L’elemento qualificante del mobbing lavorativo

Corte di Cassazione, sezione lavoro civile, Ordinanza 11 dicembre 2019, n. 32381.

La massima estrapolata:

L’elemento qualificante del mobbing lavorativo va ricercato non nella legittimità o illegittimità’ dei singoli atti, bensì nell’intento persecutorio che li unifica, che deve essere provato da chi assume di avere subito la condotta vessatoria e che spetta al giudice del merito accertare o escludere, tenendo conto di tutte le circostanze del caso concreto.

Ordinanza 11 dicembre 2019, n. 32381

Data udienza 2 aprile 2019

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Presidente

Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere

Dott. DE GREGORIO Federico – rel. Consigliere

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere

Dott. PAGETTA Antonella – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA
sul ricorso 16971/2015 proposto da:
(OMISSIS), elettivamente domiciliato in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), rappresentato e difeso dall’avvocato (OMISSIS);
– ricorrente –
contro
(OMISSIS) S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), rappresentata e difesa dall’avvocato (OMISSIS);
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1220/2014 della CORTE D’APPELLO di CATANIA, depositata il 10/12/2014 R.G.N. 676/2007.

FATTO E DIRITTO

LA CORTE, visti gli atti e sentito il consigliere relatore, rileva che:
come si evince dallo storico di lite della sentenza qui impugnata, con ricorso al Tribunale di Siracusa in data 23 ottobre 2004 (OMISSIS), premesso di lavorare da oltre 25 anni presso la (OMISSIS) – (OMISSIS) con la qualifica di vice capufficio e con le mansioni di cassiere terminalista, lamentava di essere stato da diverso tempo oggetto di un comportamento fortemente vessatorio da parte di dirigenti e di qualche collega della Banca, in particolare per essere stato scavalcato nella promozione a capoufficio da colleghi molto piu’ giovani di eta’ e con minore anzianita’ di servizio nonche’ con minore professionalita’, nell’essere stato vittima di continui distacchi e/o brevi trasferimenti e missioni senza alcuna causa ragione o motivo di natura organizzativa, nell’avere subito vere aggressioni psicologiche consistite in inutili e futili contestazioni disciplinari, rimaste pero’ inattuate. Tanto premesso, assumeva che detti comportamenti gli avevano procurato una malattia psicofisica concretizzatasi in ansia, insonnia e disturbi depressivi, per cui chiedeva la condanna della societa’ convenuta al pagamento della somma di Euro 60.000 a titolo di risarcimento dei danni fisici, psichici e morali subiti. Instauratosi il contraddittorio con la costituzione della societa’ convenuta, che resisteva alle pretese avversarie, il giudice adito, previo espletamento di prova testimoniale, con sentenza del 12 febbraio 2007 rigettava la domanda. Detta pronuncia veniva quindi appellata dal (OMISSIS) con ricorso del 3 maggio 2007, cui resisteva la (OMISSIS) S.p.a. (che aveva incorporato la (OMISSIS)), la quale proponeva, a sua volta, appello incidentale avverso la dichiarata compensazione delle spese relative al primo grado del giudizio;
la Corte di Appello di Catania con sentenza in data 20 novembre – 10 dicembre 2014 rigettava entrambe le anzidette impugnazioni, compensando altresi’ le relative spese;
tale pronuncia e’ stata quindi impugnata dal (OMISSIS) mediante ricorso per cassazione notificato il 4 giugno 2015, affidato ad un solo articolato motivo, cui ha resistito la – (OMISSIS) S.p.A. mediante controricorso del 9 – 10 luglio 2015, in seguito illustrato da memoria.

