Falso ideologico in atto pubblico a carico di professori

Corte di Cassazione, sezione quinta penale, Sentenza 21 novembre 2019, n. 47241.

Massima estrapolata:

Falso ideologico in atto pubblico a carico di professori, presidi e proprietari della scuola parificata che alterano i registri di classe facendo risultare presenti allievi che non ci sono e “barano” sui programmi di studio svolti.

Sentenza 21 novembre 2019, n. 47241

Data udienza 2 luglio 2019

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUINTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VESSICHELLI Maria – Presidente

Dott. CATENA Rossell – rel. Consigliere

Dott. TUDINO Alessandrina – Consigliere

Dott. SCORDAMAGLIA Irene – Consigliere

Dott. BRANCACCIO Matilde – Consigliere

ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
(OMISSIS), nato a (OMISSIS);
(OMISSIS), nato a (OMISSIS),
(OMISSIS), nato a (OMISSIS);
(OMISSIS), nato a (OMISSIS);
avverso la sentenza della Corte di Appello di Caltanissetta emessa in data 06/03/2018;
visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Dott.ssa Rossella Catena;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.ssa FILIPPI Paola, che ha concluso per il rigetto dei ricorsi;
udito per l’imputato (OMISSIS) l’Avv.to (OMISSIS), in sostituzione dei difensori di fiducia, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso;
udito per l’imputato (OMISSIS) il difensore di fiducia, Avv.to (OMISSIS), che ha concluso per l’accoglimento del ricorso;
udito per l’imputato (OMISSIS) il difensore di fiducia, Avv.to (OMISSIS), che ha concluso per l’accoglimento del ricorso;
udito per l’imputato (OMISSIS) il difensore di fiducia, Avv.to (OMISSIS), che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1.Con la sentenza impugnata la Corte di Appello di Caltanissetta, in riforma della sentenza emessa in data 23/02/2017 dal Tribunale di Gela, con cui gli imputati erano stati dichiarati responsabili e condannati a pena di giustizia per i reati a loro rispettivamente ascritti, dichiarava non doversi procedere nei confronti di (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS) in relazione al reato di cui al capo a) della rubrica – articolo 416 c.p., in (OMISSIS) – in quanto estinto per prescrizione e, concesse ai predetti imputati le circostanze attenuanti generiche equivalenti alla circostanza aggravante di cui all’articolo 476 c.p., comma 2, riduceva la pena a ciascuno inflitta in anni due di reclusione in relazione al reato di cui al capo b) – articolo 81 c.p., comma 2, articoli 110 e 479 c.p., in (OMISSIS) -; dichiarava non doversi procedere nei confronti di (OMISSIS) in relazione al reato di cui al capo m) – articolo 81 c.p., comma 2, articoli 110 e 479 c.p., in (OMISSIS) -, in esso assorbito il reato di cui al capo o), in quanto estinto per prescrizione quanto alle condotte commesse fino al mese di ottobre 2004, e, considerate le gia’ concesse circostanze attenuanti generiche equivalenti alla circostanza aggravante di cui all’articolo 476 c.p., comma 2, riduceva la pena in anni uno di reclusione.
2. In data 28/09/2018 (OMISSIS) ricorre, a mezzo del difensore di fiducia Avv.to (OMISSIS), per:
2.1. violazione di legge e vizio di motivazione, ai sensi dell’articolo 606 c.p.p., lettera b) ed e), in riferimento all’errata applicazione delle disposizioni sulla competenza territoriale, posto che sin dall’originaria contestazione la piu’ grave fattispecie ascritta all’imputato era quella di cui all’articolo 416 c.p., aggravata dal ruolo di capo e promotore, reato permanente, per il quale la competenza territoriale, a norma dell’articolo 8 c.p.p., comma 3, avrebbe dovuto essere individuata nel luogo in cui aveva avuto inizio la consumazione, nel caso di specie (OMISSIS), sede delle societa’ proprietarie dei vari istituti scolastici, con conseguente erronea applicazione delle regole suppletive di cui all’articolo 9 c.p.p.;
2.2. violazione di legge e vizio di motivazione, ai sensi dell’articolo 606 c.p.p., lettera b) ed e), in riferimento agli articoli 516, 517 e 522 c.p.p., non potendosi condividere la valutazione operata dapprima dal Tribunale, quindi dalla Corte territoriale, consistente nei qualificare come precisazione del capo di imputazione l’attivita’ compiuta dal pubblico ministero all’udienza del 26/09/2016, costituente, invece, una vera e propria contestazione suppletiva, atteso che un’attivita’ di precisazione del capo di imputazione si porrebbe in contrasto con quanto previsto dall’articolo 429 c.p.p., comma 1, lettera c), come chiarito anche dalla giurisprudenza di legittimita’ citata in ricorso; in particolare, anche volendo aderire all’orientamento meno rigoroso, secondo il quale sarebbe comunque possibile procedere alla contestazione suppletiva di una circostanza aggravante gia’ nota nella fase delle indagini preliminari, cio’ non fa venire meno il profilo della idoneita’ della contestazione stessa ad incidere sul temine di prescrizione del reato originariamente contestato, gia’ decorso nel caso di specie; peraltro, la giurisprudenza citata dai giudici di merito non appare pertinente, atteso che essa ha ad oggetto casi nei quali la natura fidefacente dell’atto emerga pacificamente, cosa non verificatasi nel caso di specie, concernente il registro di classe ed il registro dei professori, come dimostrato dal fatto che nei confronti degli autori materiali dei reati era stata formulata richiesta di archiviazione da parte della Procura di Gela per intervenuta prescrizione, accolta dal Giudice delle indagini preliminari;
2.3. violazione di legge e vizio di motivazione, ai sensi dell’articolo 606 c.p.p., lettera b) ed e), in riferimento all’articolo 479 c.p., articolo 476 c.p., comma 2, essendo stati il registro di classe ed il registro dei professori qualificati come atti pubblici fidefacenti, in aperto contrasto con l’orientamento della Cassazione sul punto, del tutto travisato dalla sentenza impugnata, apparendo evidente come la natura fidefacente di un atto debba dipendere da una previsione normativa, risultando, in tal senso, assolutamente inconcludente il richiamo al Decreto Ministeriale 5 maggio 1993 ed al successivo o.m. del 2 agosto 1996, n. 236, che non assegnano alcuna funzione certificatrice all’insegnante, come confermato dalle sentenze di legittimita’ indicate nelle sentenze di merito, peraltro del tutto impropriamente e/o erroneamente richiamate, in alcuni casi addirittura dimostrative dell’assunto contrario a quello sostenuto dai giudici di merito.
3. In data 04/10/2018 (OMISSIS) ricorre, a mezzo del difensore di fiducia Avv.to (OMISSIS), per:
3.1. violazione di norme processuali sancite a pena di nullita’, ai sensi dell’articolo 606 c.p.p., lettera c), in riferimento alla mancata prova della notifica del decreto di citazione a giudizio per il grado di appello presso il domicilio eletto dall’imputato in (OMISSIS), non risultando dalla relata di notifica l’attestazione del luogo dove la stessa era stata eseguita, ma solo la circostanza che era stata effettuata a mani della moglie;
3.2. violazione di norme processuali sancite a pena di nullita’ e vizio di motivazione, ai sensi dell’articolo 606 c.p.p., lettera c) ed e), in riferimento alla questione della competenza territoriale, gia’ proposta in sede di udienza preliminare e reiterata in sede di primo grado e di appello, essendo stato rilevato come il reato associativo era stato commesso nel luogo ove avevano sede le societa’ (OMISSIS) s.r.l. e (OMISSIS) s.r.l., costituite ed amministrate in Licata, nel circondario del Tribunale di Agrigento, sino a quasi tutto il 2006, dovendosi rilevare come la piu’ grave imputazione, al momento dell’esercizio dell’azione penale ed al momento dell’udienza preliminare, fosse proprio il reato associativo, la cui consumazione aveva avuto inizio, come detto, nel territorio di Agrigento, in aperto contrasto con quanto sul punto affermato dai giudici di merito, peraltro in contrasto con quanto affermato dalla Cassazione con la sentenza n. 46134 del 2009;
3.3. violazione di norme processuali sancite a pena di nullita’, ai sensi dell’articolo 606 c.p.p., lettera c), in riferimento all’articolo 597 c.p.p., articolo 604 c.p.p., comma 1, articoli 522, 178 e 180 c.p.p., articoli 27 e 111 Cost., articoli 6 e 7, Carta EDU, atteso che la circostanza aggravante di cui all’articolo 476 c.p., comma 2, non era mai stata contestata, bensi’ ritenuta in sentenza dal giudice di merito, con conseguente violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza e dei criteri di prevedibilita’ e di legalita’ dell’accusa penale, come richiamati dagli articoli 6 e 7 della Carta EDU sulla scorta delle giurisprudenza della Corte di Strasburgo, non essendo in alcun modo prevedibile l’aggravante in esame; non a caso, infatti, il profilo della fidefacenza dell’atto era stato evidenziato solo dopo il decorso del termine di prescrizione del reato di cui all’articolo 479 c.p., non avendo la pubblica accusa ritenuto di modificare l’originaria imputazione, come dimostrato, inoltre, dall’archiviazione della notitia criminis in riferimento agli insegnanti a vario titolo coinvolti nella falsificazione, per decorso del termine di prescrizione, nonche’ dall’ordinanza adottata dal Giudice per l’udienza preliminare in data 19/10/2011 che, in sede di rigetto dell’eccezione di incompetenza territoriale, aveva indicato la competenza territoriale del Tribunale di Gela in riferimento alla piu’ grave fattispecie associativa;
3.4. violazione di norme processuali sancite a pena di nullita’, mancata assunzione di prova decisiva, vizio di motivazione, ai sensi dell’articolo 606 c.p.p., lettera c), d), e), atteso che, in riferimento alla circostanza aggravante di cui all’articolo 476 c.p., comma 2, – peraltro oggetto di una mera precisazione del capo di imputazione da parte del pubblico ministero all’udienza del 29/09/2016, e non di una contestazione ex articolo 517 c.p.p. – la difesa aveva richiesto, con lista testi tempestivamente depositata, l’ammissione di nuovi testi, reiterando detta richiesta alle udienze del 03/11/2016 e 15/12/2016; sul punto la Corte territoriale ha fornito una motivazione del tutto illogica, avendo ritenuto che la difesa avesse formulato istanza ex articolo 603 c.p.p., laddove si era inteso sottolineare la violazione dei diritti di difesa dell’imputato, argomento del tutto pretermesso dalla Corte di merito, la quale si e’ limitata ad affermare che le prove dichiarative richieste dalla difesa non avrebbero apportato alcun contributo conoscitivo all’accertamento dei fatti, laddove, in caso di contestazione di nuova circostanza aggravante, si costituisce, in capo all’imputato, un diritto pieno alla prova, ai sensi dell’articolo 190 c.p.p. e articolo 468 c.p.p., comma 2, che incontra solo il limite della irrilevanza o della manifesta superfluita’ della prova; in tal senso, infatti, non puo’ considerarsi rilevante il richiamo all’articolo 507 c.p.p., contenuto nell’articolo 519 c.p.p., atteso che la disposizione di cui all’articolo 507 c.p.p. ha portata generale e, quindi, il citato richiamo significa che, in caso di modifica dell’imputazione o di contestazione di nuova circostanza aggravante, la difesa possa chiedere l’ammissione di nuove prove sino al termine della fase processuale di acquisizione delle stesse, a prescindere sia dal deposito della lista testi che dalla valutazione di assoluta necessita’ delle prove stesse; ne consegue, nel caso in esame, la nullita’ dell’ordinanza con cui non sono state ammesse le prove e delle sentenze emesse, ivi inclusa quella di appello, che ha richiamato un parametro di indispensabilita’ della prova, come visto non richiesto;
