico nelle relazioni ex articolo 33 L. Fall., salvo i casi in cui il curatore attesti contrariamente al vero e, quindi, falsamente, fatti da lui compiuti o avvenuti in sua presenza, oppure attesti dichiarazioni a lui non rese, ovvero ometta o alteri il contenuto di dichiarazioni da lui ricevute. In tal caso, infatti, resterebbero prive di rilevanza penale tutte le false attestazioni concernenti “fatti dei quali l’atto e’ destinato a provare la verita’”, ossia proprio i fatti individuati testualmente dall’articolo 33 L. Fall., cioe’ le cause e le circostanze del fallimento, la diligenza spiegata dal fallito nell’esercizio dell’impresa, la responsabilita’ del fallito o di altri e, nel caso di societa’, la responsabilita’ degli amministratori e degli organi di controllo, dei soci e, eventualmente, di estranei alla societa’, oltre che quant’altro possa essere di interesse anche ai fini delle indagini preliminari in sede penale.
Ne’ puo’ ritenersi – come ipotizzato dalla difesa – che l’attivita’ del curatore fallimentare sia assolutamente svincolata da qualsiasi criterio di valutazione individuabile e, come tale, sia definibile come attivita’ assolutamente discrezionale, proprio in quanto, secondo detto implausibile criterio interpretativo, non avrebbe alcun senso il contenuto dell’articolo 33 L. Fall., teso a connotare il contenuto specifico del precetto individuato dalla portata generale dell’articolo 479 c.p., in riferimento al ruolo precipuo del curatore quale pubblico ufficiale, come tale individuato ai sensi dell’articolo 30 della L. Fall..
In realta’, ai fini dell’inquadramento della problematica in esame, non si puo’ prescindere dal considerare quanto affermato dalla giurisprudenza di questa Corte in riferimento alla sussistenza della falsita’ ideologica nei casi di enunciati valutativi che non implichino l’accettazione di parametri normativamente predeterminati, ma si basino su parametri tecnici, da parte di soggetti a cui la legge riconosce una specifica perizia. In tali casi, infatti, e’ stato affermato che anche i giudizi di valore possono non essere veritieri, alla pari degli enunciati di fatto, pur sempre in contesti che implichino l’accettazione di parametri valutativi normativamente determinati o tecnicamente indiscussi; dette valutazioni, pertanto, possono rientrare nella categoria della falsita’ ideologica allorche’ il giudizio faccia riferimento a criteri predeterminati, in modo da rappresentare la realta’ al pari di una descrizione o di una constatazione, per cui risulta ideologicamente falsa la valutazione che contraddica criteri indiscussi o indiscutibili e sia fondata su premesse contenenti false attestazioni (Sez. 5, sentenza n. 35104 del 22/06/2013, Baldini, Rv. 25712, in tema di redazione di schede di dimissioni ospedaliere, ancorate a parametri valutativi dettagliatamente predeterminati; Sez. 1, sentenza n. 45373 del 10/06/2013, Capogrosso ed altro, Rv. 257895, in riferimento a falsita’ ideologica contestata a consulente tecnico del pubblico ministero; Sez. 5, sentenza n. 15773 del 24/01/2007, Marigliano ed altri, Rv. 236550, in un caso di certificazione medica attestante, contrariamente al vero, da parte di medico ospedaliero, che il paziente aveva un visus naturale di 10 su 10, al fine di ottenere l’attestato di idoneita’ necessario all’assunzione quale vigile urbano).
