L’errore di fatto riconducibile all’art. 395 n. 4 c.p.c.

Consiglio di Stato, Sezione quarta, Sentenza 14 aprile 2020, n. 2379.

La massima estrapolata:

L’errore di fatto riconducibile all’art. 395, n. 4, c.p.c., è un errore di percezione, o una mera svista materiale, che abbia indotto il giudice a supporre l’esistenza (o l’inesistenza) di un fatto decisivo che risulti, invece, in modo incontestabile escluso (o accertato) in base agli atti e ai documenti di causa, sempre che tale fatto non abbia costituito oggetto di un punto controverso, su cui il giudice si sia pronunciato.

Sentenza 14 aprile 2020, n. 2379

Data udienza 27 febbraio 2020

Tag – parola chiave: Revocazione – Programma Integrato d’Intervento (P.I.I.) – Variante al P.R.G. – Realizzazione di un parco urbano – Annullamento d’ufficio P.I.I. – Motivazione – Difformità – Mancanza della V.A.S. – Carenza standard – Violazione artt. 27, L. n. 166/2002 e 12, L.R. n. 12/2005 – Violazione art. 38, D.Lgs. n. 267/2000 – Impugnazione – Rigetto – Ricorso per revocazione – Inammissibilità – Conteggio degli standard – Questione dibattuta

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Quarta
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 1746 del 2016, proposto dalla società Ac. s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Da. Bu. e Ad. To., con domicilio eletto presso lo studio del secondo in Roma, via (…);
contro
il Comune di (omissis), in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Al. Tr., Fr. Tr. e Il. Ro. con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio di quest’ultima in Roma, via (…);
la Provincia di Brescia non costituitasi in giudizio;
nei confronti
dei signori Lu. Og. ed altri, non costituitisi in giudizio;
per la revocazione
della sentenza del Consiglio di Stato, sez. IV, n. 4392 del 2015.
Visti il ricorso in revocazione con i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio del Comune di (omissis);
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 27 febbraio 2020 il consigliere Silvia Martino;
Uditi, per le parti rispettivamente rappresentate, gli avvocati Ad. To. e Fr. Tr.;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO e DIRITTO