3.5. violazione di legge e vizio di motivazione, ai sensi dell’articolo 606 c.p.p., lettera b) ed e), in riferimento all’articolo 476 c.p., comma 2, articoli 157 e 158 c.p., articoli 2699, 2700 e 2702 c.c., Regio Decreto n. 965 del 1924, articoli 41 ed 85, Decreto Legislativo n. 82 del 2005, articoli 1 e 21, Decreto Ministeriale Ministero Pubblica Istruzione 5 maggio 1993, articolo 2 par. 2, lettera d), diramato con Circolare ministeriale n. 167 del 27/05/1993, 4 e 5 o.m. Istruzione n. 236 del 1996, articolo 125 c.p.p., comma 3, articolo 546 c.p.p., lettera e), articolo 597 c.p.p., atteso che, alla luce della giurisprudenza di legittimita’, la qualificazione di fidefacenza di un atto discende da una precisa norma di legge o di regolamento, che attribuisca all’atto posto in essere dal pubblico ufficiale natura fidefacente, norma per nulla individuata dalla Corte territoriale, nonostante lo specifico motivo di gravame, posto che le disposizioni richiamate in sentenza – Regio Decreto n. 965 del 1924, articolo 41, Decreto Ministeriale 5 maggio 1993, o.m. n. 236/1996 – non autorizzano affatto la lettura che ne offre la Corte di merito. Il Regio Decreto n. 965 del 1924, articoli 41 e 85 si limitano ad indicare che i registri contengono notizie degli alunni e delle loro assenze, senza attribuire a dette annotazioni alcuna fede privilegiata, come, peraltro, si evince dal tenore letterale delle altre disposizioni citate, che richiamano termini quali “registrazione” finalizzata alla “comunicazione reciproca” degli insegnanti, con evidente funzione didattica ed organizzativa ad uso interno dei docenti, dotata di valenza pubblica ai fini dell’articolo 476 c.p., comma 1, a nulla rilevando l’impossibilita’ del dirigente scolastico di revocare o annullare una nota disciplinare contenuta nel registro di classe, profilo che riguarda la natura del rapporto gerarchico improprio tra le due figure professionali, parimenti irrilevante essendo la natura probatoria del documento ai fini della prestazione lavorativa del docente, che riguarda un aspetto probatorio non dotato di certezza assoluta e, quindi, di fede privilegiata; cio’, per altro verso, emerge dalla comune esperienza di modificare le annotazioni nei registri di classe senza seguire in alcun modo le procedure previste, in tali casi, per gli atti pubblici fidefacenti, come emerge, ad esempio, dalla legge notarile, dalle disposizioni che regolano gli atti certificativi dei cancellieri, dei segretari comunali, dei direttori sanitari di ospedali; la stessa giurisprudenza di legittimita’ nega la natura di atto pubblico fidefacente ai detti registri, salvo un solo precedente in senso contrario, e le attuali disposizioni del Decreto Legislativo n. 82 del 2005 chiaramente attribuiscono ai documenti informatici valore probatorio privilegiato solo nel caso in cui ad essi sia apposta la firma digitale, il che non e’ previsto per i registri di classe, peri quali, anzi, e’ prevista la sola firma elettronica.
4. In data 26/09/2018 (OMISSIS) ricorre, a mezzo dei difensori di fiducia Avv.to (OMISSIS) e Avv.to (OMISSIS), per:
4.1. violazione di legge e vizio di motivazione, ai sensi dell’articolo 606 c.p.p., lettera b) ed e), in relazione all’articolo 157 c.p. e articolo 522 c.p.p., rilevando la nullita’ della sentenza per difetto di contestazione e’ mancata declaratoria di improcedibilita’ per prescrizione del reato, non essendo contenuta nella originaria imputazione alcuna indicazione della circostanza aggravante di cui all’articolo 476 c.p., comma 2, ne’ della natura fidefacente dei registri di classe, come affermato dalla stessa Cassazione con la sentenza della Sez. 5, n. 30435 del 05/07/2018 e come emerso dalle medesime vicende processuali evocate, sul punto, dagli altri computati in riferimento alla specifica vicenda, a nulla rilevando la “precisazione” effettuata dal pubblico ministero all’udienza del 29/09/2016, che nulla ha a che vedere con una contestazione suppletiva, non essendo stato concesso alcun termine a difesa agli imputati, che pure ne avevano fatto richiesta, essendo stato il processo rinviato per altre ragioni, ne’ essendo stato loro consentito di articolare mezzi di prova al riguardo; senza contare che, alla data della udienza indicata, era gia’ spirato il termine di prescrizione del reato;
4.2. violazione di legge e vizio di motivazione, ai sensi dell’articolo 606 c.p.p., lettera b) ed e), in relazione all’articolo 476 c.p., non potendosi far discendere la natura di atto pubblico fidefacente del registro di classe dalla circostanza che esso attesta fatti avvenuti alla presenza del docente, anche alla luce della pacifica giurisprudenza di legittimita’, che qualifica il detto registro ai sensi del comma 1 dell’articolo 476 c.p..
5. In data 04/10/2018 (OMISSIS) ricorre, a mezzo del difensore di fiducia.
5.1. violazione di norme processuali sanate a pena di nullita’ e vizio di motivazione, ai sensi dell’articolo 606 c.p.p., lettera c) ed e), in riferimento alla questione della competenza territoriale, gia’ proposta in sede di udienza preliminare e reiterata in sede di primo grado e di appello, essendo stato rilevato come il reato associativo era stato commesso nel luogo ove avevano sede le societa’ (OMISSIS) s.r.l. e (OMISSIS) s.r.l., costituite ed amministrate in Licata, nel circondario del Tribunale di Agrigento, sino a quasi tutto il 2006, dovendosi rilevare come la piu’ grave imputazione, al momento dell’esercizio dell’azione penale ed al momento dell’udienza preliminare, fosse proprio il reato associativo, la cui consumazione aveva avuto inizio, come detto, nel territorio di Agrigento, in aperto contrasto con quanto sul punto affermato dai giudici di merito, peraltro in contrasto con quanto affermato dalla Cassazione con la sentenza n. 46134 del 2009;
5.2. violazione di norme processuali sancite a pena di nullita’, ai sensi dell’articolo 606 c.p.p., lettera c), in riferimento all’articolo 597 c.p.p., articolo 604 c.p.p., comma 1, articoli 522, 178 e 180 c.p.p., articoli 27 e 111 Cost., articoli 6 e 7, Carta EDU, atteso che la circostanza aggravante di cui all’articolo 476 c.p., comma 2, non era mai stata contestata, bensi’ ritenuta dal giudice di merito, con conseguente violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza e dei criteri di prevedibilita’ e di legalita’ dell’accusa penale, come richiamati dagli articoli 6 e 7 della Carta EDU, sulla scorta delle giurisprudenza della Corte di Strasburgo, non essendo in alcun modo prevedibile la contestazione dell’aggravante in esame; non a caso, infatti, il profilo della fidefacenza dell’atto e’ stato evidenziato solo dopo il decorso del termine di prescrizione del reato di cui all’articolo 479 c.p., non avendo la pubblica accusa ritenuto di modificare l’originaria imputazione, come dimostrato, inoltre, dall’archiviazione della notitia criminis in riferimento agli insegnanti a vario titolo coinvolti nella falsificazione, per decorso del termine di prescrizione, nonche’ dall’ordinanza adottata dal Giudice per l’udienza preliminare in data 19/10/2011 che, in sede di rigetto dell’eccezione di incompetenza territoriale, aveva determinato la competenza territoriale del Tribunale di Gela in riferimento alla piu’ grave fattispecie associativa;
5.3. violazione di legge e vizio di motivazione, ai sensi dell’articolo 606 c.p.p., lettera b) ed e), in riferimento all’articolo 476 c.p., comma 2, articoli 157 e 158 c.p., articoli 2699, 2700 e 2702 c.c., Regio Decreto n. 965 del 1924, articoli 41 ed 85, Decreto Legislativo n. 82 del 2005, articoli 1 e 21, articolo 2 par. 2 lettera d) Decreto Ministeriale Ministero Pubblica Istruzione del 5 maggio 1993, diramato con Circolare ministeriale n. 167 del 27/05/1993, 4 e 5 o.m. Istruzione n. 236 del 1996, articolo 125 c.p.p., comma 3, articolo 546 c.p.p., lettera e), articolo 597 c.p.p., atteso che, alla luce della giurisprudenza di legittimita’, la qualificazione di fidefacenza di un atto discende da una precisa norma di legge o di regolamento che attribuisca all’atto posto in essere dal pubblico ufficiale natura fidefacente, norma per nulla individuata dalla Corte territoriale, nonostante lo specifico motivo di gravame, posto che le disposizioni richiamate in sentenza – Regio Decreto n. 965 del 1924, articolo 41, Decreto Ministeriale 5 maggio 1993, o.m. n. 236/1996 – non autorizzano affatto la lettura che ne offre la sentenza impugnata. Il Regio Decreto n. 965 del 1924, articoli 41 e 85 si limitano ad indicare che i registri contengono notizie degli alunni e delle loro assenze, senza attribuire a dette annotazioni alcuna fede privilegiata, come, peraltro, si evince dal tenore letterale delle altre disposizioni citate, che richiamano termini quali “registrazione” finalizzata alla “comunicazione reciproca” degli insegnanti, con evidente funzione didattica ed organizzativa ad uso interno dei docenti, dotata di valenza pubblica ai fini dell’articolo 476 c.p., comma 1, a nulla rilevando l’impossibilita’ del dirigente scolastico di revocare o annullare una nota disciplinare contenuta nel registro di classe, profilo che riguarda la natura del rapporto gerarchico improprio tra le due figure professionali, parimenti irrilevante essendo la natura probatoria del documento ai fini della prestazione lavorativa del docente, concernente un profilo probatorio non dotato di certezza assoluta e, quindi, di fede privilegiata; cio’, per altro verso, emerge dalla comune esperienza di modificare le annotazioni nei registri di classe senza seguire in alcun modo le procedure previste, in tali casi, per gli atti pubblici fidefacenti, come emerge, ad esempio, dalla legge notarile, dalle disposizioni che regolano gli atti certificativi dei cancellieri, dei segretari comunali, dei direttori sanitari di ospedali; la stessa giurisprudenza di legittimita’ nega la natura di atto pubblico fidefacente ai detti registri, salvo un solo precedente in senso contrario, e le attuali disposizioni del Decreto Legislativo n. 82 del 2005 chiaramente attribuiscono ai documenti informatici valore probatorio privilegiato solo nel caso in cui ad essi sia apposta la firma digitale, il che non e’ previsto per i registri di classe, per i quali e’ prevista la sola firma elettronica.