Nei casi predetti, quindi, la giurisprudenza di legittimita’ ha equiparato il concetto di “parametri valutativi normativamente determinati” – categoria, in se’, facilmente identificabile, in quanto riferibile a fonti normative di volta in volta specificamente individuate e, come tali, costituenti un parametro diretto di valutazione – al concetto di “parametri tecnicamente indiscussi”, riferibile, evidentemente, a parametri che, nell’ambito di una specifica disciplina tecnico-scientifica, costituiscono criteri ermeneutici consensualmente accettati come unica ed indiscussa griglia interpretativa di riferimento – come ad esempio, il caso di misurazione della vista, che avviene attraverso apposita strumentazione tecnica e, piu’ in generale, in tutti i casi di attivita’ diagnostiche basate su esami di tipo strumentale, per le quali sia individuata una chiave interpretativa ancorata a parametri rigidamente determinati, come nel caso, ad esempio, di valori ricompresi tra un minimo ed un massimo.
Proprio seguendo detto percorso ricognitivo, inoltre, deve essere ricordata la sentenza delle Sezioni Unite, n. 22474 del 31/03/2016, Passarelli ed altro, Rv. 266802 in tema di false comunicazione sociali, che, in motivazione, ha ribadito la configurabilita’ del falso valutativo “quando l’attestazione sia resa in un contesto implicante la necessaria accettazione di parametri di valutazione normativamente determinati o tecnicamente indiscussi”, precisando che, dato il ridotto margine di opinabilita’ delle scienze contabilistiche, “la “valutazione” dei fatti oggetto di falso investe la loro “materialita’””.
Appare, pertanto, evidente come, nell’esaminare la molteplice diversita’ di casi sottoposta al suo esame, la giurisprudenza di questa Corte di legittimita’ abbia preso in considerazione fattispecie del tutto eccentriche tra loro dal punto di vista semantico e che, ad un’analisi piu’ approfondita, risultano difficilmente assimilabili ad un concetto dogmatico di parametro oggettivamente applicabile ed indiscutibile nella sua verificazione.
Cio’ appare tanto piu’ vero se solo si pensa che, in linea piu’ generale, pressoche’ qualsiasi constatazione che implichi l’applicazione di una regola tecnica involge la formulazione anche di una componente valutativa, a meno che l’operazione non richieda, semplicemente, l’applicazione di formule predeterminate come, ad esempio quelle di tipo matematico. Anche in tali casi, tuttavia, allorquando la formula applicabile non sia unica, ma possa essere scelta in una gamma di due o piu’ opzioni, cio’ implica, automaticamente, anche una valutazione propedeutica e funzionale alla scelta da effettuare.
A maggior ragione cio’ vale in tutti i casi in cui le griglie interpretative risultano essere molto piu’ opinabili e, come tali, discutibili, come allorquando la branca tecnica o scientifica coinvolta non abbia elaborato criteri ricognitivo-interpretativi consensualmente ed univocamente accettati all’interno della comunita’ di riferimento. In tali casi, evidentemente, si amplia la connotazione di discrezionalita’ della valutazione tecnico-scientifica da parte del soggetto che la effettua, portatore di uno specifico sapere tecnico o scientifico, il quale proprio in tale qualita’ e’ chiamato a formulare detta valutazione, come, senza alcun dubbio, si verifica nel caso del curatore fallimentare (Sez. 6, sentenza n. 48915 del 11/1172015, P.C. in proc. Rossetti, Rv. 265243, in tema di falsa perizia avente ad oggetto l’accertamento del danno da inadempimento contrattuale; Sez. 5, sentenza n. 7067 del 12/01/2011, Sabolo ed altri, Rv. 249836, in tema di valutazione di ramo aziendale oggetto di falsa perizia; in detti casi le sentenze hanno dato rilievo alle circostanze alla luce delle quali il risultato della stima effettuata dal perito dovesse considerarsi obiettivamente controvertibile e difficilmente rapportabile alla certezza dello schema dettato dall’articolo 373 c.p.).
Escluso, quindi, per le ragioni predette, che detta tipologia di valutazione possa ritenersi espressione di discrezionalita’ in senso ampio e, come tale, in nessun caso sindacabile in sede penale, deve individuarsi, quindi, un percorso ricostruttivo che renda compatibili le esigenze sottese alla tutela penale con la liberta’ espressiva del soggetto chiamato a formulare una valutazione connotata da un apprezzabile margine di discrezionalita’.