1. La società Ac. s.r.l. presentava al Comune di (omissis) una proposta di Programma Integrato d’Intervento (P.I.I.), in variante al vigente piano regolatore generale (P.R.G.), per la realizzazione di un parco urbano integrato con attrezzature sportive e residenziali su una vasta superficie, pari a 196.000 mq.
La proposta prevedeva, tra l’altro, il riconoscimento, in favore della società, di una volumetria edificabile pari a mc 53.630,00, su una superficie territoriale individuata di mq 58.000.
Poiché l’area interessata dalla proposta non era tutta di proprietà della proponente, il Sindaco di Cellatica, con raccomandate del 25 febbraio 2009, invitava ex artt. 27, comma 5, della l. n. 166/2002, nonché 7 e 11, d.P.R. n. 327/2001, i sig.ri Lu. ed altri To. ed altri, proprietari di aree ricomprese nel perimetro del P.I.I., ad aderire al consorzio per l’attuazione del medesimo strumento urbanistico.
Il P.I.I. veniva poi, rispettivamente adottato e approvato con delibere del Consiglio Comunale n. 6 del 2009, e n. 24/2009.
In precedenza il Comune aveva avviato, con delibera della Giunta Municipale 8.5.2008, n. 60, il procedimento di valutazione ambientale strategica (V.A.S.) del nuovo piano di governo del territorio (P.G.T.), ed aveva approvato, con delibera consiliare n. 10 del 2008, il documento preliminare di piano diretto ad individuare gli obiettivi strategici della pianificazione territoriale stabilendo di assegnare al detto documento preliminare la funzione di documento di inquadramento ai sensi dell’art. 25 della l.r. 11 marzo 2005 n. 12.
Con delibera n. 2 del 15 gennaio 2009, il Consiglio Comunale aveva, inoltre, adottato il P.G.T., includendo le aree interessate dalla proposta di P.I.I. avanzata dall’Ac. s.r.l., nell’ambito di trasformazione AT n. 2, suddiviso, a sua volta, in due sub ambiti: il sub ambito A (con una superficie 138.000 mq), destinato prevalentemente a servizi pubblici o di interesse pubblico; il sub ambito B (con superficie di 58.000 mq), destinato prevalentemente alla funzione residenziale, con l’assegnazione di una capacità edificatoria pari a mc 53.360.
Svoltesi le elezioni comunali e mutata la maggioranza, il Comune aveva deciso di avviare il procedimento di riesame del P.I.I., dandone comunicazione alla società Ac..
Con delibera n. 23.1 del 30 settembre 2009, il Consiglio Comunale aveva disposto l’annullamento d’ufficio del P.I.I., ritenendo affetto dai seguenti vizi:
a) difformità, sotto plurimi profili, dai contenuti del documento di inquadramento approvato con delibera consiliare n. 10 del 2008;
b) mancanza della V.A.S.;
c) carenza degli standard;
d) violazione del combinato disposto degli artt. 27 della l. n. 166/2002 e 12 della l.r. n. 12/2005;
e) violazione dell’art. 38 del d.lgs. n. 267/2000 ed eccesso di potere per sviamento e travisamento “anche in relazione alla mancata scadenza del termine di 90 giorni di cui all’art. 27 della legge 166/2002, che hanno portato a giustificare l’applicazione dell’art. 38 del T.U.E.L.”.
Con deliberazione n. 10.1 del 7 agosto 2009, l’organo consiliare aveva, frattanto, deciso di non procedere all’approvazione del P.G.T. e di riavviare una nuova procedura di revisione e approvazione dello stesso.
Ritenendo le suddette deliberazioni illegittime, l’A. s.r.l. le impugnava davanti al TAR Lombardia, Sezione di Brescia, il quale con sentenza 9 gennaio 2013 n. 4, respingeva il ricorso.
2. Avverso la detta sentenza, ritenuta ingiusta ed erronea, la società Ac. proponeva appello, chiedendone la riforma.
3. Con la revocanda sentenza n. 4392 del 21 settembre 2015, la Sezione rigettava l’appello, sulla scorta delle argomentazioni che possono essere così sintetizzate.
In primo luogo, venivano esaminate le sole deduzioni nel ricorso in appello a partire da pag. 36, “tralasciando, siccome inammissibili, i motivi prospettati in primo grado e pedissequamente riproposti nelle pagine precedenti, che la medesima appellante ha, poi, sinteticamente richiamato nella memoria difensiva datata 2/3/2015”.
Ciò in quanto tali motivi erano stati disattesi dal giudice di prime cure con argomenti che non erano stati specificamente criticati in appello.
Per quanto concerne la reiezione della doglianze con cui era stata lamentata l’insussistenza di un interesse pubblico all’annullamento d’ufficio, la sottovalutazione dell’interesse privato sacrificato dall’esercizio del potere di autotutela e lo sviato utilizzo del potere di annullamento in luogo di quello di revoca il Collegio d’appello, per quanto qui interessa, osservava che:
– l’annullamento d’ufficio di uno strumento pianificatorio, che non abbia avuto attuazione, non necessita di un’espressa e specifica motivazione in ordine alla sussistenza del pubblico interesse al ritiro, configurandosi questo nel superiore interesse della collettività a che la pianificazione avvenga nel rispetto della normativa urbanistica;
– nel caso di specie, il P.I.I., approvato con delibera consiliare 28 maggio 2009 n. 24, era stato annullato con deliberazione del 30 settembre 2009 n. 23.1, prima che venisse stipulata la prescritta convenzione urbanistica e prima che il medesimo strumento potesse avere attuazione.
– nel descritto contesto alla società Ac., non poteva riconoscersi alcun affidamento qualificato alla conservazione del P.I.I., che imponesse una qualche comparazione del proprio interesse con quello pubblico al ritiro.
– non emergeva alcuno sviamento di potere;