CONSIDERATO IN DIRITTO

La vicenda processuale in esame va inquadrata alla luce della formulazione delle fattispecie di reato ascritte agli imputati, come di seguito riportata:
(OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS);
b) del delitto di cui all’articolo 81 c.p., comma 2, articoli 110 e 479 c.p., per avere, con piu’ azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, il (OMISSIS) quale amministratore, il (OMISSIS) ed il (OMISSIS) quali soci, gestori ed amministratori di fatto della (OMISSIS) s.r.l., gia’ (OMISSIS) s.r.l., allo scopo di realizzare il programma delittuoso, fornendo alla segreteria ed al corpo docente precise, chiare ed univoche direttive circa la compilazione dei registri di classe e dei professori, e quindi come mandanti, concorso con gli stessi nella falsa attestazione delle presenze degli alunni in classe, sullo svolgimento degli argomenti ed in generale sul complessivo rilevamento dell’attivita’ didattica; in (OMISSIS).
(OMISSIS):
m) del delitto di cui all’articolo 81 c.p., comma 2, articoli 110 e 479 c.p., per avere, con piu’ azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, in qualita’ di preside dell’istituto paritario (OMISSIS), fornito al corpo docente precise, chiare ed univoche direttive circa la compilazione dei registri di classe e dei professori, concorso nella falsa attestazione delle presenze degli alunni in classe, sullo svolgimento degli argomenti ed in generale sul complessivo rilevamento dell’attivita’ didattica; in (OMISSIS).
Occorre, quindi, passare alla trattazione delle questioni enucleabili dai ricorsi proposti, che costituiscono temi comuni a tutti gli imputati e che impongono, nella redazione della motivazione, una illustrazione ed una trattazione comune, anche per evitare inutili ripetizioni e rispettare la funzione della sentenza quale documento di sintesi, come rilevabile dall’espresso dettato normativo di cui agli articoli 544 c.p.p. e segg., richiamati, in quanto applicabili, dall’articolo 617, comma 1, del medesimo codice.
Nel rispetto del canone dialettico del ragionamento decisorio, correlato alla struttura del giudizio come processo di parti, da svolgere in condizioni di parita’ davanti al giudice terzo, come prescritto dall’articolo 111 Cost., comma 2, si passera’, poi, ad esaminare le questioni proposte singolarmente dai singoli ricorrenti.
Detta operazione ermeneutica non puo’ che essere svolta considerando come le argomentazioni difensive devono essere valutate in raffronto con il complesso motivazionale emergente da entrambe le sentenze di merito, atteso che esse, trattandosi di “doppia conforme” quanto all’affermazione di responsabilita’ in riferimento ai reati oggetto di ricorso, non possono che integrarsi vicendevolmente, costituendo un unico corpus argomentativo ed ermeneutico. Costituisce, infatti, ius receptum il principio in base al quale in sede di controllo di legittimita’ sul vizio di motivazione, la struttura giustificativa delle sentenze di merito si salda tra loro, per formare un unico complessivo corpo argomentativo, allorquando i giudici del gravame, esaminando le censure proposte dall’appellante con criteri omogenei a quelli del primo giudice, concordino nell’analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento della decisione (Sez. 3, sentenza n. 44418 del 16/07/2013, Argentieri, Rv. 257595; Sez. 3, sentenza n. 13926 del 01/12/2011, dep. 12/04/2012, Valerio, Rv. 252615).
1.La competenza territoriale:
In riferimento al profilo concernente la valutazione della competenza territoriale da parte del Tribunale di Gela, va premesso che le sentenze di merito – quella di primo grado alle pagg. 17 e segg., quella di appello alle pagg. 12 e segg. hanno affermato che gli imputati avevano messo in opera un capillare sistema operativo illecito in Sicilia e Calabria, che consentiva di far apparire fittiziamente, in base a false attestazioni della loro presenza, come alunni interni di istituti parificati numerosi soggetti, consentendo loro di conseguire, in tal modo, il diploma finale di scuola superiore, dopo che i predetti si erano presentati a sostenere gli esami presso l’Istituto (OMISSIS).
Il Tribunale di Gela ha individuato la propria competenza territoriale sia in riferimento al piu’ grave delitto di falso, accertato soprattutto presso l’istituto di Gela, sia in riferimento al reato associativo, affermando che la competenza in riferimento a detta fattispecie si radica nel luogo dove e’ operativa l’associazione, nella specie Gela, quindi ha aggiunto che, anche volendosi applicare i criteri residuali di cui all’articolo 9 c.p.p., la competenza territoriale si sarebbe comunque radicata in Gela, luogo dove e’ stata iscritta la notizia di reato per la prima volta, ai sensi dell’articolo 335 c.p.p..
La Corte di Appello ha concordato con detta motivazione, rilevando come Gela fosse il luogo in cui si estrinsecava con maggiore incisivita’ la condotta associativa, poiche’ l’istituto (OMISSIS) era il centro focale dell’attivita’ delittuosa, dovendosi, in ogni caso, applicare l’articolo 12 c.p.p., lettera b), data la connessione tra reato associativo e reati fine.
Tanto premesso, va osservato che costituisce orientamento interpretativo maggioritario, nell’ambito della giurisprudenza di questa Corte regolatrice, da cui il Collegio non intende discostarsi, il principio secondo il quale in caso di reati connessi, uno dei quali riguardi il delitto di associazione per delinquere, avente natura di reato permanente, la competenza territoriale va determinata con riferimento al luogo in cui si e’ realizzata l’operativita’ della struttura organizzativa, a nulla rilevando il luogo di consumazione dei singoli reati oggetto del pactum sceleris. Solo nell’ipotesi in cui non emerga con chiarezza il luogo in cui detta associazione sia stata operativa, ne’ sia possibile fare ricorso al luogo di consumazione dei reati-fine, trova applicazione il criterio di cui all’articolo 9 c.p.p., comma 3, (Sez. 1, sentenza n. 29160 del 24/06/2008, Conflitto competenza in proc. Barrero ed altri, Rv. 240480; Sez. 5, sentenza n. 2269 del 12712/2006, dep. 23/01/2007, Tavaroli, Rv. 236300; Sez. 1, sentenza n. 45388 del 07/12/2005, Saya, Rv. 233359).
Peraltro, anche la piu’ risalente giurisprudenza di legittimita’ ha sempre considerato come la competenza territoriale in tema di reati associativi si radichi nel luogo in cui la struttura criminosa diventa concretamente operante, indipendentemente dal luogo di consumazione dei singoli reati-fine (Sez. 1, sentenza n. 4761 del 26/10/1994, Conflitto competenza G.i.p. Trib. Brescia e Trib. Milano in proc. Arricchetti, Rv. 199964; Sez. 1, sentenza n. 703 del 25/11/1992, dep. 26/01/1993, Taino ed altri, Rv. 192783).
Il Collegio non ignora l’esistenza di un orientamento ermeneutico di segno differente, che ravvisa, quale criterio determinante, quello del luogo in cui l’associazione si e’ costituita (Sez. 2, sentenza n. 26285 del 03/06/2009, Rv. 244666; Sez. 4, sentenza n. 35229 del 07/06/2005, Rv. 232081; Sez. 4, sentenza n. 17636 del 12/02/2004, Rv. 228183).
Tuttavia, come detto, che il luogo in cui la struttura risulti pienamente operante coincida con il luogo in cui ha sede la base ove si svolgono programmazione, ideazione e direzione delle attivita’ criminose facenti capo al sodalizio, e’ principio sicuramente consolidato nella prevalente giurisprudenza di questa Corte regolatrice, a cui il Collegio aderisce, dovendosi ritenere il diverso orientamento del tutto minoritario, oltre che risalente e, come tale, del tutto superato dal piu’ recente ed unitario filone interpretativo (Sez. 2, sentenza n. 41012 del 20/06/2018, C., Rv. 274083; Sez, 6, sentenza n. 4118 del 10/01/2018 – dep. 29/01/2018, Piccolo, Rv. 272185; Sez. 6, sentenza n. 49995 del 15/09/2017, D’Amato e altro, Rv. 271585; Sez. 2, sentenza n. 50338 del 03/12/2015, Signoretta, Rv. 265282; Cass. Sez. 2, n. 26763 del 15/03/2013, Rv. 256650; Sez. 2, sentenza n. 26763 del 15/03/2013, Leuzzi, Rv. 256650; Sez. 2, sentenza n. 22953 del 16/05/2012, Tempestilli ed altro, Rv. 253189; Sez. 1, sentenza n. 17353 del 09/04/2009, Conflitto di competenza in proc. Antoci, Rv. 243566).
Cio’, peraltro, discende dalla natura permanente del reato, per cui assume rilievo non tanto il luogo in cui si e’ radicato il pactum sceleris, quanto quello in cui si e’ effettivamente manifestata e realizzata l’operativita’ della struttura, ossia il luogo ove risulta realizzata e mantenuta la situazione antigiuridica in cui si concreta in maniera decisiva e rilevante il pericolo per l’ordine pubblico, coincidente con quello in cui sono programmate, ideate e dirette le attivita’ dell’associazione. Proprio l’oggetto giuridico della tutela, individuato nell’ordine pubblico, fa si’, quindi, che assuma rilievo non tanto il luogo in cui si e’ radicato il pactum sceleris, quanto quello in cui si e’ effettivamente manifestata e realizzata l’operativita’ della struttura.
Si precisa che le valutazioni relative alla identificazione del luogo ove si svolgono programmazione, ideazione e direzione delle attivita’ criminose del sodalizio si atteggiano come apprezzamenti di merito, censurabili in sede di legittimita’ solo ove fondati su un travisamento della prova o caratterizzati da vizi logici manifesti e decisivi. Nel caso di specie la Corte territoriale, come visto, ha individuato in Gela il luogo di operativita’ della struttura, in quanto sede dell’istituto scolastico (OMISSIS), presso il quale venivano convogliati gli studenti provenienti da tutti gli altri istituti del territorio facenti capo ai sodali, al fine di sostenere gli esami.
Peraltro, la Corte territoriale ha ricordato come sussistesse, senza alcun dubbio, tra il delitto associativo ed i reati-fine, la connessione di cui all’articolo 12 c.p.p., lettera b), con conseguente applicazione del criterio di cui all’articolo 16 c.p.p..
La sussistenza della detta connessione, per la verita’, non risulta affatto contestata dai ricorsi sul punto che, come visto, si sono limitati a contestare il criterio di individuazione della competenza territoriale in funzione del luogo di consumazione del delitto associativo.
2. La contestazione della circostanza aggravante di cui all’articolo 476 c.p., comma 2.
2.1. Come si evince dal verbale dell’udienza dibattimentale del 29/09/2016 innanzi al Tribunale di Gela – atto consultabile da parte di questa Corte, attesa la natura del motivo di ricorso, che involge questioni di natura processuale – il pubblico ministero aveva proceduto a contestare, in riferimento ai capi di imputazione sub B), L), M) ed O), agli imputati delle predette fattispecie di reato, la circostanza aggravante di cui all’articolo 476 c.p., comma 2, con la specificazione, in relazione ai predetti capi di imputazione, dell’inciso “con aggravante di aver commesso il fatto su atti che fanno fede fino a querela di falso”. Dal medesimo verbale risulta che il Collegio aveva concesso un termine a difesa, ai sensi dell’articolo 521 c.p.p., “per consentire ai difensori di valutare l’avvenuta precisazione delle imputazioni”, rinviando la trattazione del processo all’udienza del 03/11/2016. Va, inoltre, ricordato che all’udienza predetta gli imputati, odierni ricorrenti, erano tutti presenti, ad eccezione del (OMISSIS) gia’ dichiarato contumace; nei confronti di quest’ultimo, quindi, avrebbe dovuto essere disposta la notifica del verbale di udienza ai sensi dell’articolo 520 c.p.p., comma 1, omissione non rilevata ne’ eccepita in seguito dalla difesa del predetto imputato. In data 20/10/2016 risulta depositata, da parte della difesa del (OMISSIS), “istanza di ammissione lista testi a seguito di contestazione suppletiva”, recante annotazione in data 25/10/2016, a firma del Presidente del Collegio, che su detta istanza si sarebbe provveduto in udienza. All’udienza del 03/11/2016 – come risulta dal relativo verbale – il difensore del (OMISSIS) aveva chiesto, in via principale, alla luce della modifica del capo di imputazione con contestazione di circostanza aggravante, la declaratoria di improcedibilita’ del reato, ai sensi dell’articolo 129 c.p.p. per prescrizione gia’ decorsa; in via gradata, qualora si fosse ritenuto di trovarsi in presenza di una precisazione del capo di imputazione, chiedeva dichiararsi ex articolo 429 c.p.p., lettera c), la nullita’ del decreto di citazione a giudizio, richieste alle quali si associavano anche i difensori degli altri imputati, rilevando, altresi’, la tardivita’ della contestazione del pubblico ministero, formulata ai sensi degli articoli 517 e 523 c.p.p., intervenuta ad istruttoria dibattimentale conclusa, in prossimita’ della discussione finale delle parti. Il Tribunale, sentito il pubblico ministero, con ordinanza allegata al verbale di udienza, rilevato che la natura fidefacente di un atto falso puo’ essere ritenuta in sentenza dal giudice, senza che cio’ determini la modifica del capo di imputazione, escludendosi, pertanto, che nel caso di specie potesse ritenersi di essere in presenza di una nuova contestazione intervenuta una volta che il reato era gia’ prescritto, e che non sussisteva alcuna incertezza quanto ai fatti descritti in maniera specifica, tale da consentire l’esercizio del diritto di difesa; rilevato che, in ogni caso, il Tribunale aveva consentito ai difensori un termine per controdedurre, escludendo, tuttavia, che tale facolta’ potesse estendersi sino al punto di formulare richiesta di nuove prove, peraltro genericamente dedotte, rigettava le istanze difensive.