Ritiene il Collegio che, in tali casi, l’orientamento ermeneutico in precedenza delineato non appaia esaustivo, proprio in considerazione della maggiore ampiezza caratterizzante la forbice di discrezionalita’ coinvolta nel percorso valutativo. Appare opportuno, quindi, ricorrere, in tali casi, all’orientamento ermeneutico di legittimita’ elaborato in riferimento al reato di falsa perizia, di cui all’articolo 373 c.p., secondo cui il parere o l’interpretazione puo’ qualificarsi mendace solo nel caso di una divergenza intenzionale, voluta e cosciente tra il convincimento reale e quello manifestato nell’elaborato tecnico di risposta ai quesiti posto dal giudice (Sez. 6, sentenza n. 12654 del 26/02/2016, Forcillo, Rv. 266869; Sez. 6, sentenza n. 38307 del 11/06/2015, Pmt in proc. Panciera, Rv. 264723; Sez. 6, sentenza n. 36654 del 04/06/2015, Tonnarelli, Rv. 264581).
Sotto altro aspetto, inoltre, appare chiaro che l’informazione falsa, in tali casi, deve anche implicare la capacita’ dell’enunciato stesso, nel contesto di riferimento, di assumere un significato descrittivo o constatativo non corrispondente ai fatti.
Sotto il profilo dell’elemento psicologico, evidentemente, il richiamo alla giurisprudenza elaborata in riferimento all’articolo 373 c.p., appare ovvio, in quanto il falso colposo, dovuto a negligenza o imperizia, come noto, non e’ penalmente rilevante; cio’ che, invece, va ulteriormente sottolineato, nell’ottica della ricostruzione della fattispecie sotto l’aspetto dell’elemento materiale, e’ la concreta rilevanza del discostamento dai criteri consensualmente accettati o maggiormente ritenuti applicabili dalla comunita’ tecnica di riferimento, aspetto da verificarsi volta per volta in stretta relazione con il riflesso esterno di detto discostamento, ovvero considerando la maggiore capacita’ decettiva di cui, in concreto, risulteranno fornite la falsa attestazione o dichiarazione provenienti dal tecnico, ovvero le ricostruzioni o interpretazioni da questi elaborate.
Va da se’ che nell’analisi del caso concreto il giudice dovra’ dare conto in maniera esaustiva di tutti i criteri utilizzati per ritenere che, alla luce delle specifiche emergenze fattuali, il soggetto chiamato ad esprimere una valutazione connotata da un margine elastico di discrezionalita’ abbia formulato, consapevolmente, una valutazione falsa. Il che implica, all’evidenza, come sia necessario chiarire che le valutazioni, di regola, rappresentano il momento conclusivo di un percorso logico, basato sull’esposizione dei criteri di riferimento, dei fatti che vengono esaminati e degli elementi che corroborano la valutazione.
Ne discende che mentre la falsita’ della valutazione, anche di tipo previsionale, puo’ discendere dalla falsita’ delle premesse – allorquando, ad esempio, il curatore esprima una valutazione sulla base di un’attivita’ falsamente compiuta o sulla base della falsa attestazione di elementi di fatto – diverso appare il caso in cui, sulla base di premesse vere, si pervenga a conclusioni errate in base ad un argomento invalido, in quanto, in tali casi, la conclusione puo’ essere, senza dubbio, errata, ma non necessariamente falsa in senso giuridicamente rilevante. In tale ultimo caso, quindi, cio’ che distingue la conclusione errata dalla conclusione falsa sta nella totale eccentricita’ ed illogicita’ dell’argomento utilizzato in riferimento ai fatti che ne costituiscono la premessa e nella sua utilizzazione allo scopo di inscenare o di dissimulare artificiosamente la falsita’ della valutazione, come quando, ad esempio, si verifichi la mancata corrispondenza tra il criterio valutativo dichiarato e l’effettiva determinazione dei valori in concreto individuati.