CONSIDERATO

che:
il ricorrente ha denunciato, ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., n. 3, la violazione della L. n. 104 del 1992, articolo 33, n. 5 e successive modifiche ed integrazioni, nonche’ degli articoli 2697, 2727 e 2087 c.c. e degli articoli 115 e 116 c.p.c.;
al riguardo, il (OMISSIS) ha evidenziato che sin dall’atto introduttivo del giudizio di primo grado aveva rappresentato di essere genitore di figlio affetto da sindrome di down, per cui aveva allegato opportuna documentazione. La circostanza era rimasta incontestata ed anzi pure riconosciuta nella memoria di costituzione in appello per la (OMISSIS). In proposito il (OMISSIS) aveva lamentato il profluvio dimissioni e di trasferte, con le quali era stato aggredito dalla Banca datrice di lavoro soprattutto durante il periodo corrente dal dicembre 2001 sino a luglio 2002, a ridosso cioe’ della fusione per incorporazione della stessa banca con la (OMISSIS).
Ad una prima lettura del succitato articolo 33, comma 5, la norma sembrava riferirsi solo al caso di veri e propri trasferimenti, ma in realta’ secondo il ricorrente la stessa attribuiva al lavoratore fornitore di assistenza ad un parente affetto da handicap la facolta’ di scelta nella sede piu’ vicina al proprio domicilio, cosi’ che doveva ravvisarsi il diritto del lavoratore versante in questa situazione negativa a scegliere e quindi a mantenere una sede di lavoro piu’ vicina, tale da consentirgli di esercitare senza deminutio da parte datoriale il ruolo assistenziale garantito dalla legge. Sosteneva, quindi, il ricorrente che nel diritto scegliere una sede vicina al proprio domicilio e’ contenuto anche quello a mantenerla senza elisioni neanche temporanee e a non essere allontanato da essa neanche per brevi periodi in quanto luogo di lavoro piu’ vicino al proprio domicilio. La ratio della norma, infatti, e’ quella di non allontanare dalla sede di lavoro piu’ vicina al domicilio del familiare ammalato i genitori onerati dal delicato ruolo assistenziale tutelato dalla legge, non avendo percio’ rilievo se l’allontanamento avvenga per periodi piu’ o meno brevi, per distanze piu’ o meno lunghe, poiche’ il diritto all’assistenza ex L. n. 104, viene comunque leso dall’allontanamento anche per periodi piu’ o meno brevi e con riferimento a distanze piu’ o meno ravvicinate. I maggiori tempi di percorrenza necessari per raggiungere il nuovo luogo di lavoro e per rientrare da esso riducono infatti il tempo libero dal lavoro da dedicare l’assistenza;
pertanto, ad avviso del ricorrente, la Corte di merito aveva violato l’anzidetto articolo 33, n. 5, laddove aveva affermato l’irrilevanza dei distacchi di breve durata in un arco temporale limitato di sei mesi ed in localita’ vicine;
parimenti, aveva errato la Corte distrettuale laddove aveva osservato che l’assunto relativo alla carenza di motivi organizzativi sottostanti alle lamentate trasferte non risultava provato, essendo l’affermazione rimasta priva di dimostrazione. Infatti, nel caso di specie era pacifico ed incontestato il titolo del dipendente a fruire della tutela assicurata dalla L. n. 104 del 1992. Quindi, l’obbligo di legge, cui era tenuta la resistente, risultava chiaro e dedotto in giudizio, nonche’ da parte datoriale ben conosciuto. Di conseguenza, ai sensi dell’articolo 2697 c.c., comma 2, spettava alla convenuta eccepire l’inefficacia del titolo derivante al (OMISSIS) ai sensi del citato articolo 33, ma parte datoriale nulla aveva eccepito o chiesto di provare al riguardo, sicche’ non si era reso neppure necessario operare il bilanciamento tra i contrapposti interessi. Pertanto, la Corte d’Appello, invertendo illegittimamente l’onere probatorio e pretermettendo dal suo ragionamento tutte le prove documentali riprodotte con il ricorso, aveva violato non solo la previsione di cui al cit. articolo 2697, comma 2, ma anche gli articoli 115 e 116 c.c.. D’altro canto, la Corte di merito non aveva considerato che, pur a voler escludere il carattere vessatorio di ogni altro comportamento di parte datoriale, verso cui il (OMISSIS) aveva espresso le sue doglianze, sei mesi continuativi di trasferte imposte in localita’ lontane dalla sede di lavoro ad un genitore con a carico un figlio affetto da sindrome down in vista della fusione per incorporazione con (OMISSIS) erano certamente tali da concretizzare l’attacco ripetuto, continuato, sistematico e duraturo richiesto da Cass. 6 marzo 2006 numero 4774 e 17 febbraio 2009 n. 3785, per poter configurare il mobbing lesivo, ai sensi e per gli effetti dell’articolo 2087 c.c., della salute del dipendente. Tale lesivita’ nella specie risultava ampiamente documentata, come da prodotta certificazione medica. Il nesso di causalita’ tra la malattia e lo sballottamento reiterato con trasferte e missioni, nonche’ con sottrazione, per i necessari tempi di aumentata percorrenza, di parte del tempo da dedicare al figlio ammalato, era desumibile da un’ammissione della resistente e da