La Corte di merito, investita dai motivi di gravame, ha rilevato che, ai sensi dell’articolo 603 c.p.p., le prove testimoniali richieste dalla difesa risultavano inidonee a fornire un ulteriore contributo conoscitivo in termini di indispensabilita’, atteso che le circostanze su cui avrebbero dovuto riferire i testi – la natura fidefacente dei registri di classe e le modalita’ di tenuta e di accesso agli stessi – emergevano chiaramente dalla normativa che disciplina la documentazione dell’attivita’ da parte dei docenti, accogliendo la richiesta di rinnovazione limitatamente alla prova documentale; quanto alla modalita’ di contestazione della circostanza aggravante di cui all’articolo 476 c.p., comma 2, la Corte di appello, pur dando atto di orientamenti diversificati da parte della giurisprudenza di legittimita’, riteneva di aderire a quello secondo il quale puo’ essere ritenuta in sentenza dal giudice la fattispecie aggravata del reato di falso in atto pubblico, qualora la natura fidefacente dell’atto, pur non esplicitamente contestata nel capo di imputazione, sia indicata chiaramente in fatto ed emerga inequivocabilmente dalla tipologia dell’atto falsificato, non prevedendo la vigente normativa alcun limite temporale o preclusione all’esercizio del potere di modificare l’imputazione in dibattimento, essendo la contestazione di una circostanza emersa in dibattimento attivita’ meramente ricognitiva, inidonea a determinare una situazione di limitazione dei diritti della difesa dell’imputato, che puo’ sempre chiedere termine per poter controdedurre e difendersi; nel caso di specie, inoltre, l’imputazione aveva chiaramente descritto il fatto (pagg. 7-9 della sentenza impugnata).
Tanto premesso per quanto riguarda la ricostruzione dell’iter processuale posto a base dei motivi di ricorso, va osservato che, nel caso di specie, senza alcun dubbio, la contestazione della circostanza aggravante di cui all’articolo 476 c.p., comma 2, aveva formato oggetto di una contestazione suppletiva, che – cosi’ come la modifica dell’imputazione di cui all’articolo 516 c.p.p. e la contestazione di un reato concorrente di cui all’articolo 517 c.p. – puo’ essere effettuata dopo l’apertura del dibattimento e prima dell’espletamento dell’istruzione dibattimentale, dunque anche sulla sola base degli atti gia’ acquisiti dal pubblico ministero nel corso delle indagini preliminari. Cio’ in quanto va riconosciuto alla pubblica accusa il potere di procedere nel dibattimento alla modifica dell’imputazione o alla formulazione di nuove contestazioni senza specifici limiti temporali o di fonte, in quanto l’imputato ha facolta’ di chiedere al giudice un termine per contrastare l’accusa, esercitando ogni prerogativa difensiva, come la richiesta di nuove prove o il diritto ad essere rimesso in termini per chiedere riti alternativi o l’oblazione (Sez. U, sentenza n. 4 del 28/10/1998, dep. 11/03/1999, Barbagallo, Rv. 212757; Sez. 5, sentenza n. 8631 del 21/09/2015, dep. 02/03/2016, Scalia, Rv. 266081; Sez. 5, sentenza n. 51248 del 05/1172014, Cutrera, Rv. 261742; Sez. 6, sentenza n. 18749 del 11/04/2014, B. Rv. 262614; Sez. 6, sentenza n. 44980 del 22/09/2009, Nasso, Rv. 245284; Sez. 2, sentenza n. 3192 del 08/01/2009, Caltabiano, Rv. 242672; Sez. 6, sentenza n. 931 del 02/10/2003, dep. 19/01/2004, Barbetta, Rv. 228050; Sez. 6, sentenza n. 31705 del 07/03/2003, Bienati, Rv. 228400).
In tal senso appare chiaramente indicativa, quanto alla natura di contestazione suppletiva della circostanza aggravante, nel caso in esame, l’esplicito richiamo all’articolo 517 c.p.p. da parte del Tribunale, nonche’ la concessione di un termine a difesa da parte del medesimo Collegio; non a caso, come si evince dai verbali delle udienze dibattimentali esaminati, il cui contenuto e’ stato in precedenza sintetizzato, neanche i difensori avevano avuto alcun dubbio in merito, nulla avendo eccepito all’udienza del 29/09/2016, avendo, anzi, uno di essi avanzato, subito dopo, istanza di ammissione di testi proprio in riferimento alla intervenuta contestazione suppletiva della circostanza aggravante.
Ne discende che la natura dell’attivita’ processuale non puo’ essere individuata in riferimento ad una formulazione terminologica da parte del Tribunale – che, seppure impropriamente, aveva parlato di precisazione dell’imputazione qualora, come verificatosi nel caso in esame, la successione procedimentale, oltre che la intrinseca attivita’ posta in essere dal pubblico ministero, chiaramente evidenziavano la sussistenza della contestazione suppletiva della circostanza aggravante di cui all’articolo 476 c.p., comma 2, seguita dalla individuazione di un termine agli imputati per poter controdedurre.
Senza alcun dubbio, poi, come ricordato dalla motivazione della sentenza della Corte EDU Drassich c. Italia del 11/12/2007, “Le disposizioni dell’articolo 6 § 3 a) non impongono alcuna forma particolare per quanto riguarda il modo in cui l’imputato deve essere informato della natura e del motivo dell’accusa formulata nei suoi confronti. Esiste peraltro un legame tra i commi a) e b) dell’articolo 6 § 3, e il diritto di essere informato della natura e del motivo dell’accusa deve essere considerato alla luce del diritto per l’imputato di preparare la sua difesa (Pelissier e Sassi c. Francia gia’ cit., §§ 52-54). Se i giudici di merito dispongono, quando tale diritto e’ loro riconosciuto nel diritto interno, della possibilita’ di riqualificare i fatti per i quali sono stati regolarmente aditi, essi devono assicurarsi che gli imputati abbiano avuto l’opportunita’ di esercitare i loro diritti di difesa su questo punto in maniera concreta ed effettiva. Cio’ implica che essi vengano informati in tempo utile non solo del motivo dell’accusa, cioe’ dei fatti materiali che vengono loro attribuiti e sui quali si fonda l’accusa, ma anche, e in maniera dettagliata, della qualificazione giuridica data a tali fatti”.
In tal senso, quindi, la sequenza procedimentale delineata dal codice di rito con riferimento alle disposizioni di cui agli articoli 516 c.p.p. e segg., appare del tutto compatibile con i principi della Carta EDU, peraltro genericamente richiamati nei motivi di ricorso, considerato che la giurisprudenza della Corte di Strasburgo non ha mai ravvisato alcuna violazione dei principi appena richiamati da parte di istituti degli ordinamenti interni quale la contestazione suppletiva.
Quanto al diritto alla prova scaturente dalla contestazione di una circostanza aggravante, ai sensi dell’articolo 517 c.p.p., senza alcun dubbio l’ampliamento dell’imputazione originaria determina l’ampliamento del thema probandum, ma altrettanto pacificamente il diritto alla prova riconosciuto alla parte risente degli stessi limiti fissati per la fase degli atti preliminari al dibattimento, ai sensi dell’articolo 495 c.p.p., comma 2, potendo, pertanto, essere negato in caso di prove manifestamente superflue o irrilevanti, secondo il vaglio previsto dall’articolo 190 c.p.p. (Sez. 6, sentenza n. 8131 del 05/06/2000, Pinto, Rv. 216926). Nel caso di specie, come visto, il Tribunale, all’udienza del 03/11/2016, aveva ritenuto genericamente dedotte le richieste di prove avanzate dalla difesa del solo imputato (OMISSIS), consistenti nella richiesta di ammissione di due testi “per riferire in ordine a circostanze utili in relazione al capo di imputazione e, in particolare, sulla tenuta dei registri di classe”; orbene, detta richiesta difensiva non puo’ che essere qualificata come assolutamente generica e manifestamente superflua, atteso che la motivazione del Tribunale, ancorche’ stringata, evidenzia come il risultato conoscitivo, cui la richiesta prova testimoniale tendeva, appariva del tutto inconferente, posto che la contestazione suppletiva aveva riguardo alla natura fidefacente dei registri di classe, e non certamente alle modalita’ di tenuta degli stessi, con la conseguenza che l’apporto conoscitivo dei testi appariva chiaramente del tutto fuori fuoco rispetto alla qualificazione dei documenti stessi, derivante da una ricostruzione normativa della funzione dei documenti stessi e della loro provenienza da soggetto qualificato.
2.2. Quanto alla possibilita’ che la contestazione suppletiva di una circostanza aggravante possa influire sul calcolo della prescrizione, va ricordato come sia stato affermato da questa Corte regolatrice il principio secondo cui “Ai fini della determinazione del tempo necessario a prescrivere, l’aumento di pena per la circostanza aggravante e’ valutabile anche se la stessa sia stata oggetto di contestazione suppletiva dopo la decorrenza del termine di prescrizione previsto per il reato non aggravato, purche’ la contestazione abbia preceduto la pronuncia della sentenza.” (Sez. 5, sentenza n. 26822 del 23/03/2016, Scanu ed altri, Rv. 267892, in riferimento alla contestazione della circostanza aggravante di cui alla L. Fall., articolo 219, comma 1; Sez. 2, sentenza n. 33871 del 02/07/2010, P.G., P.M. e P.C. in proc. Dodi ed altro, Rv. 248131, in riferimento alla contestazione delle circostanze aggravanti di cui all’articolo 644 c.p., commi 3 e 4; Sez. 6, sentenza n. 44591 del 04/11/2008, P.M. in proc. Nocco ed altri, Rv. 242133, in tema di contestazione della circostanza aggravante della recidiva; Sez. 6, sentenza n. 40627 del 16/10/2008, P.M. in proc. Bozzaotra, Rv. 241488; Sez. 5, sentenza n. 9769 del 19/10/2005, dep. 21/03/2006, Sbrana, Rv. 234225, sempre in tema di contestazione della recidiva).
Analizzando l’evoluzione giurisprudenziale sul tema, va ricordato che la sentenza Sbrana, citata, aveva affermato che, contrariamente a quanto affermato da altro, piu’ risalente filone giurisprudenziale, l’aumento per la recidiva fosse valutabile ai fini della prescrizione, anche se la recidiva era stata contestata per le prima volta dopo trascorso il termine di prescrizione previsto per l’imputazione non aggravata, purche’ la contestazione preceda la pronuncia della sentenza.
Cio’ in quanto – come si legge dalla motivazione della sentenza Sbrana – la recidiva e’ una circostanza inerente alla persona del colpevole, che esiste gia’ nel momento in cui viene commesso il reato, per cui “si tratta di una condizione personale del colpevole certamente preesistente alla contestazione, come ha rilevato autorevole dottrina, che viene portata a conoscenza dell’imputato con la contestazione quando il Giudice da quella condizione gia’ esistente intenda far derivare effetti penali. Quindi quando l’Autorita’ Giudiziaria con il decreto di citazione diretta contesta formalmente un delitto compie per cosi’ dire una funzione ricognitiva dell’esistente perche’ porta a conoscenza dell’imputato il fatto – reato attribuitogli con le relative aggravanti oltre alle situazioni personali che possono comportare, come e’ per il caso della recidiva, un aggravamento della pena”.
In sostanza, il ragionamento seguito dalla sentenza citata si fonda sulla constatazione secondo la quale “se e’ vero che le aggravanti per essere ritenute dal Giudice debbono essere ritualmente contestate, e’ anche vero che esse preesistono alla contestazione formale e debbono obbligatoriamente essere contestate”.
Detto criterio ermeneutico si fonda sulla constatazione della realta’ fenomenica del fatto-reato che, come evento storico, prima ancora ed a prescindere dalla valutazione della sua rilevanza penale, e’ connotato da componenti strutturali che appartengono alla sfera ontologica della vicenda, a prescindere, quindi, dalla loro considerazione o meno nella sfera del diritto penale e, pertanto, anche dal momento in cui detta rilevazione viene effettuata.
Le circostanze, in quanto componenti della morfologia del fatto-reato nella sua collocazione fenomenica, appartengono al tessuto caratterizzante il fatto tipico nella sua specifica individuazione originaria, indipendentemente dal momento in cui esse divengono in concreto rilevanti per l’ordinamento penale; detto momento, anzi, e’ del tutto indifferente rispetto alla struttura fenomenica in se’ considerata, e non incide affatto su di essa, con la conseguenza che la rilevazione di una circostanza da parte del sistema penal-processuale non puo’ che essere considerata un’attivita’ meramente ricognitiva.
Cio’ non puo’ che valere per tutte le tipologie di circostanze, anche con riferimento a quelle inerenti alla persona del colpevole, atteso che l’ordinamento non opera alcuna differenziazione del regime giuridico tra le diverse tipologie di circostanze aggravanti per quanto riguarda il profilo in esame, relativo all’incidenza della prescrizione rispetto al momento della contestazione formale.
Ne consegue che il decorso del termine prescrizionale prima della contestazione formale e’ meramente apparente, dovendosi tenere conto ai fini del calcolo del termine prescrizionale di tutte le circostanze del reato che, pur essendo preesistenti alla contestazione, vengano soltanto con essa portate a conoscenza dell’imputato.