Ovviamente detta attivita’ ermeneutica sara’, in concreto, tanto piu’ articolata e complessa quanto piu’ elastici risulteranno i margini della discrezionalita’ valutativa. In tal senso, quindi, possono ricordarsi gli approdi della giurisprudenza di legittimita’, rappresentativi delle diverse situazioni processuali verificabili: Sez. 5, sentenza n. 49017 del 21/09/2004, Obertino ed altro, Rv. 231272, in cui e’ stato ritenuto sussistente il delitto di falso ideologico in atto pubblico nel caso di falsa attestazione contenuta nella Delib. comunale di approvazione del Piano di edilizia economica e popolare, in riferimento all’esistenza, nelle costruzioni oggetto della deliberazione, dei requisiti richiesti dalla legge per poter essere considerate di edilizia economica popolare; in tale fattispecie si e’ osservato che, pur costituendo l’approvazione del suddetto piano un atto dispositivo, caratterizzato, quindi, dalla discrezionalita’ della P.A., la falsita’ delle premesse costituisse il presupposto necessario dell’atto deliberativo. Sul versante opposto, emblematico della situazione di piena discrezionalita’ valutativa, Sez. 5, sentenza n. 7879 del 16/01/2018, Daversa ed altri RV. 272457, ha escluso la sussistenza del delitto di falsita’ ideologica in riferimento al contenuto valutativo di un documento, contenente un giudizio di conformita’ alla normativa di settore, formulato con riguardo non gia’ a situazioni di fatto costituenti il presupposto dell’atto, bensi’ alla mera interpretazione della normativa stessa.
Tra gli estremi, per cosi’ dire, delle situazioni individuate dalle citate pronunce, si collocano, all’evidenza, situazioni intermedie, maggiormente problematiche, in quanto non connotate ne’ da discrezionalita’ piena ne’ da una valutazione falsa in quanto basata su falsi presupposti. Dette situazioni, per cosi’ dire intermedie e maggiormente problematiche, si verificano, senza alcun dubbio, in casi come quello del curatore fallimentare che, pertanto, non potranno che essere valutati in riferimento alle specificita’ della situazione concreta, sulla base delle singole, specifiche condotte, tenendosi presente che, oltre ai criteri ermeneutici in precedenza passati in rassegna, nel caso del curatore fallimentare una delle griglie interpretative non puo’ che essere costituita anche dagli assetti pacifici raggiunti dalla giurisprudenza di legittimita’ in tema di reati fallimentari, alla luce dei quali il curatore non puo’ che valutare l’inquadramento di determinate vicende; il curatore, quindi, dovra’ tenere presente, nello svolgimento del proprio compito, anche gli orientamenti interpretativi della giurisprudenza di legittimita’, e, nella misura in cui intenda discostarsene, dovra’ fornire una spiegazione adeguata delle ragioni specifiche delle conclusioni da lui raggiunte, che diano conto del percorso logico-ricostruttivo seguito.
Il che, in altre parole, significa che tra i criteri interpretativi consensualmente accettati, nell’ambito di una determinata categoria tecnico-professionale di riferimento, rientrano, senza alcun dubbio, anche i criteri ermeneutici rappresentati dagli orientamenti pacificamente consolidati nell’ambito della giurisprudenza di legittimita’, di cui il curatore, nell’ambito della propria attivita’ valutativa, dovra’ tenere conto alla medesima stregua degli altri principi tecnico-valutativi, come ad esempio, i principi contabili.