– per quanto riguarda i vizi di legittimità del piano, con specifico riferimento alla mancanza di VAS e alla inadeguatezza degli standard, da un lato, non poteva predicarsi la sopravvivenza degli effetti della VAS perché il P.G.T. sul cui documento di piano era intervenuta la V.A.S., non si era perfezionato; dall’altro che, come correttamente rilevato con lo stesso ricorso in appello, il vizio che, con riferimento al profilo in parola, aveva indotto l’intimata amministrazione comunale ad annullare il P.I.I., si sostanziava nella ravvisata insufficienza delle aree da destinare a standard urbanistici quantificate nel progetto di P.I.I., e non già, come ritenuto dal giudice di prime cure, in un travisamento circa la proposta di una dotazione di spazi per standard maggiore di quella normativamente occorrente;
– dagli atti progettuali del P.I.I. per cui è causa, risultava che le aree da destinare a standard erano pari a mq 17.057,77 comprensivi di mq 13.953,17 per strade e marciapiedi (tavola A -11 del progetto “Planimetria generale con indicazione degli standard urbanistici”, relazione al detto progetto, pag 11, nonché art. 8 della bozza della convenzione urbanistica che avrebbe dovuto far seguito all’approvazione del P.I.I.); tuttavia, ai sensi dell’art. 3, comma 1, del D.M. 1444 del 1968 dal conteggio delle aree da adibire a standard, devono essere esclusi gli “spazi destinati alle sedi viarie”;
– eliminando dalle aree che la società Ac. aveva previsto di destinare a standard, quelle per sedi viarie, residuava una superficie di appena mq 3.104,60 (17,057,77 – 13.953,17) per effettivi standard. Si trattava di una misura insufficiente, come emergeva dai non contestati calcoli effettuati dall’intimato Comune, nella memoria difensiva del 10 marzo 2015;
– quanto all’invocato art. 11, comma 5, della bozza di convenzione accessoria al P.I.I. annullato, secondo cui il “proponente dovrà mettere a disposizione gratuitamente al comune le aree di sua proprietà all’interno del parco urbano per un totale indicativo di (mq) 37.080 comprensive delle aree da cedere a standard”, si trattava dii aree ulteriori, prive di destinazione specifica, per cui non era possibile computarle tra quelle espressamente vincolate all’allocazione delle prescritte dotazioni minime;
– la sentenza andava dunque confermava sia pure con correzione delle motivazione.
4. Il ricorso per revocazione si appunta sulla parte della sentenza relativa al conteggio degli standard.
L’errore di fatto imputato al Collegio d’appello concerne il riferimento che lo stesso avrebbe fatto alla sola tavola A, la quale sarebbe stata viziata da un errore materiale facilmente comprensibile.
In essa era stata infatti inserita la cifra di mq. 17.057,77 anziché quella corretta, così come indicata negli altri atti di mq. 37.080,00
5. Si è costituito, per resistere, il Comune di (omissis).
6. Con la memoria conclusionale, la civica amministrazione ha sviluppato articolate difese.
7. Le parti hanno depositato memorie di replica.
Il Comune in particolare, ha sottolineato che la dedotta inammissibilità del ricorso per revocazione non potrebbe essere superata per il fatto che la ricorrente, nelle proprie conclusioni, abbia chiesto la revocazione della sentenza “nella parte in cui [ha ritenuto] che le aree a standard nel progetto presentato non siano sufficienti”. Infatti l’interesse a proporre il gravame va verificato non rispetto ad un singolo capo della sentenza impugnata, ma rispetto al gravame nel suo complesso.
Di conseguenza, se dalla censura proposta non può derivare la caducazione della statuizione contenuta nella sentenza impugnata, si deve escludere un interesse sufficiente a giustificare il gravame.
La società, dal canto suo, ha ribadito che un’adeguata analisi della Convenzione allegata al Programma integrato di intervento avrebbe evitato il travisamento dei fatti de quibus ed accertato la piena soddisfazione del fabbisogno di aree destinate a servizi pubblici o ad uso pubblico (standard).
8. Il ricorso è quindi passato in decisione alla pubblica udienza del 27 febbraio 2020.
9. Il gravame è manifestamente inammissibile.
Al riguardo, si osserva quanto segue.
10. Come noto, l’errore di fatto revocatorio è configurabile nell’attività preliminare del giudice relativa alla lettura ed alla percezione degli atti acquisiti al processo quanto alla loro esistenza ed al loro significato letterale ma non coinvolge la successiva attività d’interpretazione e di valutazione del contenuto delle domande e delle eccezioni, ai fini della formazione del suo convincimento.
Così, ad esempio, si versa nell’errore di fatto di cui all’art. 395 n. 4, c.p.c. allorché il giudice – per svista sulla percezione delle risultanze materiali del processo – sia incorso in omissione di pronunzia o abbia esteso la decisione a domande o ad eccezioni non rinvenibili negli atti del processo, ma se ne esula allorché si contesti l’erroneo, inesatto o incompleto apprezzamento delle risultanze processuali o l’anomalia del procedimento logico di interpretazione del materiale probatorio, ovvero quando la questione controversa sia stata risolta sulla base di specifici canoni ermeneutici o di un esame critico della documentazione acquisita.
In tutti questi casi non sarà possibile censurare la decisione tramite il rimedio – di per sé eccezionale – della revocazione, che altrimenti verrebbe a dar vita ad un ulteriore grado del giudizio, non previsto dall’ordinamento.