Il Collegio non ignora l’esistenza di un diverso orientamento ermeneutico sull’aspetto in esame, essendo stato affermato, infatti, in tema di recidiva, che la natura costitutiva della contestazione della circostanza aggravante non consente di tener conto, ai fini del calcolo dei termini di prescrizione, dell’aumento di pena derivante dalla recidiva medesima, ove questa non sia stata contestata prima dello spirare del tempo necessario a prescrivere il reato nella forma non aggravata (Sez. 6, sentenza n. 47499 del 22/09/2015, Bolici, Rv. 265560; Sez. 3, sentenza n. 14439 del 30/01/2014, P.G. in proc. Resmini Bellotti, Rv. 258734).
Tuttavia la motivazione delle citate sentenze non appare affatto convincente; essa si basa, infatti, sulla natura “costitutiva” della recidiva, che non e’ un mero status soggettivo desumibile dal certificato penale ovvero dal contenuto dei provvedimenti di condanna emessi nei confronti di una persona, sicche’ essa, per produrre effetti penali, deve essere ritenuta dal giudice del processo di cognizione dopo una sua regolare contestazione in tale sede. Tale aspetto, peraltro condivisibile, in realta’ finisce per confondere i due piani del discorso, del tutto diversi tra loro, altra essendo l’implicazione della natura “costitutiva” della recidiva, che, per poter produrre effetti penali, deve essere contestata, alla stregua, peraltro, di qualsivoglia circostanza aggravante, rispetto alle conseguenze sul piano della prescrizione, una volta che tale contestazione sia intervenuta.
Ed infatti la natura costitutiva della circostanza aggravante della recidiva significa che essa debba essere oggetto di una specifica contestazione da parte del pubblico ministero in funzione dei diritti della difesa dell’imputato, non potendo essere applicata direttamente dal Giudice sulla scorta dei precedenti penali, ma non implica affatto che essa assuma rilevanza anche sotto l’aspetto ontologico unicamente per effetto della contestazione. Quest’ultima, infatti, per la recidiva come per le circostanze aggravanti in generale, ha natura ricognitiva, dimostrativa, cioe’, della scelta, da parte della pubblica accusa, di attribuire rilevanza ad una condizione soggettiva preesistente dell’imputato ovvero ad una connotazione specifica del fatto-reato, cui corrisponde una facolta’ di scelta da parte del Giudice, di ritenere o meno rilevante, dal punto di vista delle conseguenze in termini di determinazione della pena, la contestazione stessa, nonche’, specularmente, le facolta’ previste per l’imputato in funzione dell’esercizio della propria difesa.
Proprio il regime di facoltativita’ della recidiva, quindi, sia in riferimento alla contestazione che in riferimento all’applicazione della stessa, rende evidente come essa costituisca una condizione del soggetto, la cui rilevanza e’ frutto di una scelta discrezionale sia nella fase del suo riconoscimento che nella fase della sua applicazione.
Ne discende, quindi, che il profilo inerente la modalita’ con cui la recidiva assume rilevanza in riferimento al fatto-reato, ossia la contestazione, non puo’ essere confuso con le conseguenze che da detta contestazione derivano, una volta che la stessa sia legittimamente intervenuta, proprio perche’ essa si riferisce ad un fenomeno preesistente, inerente una condizione personale del soggetto, con la conseguenza che il fenomeno dell’incidenza sui termini di prescrizione non puo’ che essere ricollegato alla preesistenza della condizione soggettiva medesima.
Non a caso, infatti, le sentenze citate non hanno approfondito in maniera adeguata i due diversi piani in esame, basandosi, essenzialmente, su citazioni di giurisprudenza estremamente risalente.
Per le altre circostanze aggravanti, con particolare riferimento a quelle che riguardano il reato come vicenda storica, di cui le circostanze stesse costituiscono altrettanti componenti fattuali specifiche, tipizzanti il substrato fattuale, vale lo stesso discorso sin qui illustrato.
Cio’, per altro verso, risulta confermato dalla recente pronuncia delle Sezioni Unite, sentenza n. 24906 del 18/04/2019, Sorge, RV. 275436, secondo cui “In tema di reato di falso in atto pubblico, non puo’ ritenersi legittimamente contestata, si’ che non puo’ essere ritenuta in sentenza dal giudice, la fattispecie aggravata di cui all’articolo 476 c.p., comma 2, qualora nel capo d’imputazione non sia esposta la natura fidefacente dell’atto, o direttamente, o mediante l’impiego di formule equivalenti, ovvero attraverso l’indicazione della relativa norma”.
Detta pronuncia, come noto, si e’ occupata del profilo concernente l’ammissibilita’ o meno di una contestazione in fatto della circostanza aggravante prevista dall’articolo 476 c.p., comma 2, ove per “contestazione in fatto” “si intende una formulazione dell’imputazione che non sia espressa nell’enunciazione letterale della fattispecie circostanziale o nell’indicazione della specifica norma di legge che la prevede, ma riporti in maniera sufficientemente chiara e precisa gli elementi di fatto che integrano la fattispecie, consentendo all’imputato di averne piena cognizione e di espletare adeguatamente la propria difesa sugli stessi (Sez. 1, n. 51260 del 08/02/2017, Archinito, Rv. 271261; Sez. 6, n. 4461 del 15/12/2016, dep. 2017, Quaranta, Rv. 269615; Sez. 2, n. 14651 del 10/01/2013, Chatbi, Rv. 255793; Sez. 6, n. 40283 del 28/09/2012, Diaji, Rv. 253776; Sez. 5, n. 38588 del 16/09/2008, Fornaro, Rv. 242027)”.
Sotto l’aspetto che rileva nella presente sede, quindi, detta pronuncia – che ha escluso la possibilita’ che la contestazione della circostanza aggravante di cui all’articolo 476 c.p., comma 2, possa essere ritenuta in sentenza dal Giudice, se non preceduta da una contestazione idonea e valida, in riferimento tanto alla correlazione fra l’accusa e la decisione quanto alla concreta possibilita’ per l’imputato di difendersi in riferimento all’oggetto dell’addebito – non appare affatto contraddetta dalla sequenza procedimentale in esame, essendo, nel caso di specie, intervenuta, all’udienza del 29/09/2016, la contestazione suppletiva, ai sensi dell’articolo 517 c.p.p., della circostanza aggravante di cui all’articolo 476 c.p., comma 2.
La sentenza Sorge, citata, sotto detto profilo, ha, infatti, affermato il principio della necessita’ di una specifica contestazione della circostanza aggravante, ma non ha affatto limitato le sequenze procedimentali e le scansioni processuali, come previste dal codice di rito, attraverso le quali l’imputato possa essere messo in condizione di conoscere specificamente la contestazione della circostanza aggravante ed esercitare i propri diritti difensivi.
3. Natura di documento pubblico fidefacente del registro di classe e del registro dei professori.
La qualificazione dei documenti oggetto di imputazione ai sensi dell’articolo 476 c.p., comma 2, – che individua la pena edittale nella reclusione da tre a dieci anni nel caso in cui la falsita’ concerna, in tutto o in parte, un atto che faccia fede fino a querela di falso – non puo’ che partire dalla ricognizione della definizione di atto pubblico.
Come noto, il codice penale non determina in alcun modo il concetto di atto pubblico, individuando, invece, la nozione di pubblico ufficiale e di incaricato di un pubblico servizio, agli articoli 357 e 358 c.p.p..
La definizione e la efficacia dell’atto pubblico, invece, sono individuate, rispettivamente, dall’articolo 2699 c.c. – secondo il quale “L’atto pubblico e’ il documento redatto, con le richieste formalita’, da un notaio o da altro pubblico ufficiale autorizzato ad attribuirgli pubblica fede nel luogo dove l’atto e’ formato.” – e dall’articolo 2700 c.c. – a norma del quale “L’atto pubblico fa piena prova, fino a querela di falso, della provenienza del documento dal pubblico ufficiale che lo ha formato, nonche’ delle dichiarazioni delle parti e degli altri fatti che il pubblico ufficiale attesta avvenuti in sua presenza o da lui compiuti”.
In riferimento alla delimitazione dell’ambito operativo della circostanza aggravante di cui all’articolo 476 c.p., comma 2, l’orientamento di questa Corte regolatrice puo’ essere ritenuto incontestato in riferimento al principio secondo cui, in tema di falso ideologico in atto pubblico, aggravato ai sensi della norma citata, sono documenti dotati di fede privilegiata solo quelli che, emessi da pubblico ufficiale autorizzato dalla legge, da regolamenti oppure dall’ordinamento interno della P.A. ad attribuire all’atto pubblica fede, attestino quanto da lui fatto e rilevato o avvenuto in sua presenza (Sez. 3, sentenza n. 15764 del 13/12/2017, dep. 09/04/2018, Adinolfi ed altro, Rv. 272589; Sez. 5, sentenza n. 39682 del 04/05/2016, Franchi, Rv. 267790; Sez. 6, sentenza n. 24768 del 31/03/2016, P.G. ed altri in proc. Caruso ed altri, RV. 267316; Sez. 6, sentenza n. 25258 del 12/03/2015, Guidi, Rv. 263806; Sez. 5, sentenza n. 15951 del 16/01/2015, Bandettini, Rv. 263265; Sez. 5, sentenza n. 48738 del 14/10/2014, Moramarco, Rv. 261298; Sez. 1, sentenza n. 49086 del 24/05/2012, Acanfora, Rv. 253959).
Il filone ermeneutico consolidatosi nella giurisprudenza di questa Corte di legittimita’, quindi, puo’ essere sintetizzato dalla massima secondo cui “In tema di falso ideologico in atto pubblico aggravato ex articolo 476 c.p., comma 2, sono documenti dotati di fede privilegiata quelli che, emessi da pubblico ufficiale autorizzato dalla legge, da regolamenti oppure dall’ordinamento interno della P.A. ad attribuire all’atto pubblica fede, attestino quanto da lui fatto e rilevato o avvenuto in sua presenza. Ne consegue che la natura di atto pubblico di fede privilegiato necessita del concorso di un duplice requisito: a) la provenienza da un pubblico ufficiale autorizzato dalla legge, da regolamenti oppure dall’ordinamento interno della p.a. ad attribuire all’atto pubblica fede; b) l’attestazione del p.u. di verita’ circa i fatti da lui compiuti o avvenuti in sua presenza e della formazione dell’atto nell’esercizio del potere di pubblica certificazione.” (Sez. 5, sentenza n. 2714 del 04/10/2016, dep. 20/01/2017, Dragotta ed altri, Rv. 269049; Sez. 5, sentenza n. 48738 del 14/10/2014, P.G. in proc. Moramarco ed altri, Rv. 261298).
Puo’ quindi individuarsi, nell’ambito degli atti pubblici aventi fede privilegiata, un primo livello – per cosi’ dire fisiologico – di forza probante privilegiata, circoscritto alla provenienza del documento dal pubblico ufficiale che lo ha formato e relativo unicamente a quei fatti che il pubblico ufficiale attesta avvenuti in sua presenza o da lui compiuti, ed un secondo livello, riguardante, invece, la valutazione di tali fatti, che non gode invece della forza probante privilegiata, a meno che la legge non attribuisca al pubblico ufficiale il potere di valutare i fatti stessi con valore legale (Sez. 5, n. 4339 del 10/02/1984, Manarin, Rv. 164130; Sez. 2, sentenza n. 1417 del 11/10/2012, dep. 11/01/2013, Platamone, Rv. 254305; Sez. 5, sentenza n. 49025 del 12/11/2004, Margarino, Rv. 231284).
Cio’ in quanto, nel caso in cui il pubblico ufficiale, chiamato ad esprimere un giudizio, sia libero anche nella scelta dei criteri di valutazione, la sua attivita’ e’ assolutamente discrezionale e, come tale, il documento che contiene il giudizio non puo’ essere destinato a provare la verita’ di alcun fatto. Diversamente, se l’atto da compiere fa riferimento anche implicito a previsioni normative che dettano criteri di valutazione, si e’ in presenza di un esercizio di discrezionalita’ tecnica, che vincola la valutazione ad una verifica di conformita’ della situazione fattuale a parametri predeterminati, sicche’ l’atto potra’ risultare falso se detto giudizio di conformita’ non sara’ rispondente ai parametri cui esso e’ implicitamente vincolato.
La giurisprudenza di questa Corte, con espresso riferimento al registro di classe ed al registro dei professori, non ha mai affrontato ex professo il profilo concernente la qualificazione del falso ai sensi dell’articolo 476 c.p., comma 2, limitandosi a qualificare come atto pubblico il registro di classe; cio’ in quanto, del tutto evidentemente, alla luce delle motivazioni dei precedenti in esame, il predetto profilo, qui rilevante, non costituiva oggetto di trattazione in riferimento ai motivi di ricorso posti a fondamento delle citate pronunce (Sez. 5, sentenza n. 13769 del 21/11/2012, dep. 22/03/2013, Felli ed altro, Rv. 255451, secondo cui “In tema di reati contro la fede pubblica, costituisce atto pubblico il registro di classe di una scuola, con conseguente configurabilita’ del reato di cui all’articolo 479 c.p. in caso di falsa annotazione in esso della presenza di un alunno.”; Sez. 5, sentenza n. 9793 del 23/02/2006, Boccia ed altri, Rv. 234238, che ha ritenuto sussistente il delitto di cui all’articolo 479 c.p. nel caso di un docente di un centro studi, legalmente riconosciuto, che aveva attestato falsamente la regolare frequenza di studenti di altri istituti privati alle lezioni, frequenza che consentiva di presentarsi agli esami finali per il conseguimento del diploma di Stato come alunni interni del predetto centro studi, avendo, in particolare, omesso di indicare le assenze nei registri di classe, considerato che il professore di un istituto legalmente riconosciuto riveste la qualita’ di pubblico ufficiale, in quanto l’insegnamento e’ pubblica funzione e le scuole secondarie private sono equiparate alle scuole pubbliche dalla L. 19 gennaio 1942, n. 86 e i registri di classe di una scuola legalmente riconosciuta rivestono parimenti natura di atto pubblico; Sez. 5, sentenza n. 790 del 13/11/1996, dep. 04/02/1997, Zaro ed altro, Rv. 208196, secondo cui “Ha natura di atto pubblico il registro di classe, che, pur non identificandosi con il registro del professore, costituisce dotazione obbligatoria in ciascuna classe ed e’ destinato a fornire la prova di fatti giuridicamente rilevanti e a documentare avvenimenti relativi all’amministrazione scolastica e in particolare a far fede erga omnes, quale attestazione di verita’, dell’attivita’ svolta in classe dall’insegnante.”).