Cio’ discende fisiologicamente dalla complessita’ e dalla poliedricita’ del ruolo del curatore fallimentare, che sintetizza in se’ plurimi profili professionali, anche alla luce della diversita’ dei suoi interlocutori istituzionali di riferimento, che vanno dal Giudice delegato e gli altri organi del fallimento, al pubblico ministero; con la conseguenza che anche il discostarsi in maniera ingiustificata ed altrimenti non suscettibile di plausibile spiegazione da detti consolidati orientamenti ermeneutici di legittimita’ puo’ essere un elemento valutabile, con il concorso di altri indizi univoci, coerenti e concordanti, ferma restando la prova dell’elemento psicologico, nel senso della ricostruzione di un concludente quadro probatorio circa la sussistenza del delitto di falso ideologico in riferimento alle relazioni di cui all’articolo 33 L. Fall..
Tutto cio’ premesso, il primo motivo di ricorso va, quindi, rigettato, dovendosi ritenere del tutto contrastante con la ricostruzione sin qui delineata la prospettazione difensiva, secondo cui l’attivita’ del curatore fallimentare – eccetto le attestazioni di atti compiuti dal curatore o avvenuti in sua presenza – sarebbe del tutto discrezionale e, come tale, non ascrivibile al paradigma normativo di cui all’articolo 479 c.p..
Cio’, ovviamente, lasciando impregiudicata, attesa la connotazione del giudizio di legittimita’, ogni valutazione circa la sussistenza concreta del reato nelle condotte ascritte al (OMISSIS) nel caso in esame, la cui valutazione non puo’ che essere rimessa alla Corte territoriale, attesa la carenza delle argomentazioni della sentenza impugnata, per le ragioni di seguito illustrate.
2. Fondati risultano gli ulteriori motivi di ricorso.
Va ricordato che, secondo consolidato orientamento di questa Corte regolatrice, risulta affetta da vizio di motivazione la sentenza di appello che, in presenza di specifiche censure su uno o piu’ punti della decisione impugnata, si limiti a motivare per relationem, limitandosi a richiamare quest’ultima, senza, pero’, dare compiutamente conto degli specifici motivi d’impugnazione, cosi’ sostanzialmente eludendo le questioni poste dall’appellante, violando il principio dettato dall’articolo 111 Cost., comma 6 e articolo 125 c.p.p., comma 3; in tal modo, in sostanza, la motivazione risulta del tutto carente se, al di la’ di affermazioni apodittiche e stereotipate, essa non consenta di stabilire, neppure in forma parziale o implicita, il necessario rapporto dialettico fra i motivi d’appello e la sentenza di secondo grado (Sez. 5, sentenza n. 53619 del 05/10/2016, Unterholzner, Rv. 268859; Sez. 3, sentenza n. 27416 del 01/04/2014, M., Rv. 259666; Sez. 4, sentenza n. 6779 del 18/12/2013, dep. 12/02/2014, Balzamo ed altri, Rv. 259316; Sez. 6, sentenza n. 49754 del 21/11/2012, Casulli ed altri, Rv. 254102).
Alla luce di detti principi, pertanto, vanno esaminate le doglianze difensive.