L’errore di fatto riconducibile all’art. 395, n. 4, c.p.c., è quindi un errore di percezione, o una mera svista materiale, che abbia indotto il giudice a supporre l’esistenza (o l’inesistenza) di un fatto decisivo che risulti, invece, in modo incontestabile escluso (o accertato) in base agli atti e ai documenti di causa, sempre che tale fatto non abbia costituito oggetto di un punto controverso, su cui il giudice si sia pronunciato (Cons. St., Ad. plen., 24 gennaio 2014, n. 5; 20 gennaio 2013, n. 1; 17 maggio 2010, n. 2; 11 giugno 2001, n. 3; successivamente, fra le tante, sez. V, 29 novembre 2017 n. 5609; 22 gennaio 2015, n. 274).
L’errore in questione presuppone il contrasto fra due diverse rappresentazioni dello stesso fatto, delle quali una emerge dalla sentenza, l’altra dagli atti e documenti processuali, sempreché la realtà desumibile dalla sentenza sia frutto di supposizione e non di giudizio, formatosi sulla base di una valutazione (Cass. civ., sez. trib., sentenza n. 442 del 11 gennaio 2018).
In sintesi, l’errore di fatto idoneo a fondare la domanda di revocazione, deve rispondere a tre requisiti:
a) derivare da una pura e semplice errata od omessa percezione del contenuto meramente materiale degli atti del giudizio, la quale abbia indotto l’organo giudicante a decidere sulla base di un falso presupposto fattuale, ritenendo così un fatto documentale escluso ovvero inesistente un fatto documentale provato;
b) attenere ad un punto non controverso e sul quale la decisione non abbia espressamente motivato; c) essere stato un elemento decisivo della decisione da revocare, necessitando perciò un rapporto di causalità tra l’erronea presupposizione e la pronuncia stessa.
Infine, l’errore deve apparire con immediatezza ed essere di semplice rilevabilità, senza necessità di argomentazioni induttive o indagini ermeneutiche che impongano una ricostruzione interpretativa degli atti o documenti del giudizio (Cons. St., sez. V, n. 5609 del 29 novembre 2017; Cass. civ., sez. VI, n. 20635 del 31 agosto 2017).
11. Nel caso di specie, deve convenirsi con la civica amministrazione che il preteso errore di fatto riguarda una questione, quella relativa alla sufficienza della dotazione degli standard, che era stata ampiamente dibattuta sia in primo grado che in appello.
Essa, in particolare, ha costituito un aspetto controverso su cui il giudice di appello si è ampiamente diffuso, sviluppando le proprie argomentazioni sulla base, tra l’altro, dell’esame della tabella A- 11 del progetto di P.I.I. che, oggi, in sede di revocazione, la società pretende essere affetta da un errore materiale.
In disparte il fatto che neanche l’istante si spinge a sostenere che tale preteso errore fosse rilevabile ictu oculi, non si tratterebbe comunque di un vizio revocatorio, atteso che, come già evidenziato non integra un errore di fatto ai sensi dell’art. 395, n. 4, c.p.c., la valutazione compiuta dal giudice delle risultanze processuali (cfr., da ultimo Cons. Stato, sez. IV, 12 febbraio 2020, n. 1058).
Più in generale, la lettura e l’interpretazione dei documenti di causa appartiene all’insindacabile valutazione del giudice e non può essere censurata quale errore di fatto previsto dall’art. 395 n. 4, c.p.c., salvo trasformare lo strumento revocatorio in un inammissibile terzo grado di giudizio; e ciò anche qualora si assuma che il giudice abbia omesso di esaminare, su questione oggetto di discussione tra le parti, le prove documentali esibite o acquisite d’ufficio (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 2 febbraio 2015, n. 460).
12. Ad ogni buon conto, nel caso di specie, va ulteriormente evidenziato che, quand’anche vi fosse un errore di fatto, non sarebbe decisivo.
Si è visto infatti in precedenza che la valutazione del Collegio d’appello in ordine all’illegittimità del Programma integrato di intervento si è basata non solo sul rilievo dell’inadeguatezza degli standard ma anche sulla mancanza di una valida VAS, per il venire meno degli effetti di quella che era stata espletata in ordine al P.G.T. decaduto.
E’ peraltro giurisprudenza consolidata in materia di impugnazione che, qualora una sentenza sia sorretta da una pluralità di ragioni, distinte ed autonome, ciascuna delle quali giuridicamente e logicamente sufficiente a giustificare la decisione adottata, è sufficiente che una sola di esse resista al vaglio in sede giurisdizionale perché divengano inammissibili, per difetto di interesse, le restanti censure (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 3 dicembre 2018, n. 6827).
13. In definitiva, per quanto testé argomentato, l’istanza di revocazione deve essere dichiarata inammissibile.
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
Sezione Quarta, definitivamente pronunciando sul ricorso per revocazione n. 1747 del 2016, di cui in premessa, lo dichiara inammissibile.
Condanna la società ricorrente alla rifusione delle spese di giudizio nei confronti del Comune di (omissis), che liquida, complessivamente, in euro 6.000,00 (seimila/00), oltre gli accessori di legge, se dovuti.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 27 febbraio 2020 con l’intervento dei magistrati:
Antonino Anastasi – Presidente
Luca Lamberti – Consigliere
Nicola D’Angelo – Consigliere
Silvia Martino – Consigliere, Estensore
Roberto Proietti – Consigliere

 

 

In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.

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