Cio’ che emerge dalla lettura delle pronunce da ultimo indicate consente, in ogni caso, di individuare alcuni assunti pacificamente affermati in riferimento allo svolgimento dell’attivita’ di insegnamento ed al riflesso che detto inquadramento determina sul regime giuridico degli atti emessi nell’esercizio di detta funzione. In particolare: la indiscutibile qualificazione di pubblica funzione dell’insegnamento, come peraltro emerge chiaramente dagli articoli 33 e 34 Cost.; l’equiparazione alle scuole pubbliche delle scuole secondarie private riconosciute, ai sensi della L. n. 86 del 1942 e, quindi, la qualifica di pubblico ufficiale del docente di un istituto privato parificato ad un istituto pubblico.
Detto inquadramento, per la verita’, risulta del tutto incontestato anche da parte della difesa degli imputati.
Tanto premesso, quindi, non puo’ che attribuirsi natura di fede privilegiata al contenuto dei registri di classe e dei registri dei professori, oggetto delle imputazioni in esame, per cio’ che concerne la provenienza dei detti documenti da insegnanti di una scuola pubblica o ad essa equiparata, quindi da pubblici ufficiali, in relazione a quei fatti che il pubblico ufficiale attesta essere avvenuti in sua presenza o essere da lui compiuti, come tali dovendosi qualificare, all’evidenza, le attestazioni concernenti la presenza, la frequenza degli alunni e lo svolgimento dell’attivita’ didattica.
In realta’, occorre considerare che l’individuazione dell’oggettivita’ giuridica tutelata dai delitti di falso – tradizionalmente individuata con la fede pubblica risente, indiscutibilmente, dell’astrazione concettuale sottesa alla predetta nozione, tant’e’ che si e’ tentato, da parte della dottrina, sia di inquadrare i reati di falso come reati plurioffensivi, richiedendo, quindi, la lesione di un interesse ulteriore rispetto alla fede pubblica, sia di individuare nell’efficacia probatoria delle rappresentazioni tutelate l’oggetto giuridico dei reati di falso.
Senza entrare nel merito delle accennate analisi dottrinali – peraltro entrambe ritenute insoddisfacenti da altra, piu’ recente dottrina -, va osservato che la crescente complessita’ della societa’ in cui viviamo ed operiamo, ed il moltiplicarsi di strumenti di comunicazione di fonte spesso incerta e, sempre piu’ di frequente, opaca, rende crescente l’esigenza di tutelare l’affidabilita’ dell’informazione pubblica e la capacita’ rappresentativa dei veicoli comunicativi in cui essa si estrinseca. Da cio’ – come dimostra, in particolare, l’evoluzione della categoria dei reati di falso ed il loro autonomo identificarsi in categoria, differenziandosi rispetto alle modalita’ esecutive delle aggressioni fraudolente al patrimonio deriva che la funzione rappresentativa di un documento costituisce un bene giuridicamente rilevante e meritevole di tutela, a prescindere dalla sua valenza probatoria e, quindi, a prescindere dall’accertamento giudiziale della sua falsita’ con il subprocedimento incidentale accertativo predisposto a tal fine dall’ordinamento giuridico civilistico.
La sussistenza di un falso presuppone un enunciato idoneo ad assumere un significato descrittivo o constatativo non corrispondente ai fatti, tenendo presente che, ovviamente, il significato degli enunciati puo’ essere plurimo, in dipendenza dall’uso che se ne fa e, soprattutto, dal contesto normativo in cui essi si collocano. Una struttura linguistica, inoltre, puo’ assumere diversi significati in riferimento non solo alla diversita’ dei contesti sociali o normativi in cui si colloca, ma anche in riferimento al medesimo contesto, allorquando, cioe’, il significato linguistico di un enunciato non corrisponde a quello pragmatico, ossia all’uso che se ne fa nel contesto della comunicazione.
Appare quindi evidente come, in relazione agli enunciati linguistici che si pongono come rappresentativi di fatti di particolare pregnanza per l’ordinamento giuridico – ossia ricollegabili all’esercizio di funzioni pubblicistiche rilevanti a livello di valori costituzionalmente tutelati – l’interesse che vi sia una perfetta aderenza tra il significato che l’enunciato assume in concreto e la struttura linguistica che lo rappresenta si riflette sulla valenza attribuita a quegli enunciati; in quanto provenienti da soggetti particolarmente qualificati e preposti alla comunicazione di quegli enunciati, caratterizzanti ed essenziali in riferimento al corretto esercizio della funzione a cui sono ricollegati, essi sono, per tale ragione, connotati dal massimo livello di affidabilita’ ed attendibilita’, in tal senso, quindi, dovendosi intendere il concetto di fede pubblica attribuito dalle varie fonti alle attestazioni del pubblico ufficiale di verita’ circa i fatti da lui compiuti o avvenuti in sua presenza in riferimento alla formazione di atti rappresentativi e caratterizzanti la pubblica funzione.
Cio’, peraltro, nel caso in esame, risulta confermato dal Regio Decreto 30 aprile 1924, n. 965, articolo 41, secondo il quale “Ogni professore deve tenere diligentemente il giornale di classe, sul quale egli registra progressivamente, senza segni crittografici, i voti di profitto, la materia spiegata, gli esercizi assegnati e corretti, le assenze e le mancanze degli alunni.
In fin d’anno presenta una relazione sullo svolgimento e sui risultati del suo insegnamento”.
Il registro o giornale di classe rappresenta, quindi, la verbalizzazione dell’andamento e del rendimento dell’alunno nel corso dell’anno, secondo quanto caduto sotto la diretta percezione dell’insegnante; mentre la relazione finale si pone come propedeutica al giudizio che, a sua volta, si concretizza, in modo conclusivo, nella decisione che il Consiglio di classe assume alla fine di ciascun anno scolastico.
Detta disposizione e’ stata oggetto specifico della pronuncia di Sez. 5, sentenza n. 12862 del 21/09/1999, Beccattini MA ed altri, Rv. 214890, dalla cui motivazione puo’ concludersi che
devono essere indiscutibilmente qualificate come atto pubblico avente fede privilegiata tutte le attestazioni, riguardanti “attivita’ compiute dal pubblico ufficiale che redige l’atto di fatti avvenuti alla sua presenza o da lui percepiti”; natura che si ricava anche sotto il profilo di attestazioni rilevanti ed, anzi, essenziali nel procedimento amministrativo diretto al risultato dello scrutinio finale e della produzione di effetti rispetto a situazioni soggettive di rilevanza pubblicistica, quali il conseguimento del titolo di studio riconosciuto valido nell’ordinamento giuridico statale.
Appare evidente, in altri termini, alla luce delle considerazioni complessivamente illustrate, come la qualificazione della condotta descritta nei capi di imputazione sia stata correttamente inquadrata nella fattispecie aggravata di cui all’articolo 479 c.p., articolo 476 c.p., comma 2.
Coerentemente con detta impostazione, inoltre, va ricordato che anche la giurisprudenza amministrativa qualifica i documenti in esame come atti fidefacenti (Consiglio di Stato sez. VI, 10/12/2015, n. 5613, secondo cui “I registri degli insegnanti sono atti pubblici aventi fede privilegiata, le cui risultanze possono essere poste in discussione soltanto a seguito di eventuale querela di falso; e va rimarcato che eventuali vizi o irregolarita’ nella tenuta dei registri degli insegnanti non possono riflettersi sulla legittimita’ del giudizio finale posto che i registro medesimo rappresenta una mera verbalizzazione dell’andamento e del rendimento dell’alunno nel corso dell’anno; mentre il giudizio si concretizza, poi, in modo conclusivo, nella decisione che il Consiglio di classe assume al termine di ciascun anno scolastico”; TAR Puglia, Lecce, sez. 2, ud. 13/06/2018, dep. 26/06/2018, n. 1071; TAR Sardegna, Cagliari, 17/06/2002, n. 705, che hanno affermato come dalla natura di atto pubblico del registro, che fa prova di quanto in esso attestato fino a querela di falso, discende che l’eventuale falsita’ dei registri potra’ rilevare solo a seguito dell’espletamento del giudizio disciplinato dall’articolo 221 c.p.c.).
Quanto al profilo che in questa sede piu’ specificamente rileva, come gia’ osservato in precedenza, va ribadito che non vi e’ alcun dubbio che al personale docente ed al preside di un istituto privato parificato competa la qualifica di pubblico ufficiale, poiche’ l’insegnamento che si svolge in tali enti e’ impartito in seguito a speciale autorizzazione dello Stato e sotto la vigilanza del Ministero della pubblica istruzione, con la conseguenza che, seppure il riconoscimento da parte dello Stato non possa trasformare in pubblica una scuola privata, vale pero’ ad attribuire all’attivita’ di insegnamento compiuta dalla stessa, ed ai titoli da essa rilasciati, lo stesso valore dell’insegnamento e dei titoli della scuola pubblica, il che conferma e giustifica l’attribuzione della qualifica di pubblico ufficiale al personale predetto (Sez. 6, sentenza n. 8726 del 07/02/1989, Grismani, Rv. 181596; Sez. 6, sentenza n. 2294 del 07/11/1985, dep. 20/03/1986, Di Mari, Rv. 172192).
Quanto alla fonte normativa che prevede detta parificazione, come noto, essa va individuata, senza alcun dubbio, nella L. 19 gennaio 1942, n. 86 (Sez. 5, sentenza n. 38466 del 22/07/2015, Todaro Annamaria ed altro, Rv. 264921; Sez. 5, sentenza n. 9793 del 23/02/2005, Boccia ed altri, Rv. 234238, con specifico riferimento alle attestazioni contenute nei registri di classe; Sez. 5, sentenza n. 3004 del 13/01/1999, Thaler W. ed altro, Rv. 212937; Sez. 5, sentenza n. 12862 del 21/09/1999, Becattini ed altri, Rv. 214890; Sez. 5, sentenza n. 2492 del 19/11/1998, dep. 25/02/1999, Boccia R.R. ed altri, Rv. 212814).
Quanto alla differenza tra il registro di classe ed il giornale del professore, il primo e’ disciplinato dal Regio Decreto n. 965 del 1924, articolo 41; come detto, in esso vengono depositate le firme dei professori, le assenze, le giustificazioni degli alunni, i compiti assegnati, i lavori svolti e i dati generali degli alunni, ed ha la funzione di annotare i provvedimenti disciplinari, i compiti assegnati e il programma scolastico svolto dai docenti in ogni singola giornata, le assenze degli alunni e le giustificazioni. Insieme al giornale del professore attesta, inoltre, la presenza dei docenti in classe. Il registro di classe e’ visionabile da tutti gli alunni della classe. Il giornale del professore o registro del professore e’ un documento cartaceo in dotazione ad ogni singolo insegnante, nel quale si annotano assenze e valutazioni relative ad ogni alunno nella propria materia.
Entrambi i detti documenti, quindi, non possono che essere equiparati nella valutazione normativa quali strumenti provenienti entrambi da un pubblico ufficiale ed in grado di attestare fatti, episodi e situazioni riguardanti la vita comportamentale degli alunni sia all’interno della propria classe che dell’istruzione scolastica in generale.
In tal senso deve essere ricordata la motivazione della sentenza Sez. 5, n. 12962 del 21/09/1999, Becattini MA ed altri, Rv. 214890, gia’ citata, secondo cui:
“Premesso che nessuno dei ricorsi contesta la qualita’ di pubblico ufficiale ai sensi dell’articolo 357 c.p. del preside e degli insegnanti di istituto di istruzione parificato (correttamente affermata dai giudici di merito in relazione alle funzioni da essi esercitate), la Corte osserva che il registro personale del professore e’ espressamente previsto dall’articolo 48 (rectius 41) del fondamentale Regio Decreto 30 aprile 1924, n. 965 con l’indicazione di giornale di classe che deve essere tenuto da ogni professore (giurisprudenza sostanzialmente costante, fra tante Sez. VI 9.4.84 N. 4127, Barberis + 2; Sez. V 6.7.83 N. 8498, Fedele + 1; ad colorandum la stessa C.M., circolare ministeriale, 252/78 punto cinque richiamato dalla menzionata sentenza N. 3004/99 parla espressamente delle registrazioni che ogni docente e’ tenuto a compiere sul giornale di classe comunemente chiamato registro personale del professore), ed e’ diverso dal diario di classe che riguarda l’intera classe e sul quale si succedono le attestazioni del professori delle, varie materie che espletano i loro compiti in quel determinato giorno, registro in dotazione obbligatoria a ciascuna classe e incontestabilmente per costante giurisprudenza atto pubblico. Nel giornale di classe Regio Decreto 30 aprile 1924, n. 965, ex articolo 41 (quindi registro personale del professore) debbono essere registrati … voti, la materia spiegata, gli esercizi assegnati e corretti, le assenze e le mancanze degli alunni; indiscutibile, quindi, la natura di atto pubblico di tutte le attestazioni di cui sopra riguardanti attivita’ compiute dal pubblico ufficiale che redige l’atto di fatti avvenuti alla sua presenza o da lui percepiti’ (S. 0.10.10.81, Di Carlo); ma indiscutibile detta natura anche sotto il profilo di attestazioni rilevanti ed anzi essenziali nel procedimento amministrativo diretto al risultato finale dello, scrutinio finale, e della produzione di effetti rispetto a situazioni soggettive di rilevanza pubblicistica quali il conseguimento del titolo di studio riconosciuto valido nell’ordinamento giuridico statale. Ed infatti e’ il registro personale del professore che consente a questi (o a chi per necessita’ lo debba sostituire) di riferire nel consiglio dei professori in sede di scrutinio e fornire indicazioni e fare proposte (Regio Decreto 4 maggio 1925, n. 653, articoli 77 e sgg.) in ordine alla valutazione dell’alunno, indicazioni tra le quali sicuramente rilevante e’ quella delle assenze relative alla materia insegnata dal professore non rilevando in contrario che attraverso un laborioso esame del diario di classe o di altri registri possa giungersi allo stesso risultato di conoscenza del numero delle assenze in quella determinata materia”.
Sulla scorta di detto percorso ermeneutico la sentenza citata concludeva per la qualificazione di falso in atto pubblico in ordine a tutte le imputazioni, sia quelle relative alle false attestazioni nel diario di classe che quelle del registro personale del professore.
In realta’, come si evince dalla motivazione della sentenza appena citata, nelle disposizioni normative sembra esservi un sovrapposizione tra i registri indicati, come si evince dal fatto che il Regio Decreto 30 aprile 1924, n. 965, articolo 41 reca l’indicazione “giornale di classe”, mentre il punto 5 della circolare ministeriale n. 252 del 18/10/1978, relativo al “registro personale del docente”, sembra sovrapporre i due concetti.
Cio’ che, tuttavia, rileva in questa sede e’ l’assimilazione ad un’unica categoria concettuale delle annotazioni provenienti dal docente, nella sua qualita’ di pubblico ufficiale, delle attivita’ da lui compiute o dei fatti avvenuti alla sua presenza o da lui percepiti.
Nessuna rilevanza, quindi, puo’ essere attribuita alle argomentazioni difensive, basate sulla valutazione operata da altra Autorita’ Giudiziaria e cristallizzata in un provvedimento di archiviazione, la cui valenza non puo’ che essere in questa sede assolutamente recessiva a fronte di quanto emerso all’esito di un iter processuale articolatosi in due gradi di giudizio di merito.
Prive di pregio appare anche il richiamo al Decreto Legislativo n. 85 del 2005, in quanto occorre ricordare, su questo tema, che il Decreto Legge n. 95 del 2012, convertito con modificazioni dalla L. 7 agosto 2012, n. 135, aveva introdotto, per le istituzioni scolastiche e i docenti, l’obbligo di dotarsi di registro elettronico a decorrere dall’anno scolastico 2012-2013, prevedendo che il Ministero di Istruzione, Universita’ e Ricerca predisponesse entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del decreto un piano per la dematerializzazione delle procedure amministrative in materia di istruzione, universita’ e ricerca e dei rapporti con le comunita’ dei docenti, del personale, studenti e famiglie; detto piano non risulta essere stato predisposto, vanificando di fatto il processo normativo e, dunque, rendendo non obbligatorio l’utilizzo del registro e pagelle elettroniche, con conseguente coesistenza, nella pratica, di entrambe le forme di registri, quella cartacea e quella elettronica.
Le funzioni del registro di classe, infine, sono richiamate anche dal Decreto Ministeriale 5 maggio 1993 e dalla successiva Decreto Ministeriale 2 agosto 1996, n. 236; il primo insiste sulla natura funzionale del documento, definito come mezzo per la estrinsecazione di attivita’, verifiche, esercitazioni, laboratori e quant’altro possa servire ad ogni docente del consiglio di classe per regolare o rimodulare la propria attivita’ didattica ed anche educativa sullo stesso ritmo degli altri docenti; la seconda contiene una elencazione utile della funzione ad esso attribuita, individuando la finalita’ del registro di classe in (Ndr: testo originale non comprensibile) “documentare gli aspetti amministrativi della vita di ciascuna classe” indicando che dalla sua tenuta sono responsabili i docenti (Ndr: testo originale non comprensibile), e specificando che esso riporta l’elenco ed i dati anagrafici degli alunni, le rispettive presenze ed assenza, i nominativi dei docenti che operano nella classe, gli ambiti disciplinari ad essi assegnati e l’orario delle attivita’ didattiche.
Non si comprende, quindi alla luce della funzione delle attestazioni contenute nel registro di classe e nel registro del professore, come potrebbe negarsi la natura degli stessi di atto pubblico con fede privilegiata, posto che in detta categoria devono farsi rientrare tutti i documenti che, formati dal pubblico ufficiale competente, siano destinati a provare un fatto giuridicamente rilevante del pubblico ufficiale stesso o da lui percepito od attuato.
In realta’, cio’ che va essenzialmente rimarcato in questa sede e’ come, soprattutto in epoca piu’ recente, la giurisprudenza di questa Corte regolatrice abbia affermato che il concetto di falso ai sensi dell’articolo 476 c.p., comma 2, vada disancorato da una lettura ricostruttiva dello stesso basata unicamente sulle disposizioni di cui agli articoli 2699 e 2700 c.c..
In tal senso va ricordata Sez. 5, sentenza (Ndr: testo originale non comprensibile) del 17/12/2018, dep. 24/01/2019, Esposito Domenico, Rv. 275415, secondo cui – in riferimento alla qualificazione di atto pubblico della relazione di servizio e dell’annotazione su registro modello 117 effettuate da un agente di Polizia penitenziaria – e’ stato affermato che “Il concetto di atto pubblico e’, agli effetti della tutela penale, piu’ ampio di quello desumibile dall’articolo 2699 c.c., dovendo rientrare in detta nozione non soltanto i documenti redatti da un notaio o da altro pubblico ufficiale autorizzato, ma anche quelli formati dal pubblico ufficiale o dal pubblico impiegato, nell’esercizio delle loro funzioni, per uno scopo diverso da quello di conferire ad essi pubblica fede, purche’ aventi l’attitudine ad assumere rilevanza giuridica e/o valore probatorio interno alla pubblica amministrazione”.
Detto filone ermeneutico, in realta’, risale ad al principio affermato da Sez. 5, sentenza n. 9358 del 24/04/1998, Tisato, Rv. 211440, la cui massima risulta del tutto conforme alla pronuncia piu’ recente, Esposito Domenico, citata.
In realta’, dalla motivazione di entrambe le sentenze emerge chiaramente come la distinzione tra atto pubblico dotato di fede privilegiata ed atto pubblico tout court vada individuata in riferimento non tanto ad una qualificazione in se’ dell’atto, ma, piuttosto, in relazione ad un’operazione piu’ complessa, in cui rileva il soggetto da cui proviene l’atto stesso e, contemporaneamente, la finalita’ dell’atto in riferimento alla funzione pubblica, di cui costituisce manifestazione, e per il raggiungimento dei cui fini la norma di riferimento disciplina l’atto stesso. In tal senso non puo’ che ricordarsi come le Sezioni Unite abbiano chiarito che “Ai sensi dell’articolo 357 c.p., come novellato dalle L. n. 86 del 1990 e L. n. 181 del 1992, la qualifica di pubblico ufficiale deve essere riconosciuta a quei soggetti che, pubblici dipendenti o semplici privati, quale che sia la loro posizione soggettiva, possono e debbono, nell’ambito di una potesta’ regolata dal diritto pubblico, formare e manifestare la volonta’ della pubblica amministrazione oppure esercitare, indipendentemente da formali investiture, poteri autoritativi, deliberativi o certificativi, disgiuntamente e non cumulativamente considerati” (Sez. U, sentenza n. 7958 del 27/03/1992, dep. 11/07/1992, Delogu, Rv. 191171). Da cio’, per l’appunto, consegue come nella nozione di atto pubblico rientrino non solo le attestazioni di fatti compiuti dal pubblico ufficiale o caduti sotto la sua diretta percezione nell’esercizio della specifica funzione attribuita dalla legge al pubblico ufficiale medesimo, che vanno qualificati senza alcun dubbio ai sensi dell’articolo 476 c.p., comma 2, ma anche quegli atti posti in essere al di fuori dell’esercizio specifico della funzione e, comunque, destinati ad assumere rilevanza giuridica e/o valore probatorio interno alla pubblica amministrazione, rilevanti ai sensi dell’articolo 476 c.p., comma 1. Ed in tal senso, infatti, la sentenza Tisato, citata, aveva affermato che “Sono atti pubblici, quindi, anche gli atti interni e quelli preparatori di una fattispecie documentale complessa, come la dichiarazione del privato al pubblico ufficiale”.
In realta’, deve osservarsi che la giurisprudenza, anche piu’ risalente, di questa Corte regolatrice, si e’ sempre espressa in maniera chiara sulla tematica in esame (Sez. 5, sentenza n. 268 del 10/02/1967, Margarone, Rv. 103943, secondo cui “Rientrano nella categoria degli atti pubblici, ai fini del reato di falso, tutti i documenti, sia pure di carattere interno, che, formati dal pubblico ufficiale competente, costituiscano o concorrano a costituire un diritto od un obbligo per taluno, oppure siano destinati a provare un fatto giuridicamente rilevante del pubblico ufficiale o da lui percepito od attuato. La sottoscrizione del registro delle presenze da parte dei singoli insegnanti di una scuola pubblica e’ destinata a costituire la attestazione di verita’ della loro presenza nella scuola stessa. Pertanto e indubbio che la relativa falsificazione integra tutti gli estremi del reato di falso ideologico in atto pubblico, previsto e punito dall’articolo 479 c.p. “; Sez. 5, sentenza n. 1120 del 11/07/1967, Quarantotto, Rv. 105579, secondo cui “Costituisce falsita’ in atto pubblico la falsificazione del giornale di classe o diario scolastico di un pubblico istituto (nella specie, scuola media unificata), in quanto tale documento, pur non identificandosi con il registro del professore, espressamente previsto dalla legge (Regio Decreto 30 aprile 1924, n. 956, articolo 48), e’ un registro in dotazione obbligatoria a ciascuna classe scolastica ed ha tutti i requisiti essenziali dell’atto pubblico in considerazione non soltanto del fatto che esso risulta posto in essere da pubblico ufficiale nell’esercizio della sua pubblica attivita’, ma anche dello scopo, a cui esso e’ destinato, di fornire la prova di fatti giuridicamente rilevanti – espressione essenziale della vita stessa della scuola – attraverso la quotidiana documentazione della presenza in classe dell’insegnante, dell’attivita’ dallo stesso svolta, comprensiva anche delle attestazioni concernenti la presenza degli alunni e il loro comportamento, documentazione sottoposta al controllo del preside, attestato dalla apposizione della firma dello stesso, accanto a quella dell’insegnante”).
Cio’ dimostra come la natura di atto pubblico fidefacente debba essere individuato, volta per volta, nell’atto che costituisce diretta estrinsecazione della pubblica funzione, dovendo contemporaneamente essere chiaro che il concetto di pubblica funzione non va limitato ad una categoria astratta di esercizio della potesta’ certificativa e del potere autoritativo, dovendosi, al contrario, tenere presente cio’ che rappresenta in concreto il fine istituzionale dell’ente, di cui l’atto costituisce attuazione.
Nel caso dell’attivita’ didattica, che e’ essa stessa pubblica funzione, la qualificazione degli atti che estrinsecano la finalita’ completa dell’ente non puo’ essere considerata come avulsa da quelle connotazioni tipiche della funzione stessa, con la conseguenza che le attestazioni poste in essere nel corso dell’attivita’ didattico-istituzionale non possono che essere inquadrate nella categoria di atti fidefacenti (sulla natura pacificamente autoritativa o certificativa della funzione pubblica, anche disgiuntamente esercitate, cfr. Sez. 5, sentenza n. 6685 del 14/04/1992, P.G. in proc. Martinelli ed altri, Rv. 190513, proprio in riferimento alla funzione pubblica di insegnamento).
Altro profilo che va in questa sede ribadito concerne l’errore concettuale presente nei motivi di ricorso – secondo cui sembrerebbe che l’inquadramento della fattispecie ai sensi dell’articolo 476 c.p., comma 2, richieda l’espressa previsione normativa, in riferimento alla categoria di appartenenza dell’atto, della necessita’ che lo stesso venga impugnato con querela di falso per contestarne il contenuto.