2.1. Quanto alla vicenda avente ad oggetto l’affitto del ramo di azienda per la produzione e la confezione di capi di abbigliamento, sito in (OMISSIS), alla (OMISSIS) s.r.l., ritenuta operazione fittizia, in quanto la (OMISSIS) s.r.l. era priva di capacita’ patrimoniale e, quindi, operazione finalizzata ad una interposizione fittizia di manodopera, la sentenza di primo grado aveva esaminato compiutamente la vicenda, sottolineando che nel contratto di affitto di azienda si richiamava espressamente il contratto di affitto dei locali stipulato tra la (OMISSIS) s.r.l. e la (OMISSIS) s.r.l., di cui, tuttavia, non risultava alcuna traccia all’anagrafe tributaria, mentre, al contrario, risultava un contratto di locazione tra la (OMISSIS) s.r.l. e la (OMISSIS) s.r.l., nel dicembre 1999; inoltre, nel 2001, la (OMISSIS) s.r.l. aveva manifestato la volonta’ di recesso dal contratto di affitto di azienda, invitando la (OMISSIS) s.r.l. a ritirare i macchinari e le attrezzature e, tuttavia, detto atto di retrocessione era risultato del tutto mancante, cosi’ come pure il verbale di consegna dell’azienda e dei beni, per cui la risoluzione del contratto sarebbe stata dimostrata solo da una comunicazione priva di data, consegnata dal Dott. (OMISSIS), componente del Collegio sindacale della (OMISSIS) s.r.l., al curatore Dott. (OMISSIS); infine, (OMISSIS) risultava socio sia della (OMISSIS) s.r.l. che della (OMISSIS) s.r.l. e della (OMISSIS) s.r.l., societa’, quest’ultima, che aveva il proprio insediamento produttivo presso il medesimo opificio in (OMISSIS), e che era stata dichiarata fallita nel 2000; in sintesi, quindi, le tre predette societa’ risultavano aver avuto in comune, dal 1996 al 2000, la stessa unita’ operativa, gli stessi macchinari, le stesse attrezzature, gli stessi consulenti, gli stessi depositari delle scritture contabili e gli stessi intermediari fiscali.
Con l’atto di appello la difesa aveva osservato, allegando anche documentazione a sostegno del gravame, che con la sentenza resa dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Napoli in data 27/06/2019 i sindaci della (OMISSIS) s.r.l. erano stati assolti dalla medesima imputazione sulla base di argomentazioni che avevano del tutto escluso la fittizieta’ dell’operazione di affitto di azienda; peraltro, cio’ risultava dimostrato da plurime circostanze: l’acquisizione di documentazione, effettuata dallo stesso Dott. (OMISSIS) dopo circa quattro anni dalla dichiarazione di fallimento della (OMISSIS) s.r.l., aveva consentito di verificare che il contratto di affitto stipulato nel 1999 si era risolto nel 2001, e che la societa’ fallita era rientrata nel possesso dei beni, poi ceduti a terzi, come verificato anche dal precedente curatore; la (OMISSIS) s.r.l., in ogni caso, nel 1999 e nel 2000 aveva un volume di affari che avrebbe senza alcun dubbio reso sostenibile il pagamento del canone di affitto; la mancanza della registrazione del contratto di locazione, inoltre, poteva spiegarsi anche come irregolarita’ fiscale, ma non provava la insussistenza del rapporto e, infine, risultava documentata la sussistenza della consultazione sindacale in data 06/07/1999 tra i rappresentanti legali delle due societa’ ed i rappresentanti sindacali dei lavoratori interessati.
In merito alle deduzioni difensive di cui al gravame, come appena sintetizzate, nella sentenza impugnata risulta del tutto assente qualsivoglia argomento o passaggio motivazionale dimostrativo della circostanza che la Corte territoriale abbia almeno preso in considerazione la prospettazione posta a base dell’appello, come sostenuta anche da documenti non valutati dal primo giudice.
Ne risulta, quindi, la totale omissione di motivazione sui motivi di appello che, consistendo in argomenti tesi a confutare il percorso argomentativo del primo giudice, sulla base di elementi da questi non presi in esame, avrebbero richiesto un’appropriata motivazione da parte della Corte territoriale.
2.2. In riferimento alla vicenda relativa alla vendita dell’opificio industriale sito in (OMISSIS) alla (OMISSIS) s.r.l., societa’ facente capo alla famiglia (OMISSIS), il primo giudice aveva osservato che la (OMISSIS) s.r.l. nel 2001 aveva chiuso le sedi di Milano e Londra, non aveva piu’ la disponibilita’ dei locali in (OMISSIS), per cui con la vendita dell’opificio in (OMISSIS) non avrebbe avuto piu’ la disponibilita’ di alcuna sede operativa e, tuttavia, proprio negli anni 2001 e 2002, aveva sviluppato un considerevole volume di affari; in assenza di elementi idonei a dimostrare la sussistenza di una pratica di outsourcing, quindi, doveva ritenersi che la (OMISSIS) s.r.l. e la (OMISSIS) s.r.l., in realta’, fossero una stessa societa’, come dimostrato anche dall’identita’ del numero di codice fiscale delle due societa’, dalla mancata prova del pagamento del prezzo di vendita alla societa’ venditrice da parte dell’acquirente e dall’esistenza di un’ipoteca sull’immobile acceso nel gennaio 2000 da un istituto di credito, a fronte di un finanziamento ottenuto dalla societa’ venditrice, (OMISSIS) s.r.l., oltre che di una successiva ipoteca di terzo grado accesa nel 2004, sul medesimo immobile, a fronte di un finanziamento ottenuto dalla societa’ acquirente.
La difesa del (OMISSIS), con i motivi di gravame, aveva anzitutto rilevato l’astratta inconfigurabilita’ della bancarotta distrattiva, qualora le due societa’ acquirente e venditrice – fossero state un unico soggetto giuridico, cosi’ come irrilevante sarebbe stata la circostanza che l’immobile fosse locato, ben essendo possibile vendere un bene locato a terzi; quanto al fatto che la societa’ fallita avesse continuato a generare fatturato, veniva rilevato come la (OMISSIS) s.r.l. aveva ancora la disponibilita’ dell’unita’ produttiva sita in via (OMISSIS), come rilevato anche dal Giudice dell’udienza preliminare nella citata sentenza di proscioglimento nei confronti dei componenti del Collegio sindacale; la circostanza che le due societa’ fossero un unico soggetto giuridico, inoltre, era derivata da un mero errore materiale, come documentato da altro contratto di locazione, tra la (OMISSIS) s.r.l. e la (OMISSIS) s.p.a., del gennaio 2003, da cui emergeva la diversita’ del codice fiscale della (OMISSIS) s.r.l.; quanto al versamento del prezzo, infine, non era stato considerato che la maggior parte del prezzo era consistito nell’accollo del mutuo, pacificamente intervenuto, come dimostrato dal fatto che l’istituto di credito erogante non avesse chiesto l’ammissione al passivo della societa’ fallita, non essendovi agli atti prova di ragioni alternative circa la decisione della banca di non insinuarsi al passivo fallimentare e sussistendo, anzi, anche la prova documentale del pagamento della quota residua del prezzo pattuito, essendo smentita anche da decisioni intervenute in altre sedi giudiziarie l’assunto secondo cui i beni della fallita sarebbero stati distratti per consentire ad altra societa’ del gruppo, la (OMISSIS) s.p.a., di continuare la stessa attivita’ con la medesima azienda. Anche in riferimento a dette argomentazioni, puntualmente espresse e documentate con i motivi di appello, la sentenza impugnata non si e’ fatta carico in alcun modo di adottare una motivazione che considerasse le emergenze processuali, approfondendo la motivazione del primo giudice alla luce dei profili non espressamente da questi considerati.
2.3. Quanto al giudizio di impossidenza degli amministratori della fallita, formulato dal Dott. (OMISSIS) e propedeutico alla valutazione dell’esercizio dell’azione di responsabilita’, di cui all’articolo 146 L. Fall., il primo giudice aveva affermato che trattavasi di qualificazione del tutto errata, in quanto (OMISSIS) risultava azionista al 20% della (OMISSIS) s.p.a., ed, inoltre, unitamente a (OMISSIS), era titolare di beni immobili di non trascurabile valore commerciale.