Cio’ si basa su un equivoco delle categorie dogmatiche e, conseguentemente, sulle conseguenze applicative delle stesse, derivante da una sorta di osmosi tralatizia tra disposizioni civilistiche, quali quelle di cui agli articoli 2699 e 2700 c.c., e la struttura delle fattispecie incriminatrici, con particolare riferimento all’articoli 476 e 479 c.p., non sussistendo alcun automatismo applicativo delle disposizioni civilistiche predette al processo penale, dovendosi ribadire, al contrario, il principio dell’inesistenza, nell’ambito del processo penale, di una regola di “fede privilegiata” di atti pubblici che possa essere smentita solo a seguito di una procedura incidentale in sede civile (Sez. 6, sentenza n. 1361 del 04/12/2018, dep. 11/01/2019, Zanzurino Antonio, Rv. 274839).
Come si evince dalla motivazione della sentenza citata, il richiamo alla fede privilegiata di un atto non puo’ essere disgiunta dalla considerazione che “il nuovo codice di procedura non contempli l’istituto dell’incidente di falso che disciplinava l’impugnazione di un atto o di un documento del processo denunziato di falsita’, ne’ riproduce l’articolo 158 del codice abrogato, che attribuiva al processo verbale il valore di atto pubblico di fede privilegiata, sicche’ esso costituiva attestazione incontrovertibile rispetto ai fatti che il pubblico ufficiale aveva dichiarato di aver compiuto o essere avvenuti in sua presenza, finche’ non fosse stato invalidato mediante lo speciale meccanismo processuale incidentale previsto dagli articoli 215 e 218 c.p.p. 1930”.
Con la sentenza in esame, infatti, la Sez. 6 — seppure in riferimento agli atti del processo – ha compiuto un’analisi completa degli istituti, concludendo che la “querela di falso” del c.c. del 1942 e del c.p.c. del 1940 non ha mai riguardato la materia penale, anche sotto la vigenza del codice di procedura penale del 1930, che prevedeva l’incidente di falso, di cui agli articoli 215 e segg., da utilizzare unicamente per gli atti del processo, oltre agli articoli 155 e 158, in tema di processi verbali. Tuttavia anche detta ultima disposizione, che, nella prima parte, prevedeva che “il processo verbale fa fede fino ad impugnazione di falso di quanto il pubblico ufficiale attesta di aver fatto o essere avvenuto in sua presenza…”, non conteneva alcun richiamo delle regole probatorie del diritto civile e del relativo rimedio per accertare la falsita’. Anche nell’ambito degli atti processuali, l’impugnazione di falso era prevista espressamente, ad esempio, per smentire la “relazione di notificazione” dell’ufficiale giudiziario, ma con il rimedio endoprocessuale dell’incidente di falso di cui all’articolo 215 del codice di procedura penale, essendo pacifico anche in giurisprudenza come non fosse necessario ricorrere, in tal caso, al processo civile.
Inoltre, la sentenza in esame ha rilevato: “…..il codice vigente, nell’ottica di rendere piu’ spedito il processo, ha previsto che le questioni relativa alla veridicita’ di atti processuali siano risolte nel corso del procedimento, senza necessita’ di attivare una specifica procedura. Deve darsi pero’ atto che vi e’ giurisprudenza che sostiene che gli atti del processo avente fede privilegiata possano essere smentiti solo a seguito di proposizione di querela di falso. Che il riferimento sia alla querela di falso di cui all’articolo 2700 c.c. e articoli 221 c.p.c. e ss., pero’, appare certo solo nella decisione Sez. 3, n. 7865 del 12/01/2016, Vecchi, Rv. 266279 e sostenuta in modo meno netto nella decisione Sez. 4, n. 26419 del 20/04/2007 – dep. 09/07/2007, Samlali e altro, Rv. 2370470. Nelle sentenze Sez. 3, n. 44687 del 07/10/2004, Delle Coste, Rv, 2303150 e Sez. 2, n. 13748 del 10/03/2009, Scintu, Rv. 244056, invece, si afferma la necessita’, per smentire la veridicita’ degli atti in questione, della presentazione di querela (per il reato) di falso; si afferma, quindi, che sia necessario l’accertamento del reato di cui all’articolo 479 c.p. con la conseguente dichiarazione di falsita’ dell’atto. Anche a fronte della terminologia utilizzata, non si sostiene la necessita’ di ricorrere alla specifica procedura del c.p.c. Altre decisioni, invece, affermano la necessita’ di querela di falso – quasi tutte in relazione ad attivita’ di notifica dell’ufficiale giudiziario o dell’ufficiale postale – per smentire la veridicita’ di atti del processo ma non fanno un chiaro riferimento al peculiare procedimento civile, bensi’ sembrano richiedere una specifica attivita’ della parte interessata per provare il falso, ma nella stessa sede penale (Sez. 5, n. 348 del 03/02/1994, Bellorno ed altri, Rv. 197152; Sez. 3, n. 7785 del 09/07/1996, Rizzo, Rv. 206056; Sez. 3, n. 9975 del 28/01/2003, Adamo, Rv. 223819; Sez. 1, n. 20993 del 01/04/2004, Ivone, Rv. 228196; Sez. 6, n. 26066 del 26/04/2004, Cecchetelli, Rv. 229460; Sez. 6, n. 47164 del 05/11/2013, Kandji, Rv. 257267; Sez. 6, n. 46749 del 20/11/2013, Calcagnile, Rv. 257456; Sez. 4, n. 6363 del 06/12/2016, Oukhita e altro, Rv. 269102). Si deve, invece, ribadire la assoluta corrispondenza al dato normativo della interpretazione che si condivide; del resto una non prevista pregiudiziale civile che, se del caso, dovrebbe comportare la sospensione del processo, non risulta compatibile con il rito penale per: la mancata previsione nel codice del 1989 dell’incidente di falso, subprocedimento che comunque si svolgeva nell’ambito dello stesso processo penale, la testuale non riferibilita’ della disciplina del c.p.c. agli atti del processo penale, la evidente incompatibilita’ delle diverse procedure, non essendo prevista la lunga sospensione del processo penale in attesa della decisione definitiva nel procedimento civile di querela di falso. Si noti, peraltro, che anche le decisioni che richiamano espressamente il procedimento civile di accertamento della falsita’ non affrontano il tema della modalita’ di sospensione del processo penale, disciplinate dall’articolo 3 c.p.p. in riferimento ad altre questioni pregiudiziali. L’attendibilita’ di un atto del processo va quindi decisa dallo stesso giudice procedente, senza alcuna specifica procedura, sulla scorta di una seria offerta di prova della parte interessata”.
Benche’ la motivazione della sentenza Zanzurino riportata riguardi, come detto, la rilevanza del falso relativo ad atti processuali, in realta’ la logica ad essa sottesa consente di pervenire a simili conclusioni anche sotto il profilo dell’inquadramento delle categorie del diritto sostanziale.
Il che, in altri termini, consente di concludere che la disciplina civilistica dettata dagli articoli 2699 e 2700 citati, non possa influenzare le categorie penali al punto da ritenere necessaria, ai fini della qualificazione di una condotta ai sensi dell’articolo 476 c.p., comma 2, la sussistenza di una norma di legge o di regolamento che attribuisca all’atto la natura di fede privilegiata nella misura in cui ricolleghi a detta natura, espressamente, l’esperibilita’ del rimedio di cui all’articolo 2700 c.c..
Nessuna disposizione, ne’ del codice sostanziale ne’ del codice di rito, autorizzano detta interpretazione, al di la’ di una commistione basata su una sostanziale sovrapposizione concettuale.
Il concetto di fede privilegiata – che, peraltro, riguarda solo parte del contenuto dell’atto nella sua componente di provenienza e di attestazione, con esclusione della parte intrinsecamente valutativa, salve, in tal caso, disposizioni espresse va ricostruito dall’interprete tenendo presente la funzione pubblica esercitata, nelle sue componenti certificative e/o autoritative, in coerenza con la natura stessa della funzione, non essendo affatto necessaria la presenza di una fonte normativa che preveda ex professo la necessita’ di procedere ai sensi dell’articolo 2700 c.c., per confutare detta sostanza dell’atto.
Peraltro, ben possono rinvenirsi atti la cui funzione di fede privilegiata sia prevista e riconosciuta chiaramente ed espressamente dal dettato normativo o regolamentare, ma cio’ non autorizza affatto a ritenere che, ove detta qualificazione non sia esplicitata, essa vada automaticamente esclusa, dovendosi necessariamente ritenere, in tal caso, il falso rilevante ai sensi dell’articolo 476 c.p., comma 1; in tal senso, non possono, infatti, dimenticarsi i casi in cui la natura dell’atto si ricavi da norme extrapenali, il che richiede spesso una complessa attivita’ ermeneutica da parte dell’interprete.
Quanto sin qui illustrato appare confermato, sotto altro aspetto, dalla recente pronuncia delle Sezioni Unite, n. 24906 del 18/04/2019, Sorge, Rv. 275436, gia’ citata, la quale ha espressamente considerato come alcune circostanze aggravanti implichino, ai fini della individuazione della loro sussistenza, una componente valutativa, in quanto le modalita’ della condotta integrano l’ipotesi aggravata ove alle stesse siano attribuibili particolari connotazioni qualitative o quantitative. “Essendo tali, dette connotazioni sono ritenute o meno ricorrenti nei singoli casi in base ad una valutazione compiuta in primo luogo dal pubblico ministero nella formulazione dell’imputazione, e di seguito sottoposta alla verifica del giudizio. Ove il risultato di questa valutazione non sia esplicitato nell’imputazione, con la precisazione della ritenuta esistenza delle connotazioni di cui sopra, la contestazione risultera’ priva di una compiuta indicazione degli elementi costitutivi della fattispecie circostanziale”.
Proprio in riferimento alla circostanza aggravante di cui all’articolo 476 c.p., comma 2, le Sezioni Unite hanno ricordato che “la struttura della fattispecie comprende un elemento materiale, costituito dal compimento della condotta su un atto che, nell’implicito riferimento alla disposizione incriminatrice del precedente comma 1, e’ oggettivamente determinato nelle sue caratteristiche pubblicistiche in quanto formato o comunque manipolato da un pubblico ufficiale nell’esercizio delle sue funzioni”; ma “e’ evidente come detta fattispecie includa anche un elemento valutativo, dato dalla possibilita’ di qualificare l’atto come facente fede fino a querela di falso o, nella sintesi terminologica comunemente adottata, fidefacente”.
Le Sezioni Unite, quindi, dopo aver confermato la qualita’ di un atto fidefacente alla luce dei criteri ermeneutici indicati dalla giurisprudenza costante di questa Corte regolatrice, hanno osservato che “Si tratta, all’evidenza, di profili che sono oggetto di una pluralita’ di giudizi valutativi con riguardo, in primo luogo, all’interpretazione ed all’applicazione di norme anche extrapenali; e di seguito, sulla base di tali riferimenti normativi, all’accertamento dell’efficacia probatoria di fede privilegiata dell’atto in quanto proveniente da un pubblico ufficiale facoltizzato ad attribuire all’atto stesso tale efficacia, e quindi alla sussistenza di tale facolta’ in capo a quel pubblico ufficiale, nonche’ alla riconducibilita’ del contenuto dell’atto alla rappresentazione di operazioni compiute dal pubblico ufficiale o di fatti dallo stesso constatati”.
Il che, in altri termini, conferma come la qualificazione di un atto ai sensi dell’articolo 476 c.p., comma 2, in realta’, costituisca un’operazione ricostruttiva spesso complessa, da effettuare sulla scorta dei criteri ermeneutici sin qui delineati, avendo sempre presente la peculiarita’ delle categorie dogmatiche sottese, ed evitando scorciatoie interpretative fondate su sintesi improprie e su indebite confusioni concettuali, a maggior ragione non condivisibili in quanto non previste da alcuna disposizione normativa.
4. Quanto al motivo di ricorso nell’interesse di (OMISSIS), relativo alla notifica del decreto di citazione a giudizio per il grado di appello, va osservato che – come si evince dagli atti processuali – il decreto di citazione in esame risulta contenere chiaramente l’indicazione del domicilio eletto dall’imputato, non sussistendo, pertanto, alcuna ragione per ritenere che l’ufficiale giudiziario avesse eseguito la notifica altrove, in assenza di allegazione in tal senso.
In ogni caso, deve ricordai che la nullita’ invocata dalla difesa nel motivo di ricorso e’ una nullita’ generale a regime intermedio che, come tale, avrebbe dovuto essere eccepita con i motivi di gravame, non risultando che cio’ fosse avvenuto.
Infine, allorche’ la relata di notifica non indica specificamente il luogo ove la stessa notificazione e’ avvenuta, deve presumersi, fino a prova contraria, che sia stata effettuata nel luogo indicato nell’atto da notificare (Sez. 3, sentenza n. 2183 del 10/06/1999, Caterisano, Rv. 214939) e, come detto, nel caso di specie, al di la’ di mere asserzioni, non e’ stata fornita prova alcuna che la consegna nelle mani della convivente dell’imputato sia avvenuta in luogo diverso rispetto al domicilio eletto e riportato nel decreto di citazione.
I ricorsi degli imputati vanno, pertanto, rigettati, con condanna degli stessi, ai sensi dell’articolo 616 c.p.p., al pagamento delle spese del procedimento.

P.Q.M.

Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese del procedimento.

 

In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.

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