Con i motivi di gravame la difesa aveva rappresentato che il curatore aveva qualificato i due amministratori “sostanzialmente impossidenti”, non del tutto impossidenti, e che detta valutazione era giustificata dal fato che la titolarita’ del 20% di una societa’ familiare risultava difficilmente liquidabile, mentre, quanto alla proprieta’ di altri immobili, era stato dimostrato, attraverso visure camerali allegate ai motivi di appello, che entrambi i (OMISSIS), contrariamente a quanto affermato dal consulente del pubblico ministero, non risultavano titolari di diritti di proprieta’ o di altri diritto reali.
Anche in riferimento a detto aspetto, sostenuto da specifica documentazione, la Corte territoriale ha del tutto omesso la motivazione.
2.4. In riferimento alla motivazione della sentenza impugnata circa i prelievi effettuati nella misura di 800.000.000 di vecchie Lire – unico aspetto trattato dalla Corte territoriale – va ricordato che e’ stato affermato come detti prelievi, effettuati in data 19 e 20 luglio 2011, dovessero essere valutati alla luce del criterio di cui all’articolo 2467 c.c. – secondo il quale il rimborso dei finanziamenti ai soci e’ postergato rispetto al soddisfacimento degli altri creditori – con la conseguenza che l’imputato aveva dolosamente omesso di segnalare la condotta degli amministratori, indiscutibilmente distrattiva.
Se nonche’ – come si evince dalla formulazione del capo di imputazione e dalla motivazione del primo giudice – effettivamente i prelievi in esame risultavano effettuati in data (OMISSIS) e non (OMISSIS), per cui il principio della postergazione, richiamato dalla Corte territoriale, non appare inerente, risultando dalla formulazione dell’articolo 2467 c.c., come formulato con Decreto Legislativo 17 gennaio 2003, n. 6, pubblicato su G.U. 22 gennaio 2003, vigente dal 01/01/2004.
Ne risulta, quindi, che la motivazione della sentenza impugnata appare del tutto inconferente, a fronte dei motivi di appello con i quali la difesa aveva sostenuto la liceita’ dell’operazione, alla stregua anche delle decisioni assunte in sede civile – in riferimento al rigetto dell’istanza di sequestro conservativo e del successivo rigetto del reclamo avverso il primo provvedimento -, argomenti rispetto ai quali la motivazione della Corte territoriale risulta del tutto assente.
Ne discende che l’impianto argomentativo del primo giudice – che aveva sottolineato come l’operazione di restituzione del finanziamento soci non risultasse da nessuna Delib. assembleare, ed avesse, altresi’, valutato anche la condotta tenuta dal curatore fallimentare, che aveva omesso di segnalare dette operazioni, pur essendo in possesso delle pagine del libro giornale attestante dette operazioni – avrebbe dovuto essere approfondita e scandagliata alla luce della documentazione prodotta con i motivi di gravame ed alla luce della ricostruzione della vicenda inerente i contatti tra il consulente del pubblico ministero ed il curatore fallimentare, in riferimento alla consegna al primo, da parte del secondo, delle copie del libro giornale da cui risultava la movimentazione contabile in esame, secondo la prospettazione difensiva, assolutamente non considerata ne’, quindi, confutata dalla Corte territoriale. Appare evidente, infine, come l’esame delle condotte ascritte al curatore fallimentare non potra’ prescindere da una seria analisi dell’elemento soggettivo del reato, posto a base di specifico motivo di gravame, e come, dalle conclusioni raggiunte, discendera’ anche la valutazione della sussistenza o meno della fattispecie di cui all’articolo 378 c.p., ascritta al (OMISSIS).
Ne consegue, pertanto, alla luce delle ragioni sin qui illustrate, l’annullamento della sentenza impugnata, ai sensi dell’articolo 623 c.p.p., lettera c), con rinvio ad altra sezione della Corte di Appello di Napoli che, nella valutazione delle emergenze processuali in riferimento alle condotte ascritte all’imputato, si atterra’ ai principi di diritto in precedenza illustrati.

P.Q.M.

annulla la sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della Corte di Appello per nuovo esame.

 

In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.

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