conseguente semplice presunzione ex articolo 2727 c.c.. Infatti, nella memoria di costituzione in appello della Banca (OMISSIS) a pagina 6 era stata richiamata e riportata, integralmente, la memoria di costituzione in primo grado della (OMISSIS), in cui espressamente vi era stata menzione della grave malattia del figlio del (OMISSIS). La presunzione, poi, ex articolo 2727 c.c., era data dalla ragionevole conseguenza che un padre parzialmente deprivato del proprio diritto all’assistenza del figlio malato venga a subire una grave sofferenza psicofisica, che inevitabilmente sfoci in danno biologico, ampiamente documentato e ribadito nei precedenti gradi del giudizio. Peraltro, l’appellante aveva anche chiesto puntuale visita medico legale, che accertasse i danni subiti e il nesso di causalita’ degli stessi con gli illegittimi comportamenti della Banca datrice di lavoro;
tanto premesso, il ricorso va disatteso alla stregua di quanto motivatamente accertato dalla Corte di merito in relazione alla pretesa risarcitoria azionata dal ricorrente, visto che, a prescindere dalla considerazione circa la breve durata di distacchi effettuati in un arco temporale limitato di circa sei mesi ed in localita’ vicine, dislocate ad una distanza chilometrica oscillante all’incirca tra i 20 e i 40 km rispetto alla sede di lavoro in Siracusa, l’assunto relativo alla carenza dei motivi organizzativi sottostante a dette trasferte era rimasto meramente labiale. L’istante non aveva offerto alcun elemento obiettivo da cui poter ragionevolmente desumere l’intento emulativo perseguito da parte datoriale, non avendo egli, non solo dimostrato, ma neppure dedotto che il distacco subito non fosse funzionale alla sostituzione di unita’ lavorative temporaneamente assenti o che riguardasse sempre e soltanto lui senza alcuna rotazione tra i colleghi. Quanto, poi, al mancato avanzamento di carriera, anche la doglianza sul punto risultava infondata, essendo pienamente condivisibile l’affermazione del giudice di primo grado sul carattere vago e generico della deduzione. Il lavoratore non aveva, invero, allegato in modo circostanziato, ne’ tantomeno provato, che la promozione per mero decorso del tempo costituiva per prassi aziendale una conseguenza pressoche’ automatica, disancorata da valutazioni discrezionali, che, rientrando nel potere organizzativo del datore, restavano sottratte al sindacato giudiziale. Parimenti infondato era l’ultimo motivo di appello, mediante il quale era stata censurata la sentenza gravata per non aver riconosciuto il carattere pretestuoso e strumentale delle contestazioni disciplinari elevate. Infatti, dalle risultanze istruttorie acquisite era emerso che tutti i rilievi disciplinari formalmente contestati al dipendente erano sorretti da un obiettivo fondamento giustificativo. In particolare, l’episodio dell’ammanco di un milione di lire alla chiusura della cassa era stato dal lavoratore ammesso nella lettera di giustificazioni del 21 maggio 2008, laddove lo stesso aveva dato atto di aver provveduto al ripianamento con danaro proprio, sicche’, ad avviso della Corte catanese, la sanzione applicata del biasimo scritto, la piu’ lieve tra le misure afflittive, appariva congrua. Analogamente, il successivo ammanco di 2 milioni, verificatosi su un versamento effettuato da un cliente, era stato dal (OMISSIS) riconosciuto con lettera di giustificazioni del 20 ottobre 2000, poi ripianato sempre con fondi propri. In tal caso, tenuto conto che la segnalazione dell’ammanco proveniva dal cliente e che cio’ aveva indubbiamente arrecato pregiudizio all’immagine dell’azienda, la sanzione della sospensione del lavoro e dalla retribuzione di due giorni non poteva ritenersi eccessiva, ne’ tantomeno vessatoria. La circostanza, poi, che la sanzione non fosse stata eseguita non era di certo indice di una condotta prevaricatrice, ma al contrario di un atteggiamento accomodante tenuto dalla Banca in considerazione, probabilmente, dell’immediata ammissione dei fatti da parte del lavoratore e della repentina riparazione del danno economico. Riguardo, infine, al diverbio con un cliente, che aveva formato oggetto di un terzo rilievo disciplinare, lo stesso teste indicato dal ricorrente aveva riconosciuto la storicita’ dell’episodio, di modo che la contestazione datoriale non appariva arbitraria, mentre il fatto che ad essa non fosse seguita la comminazione di alcuna sanzione dimostrava l’implicito accoglimento delle giustificazioni addotte dal dipendente. In definitiva, secondo la Corte distrettuale, proprio la valutazione complessiva dei fatti caratterizzanti la vicenda in esame, quali emersi in sede di giudizio, imponeva di ritenere insussistente l’asserito mobbing, in quanto dei fatti all’uopo addotti a sostegno risultava attestata la sola reiterata applicazione del distacco per un periodo di sei mesi, avuto altresi’ riguardo alla circostanza che non vi era preciso riscontro in atti di un intento persecutorio o discriminatorio. Infine, la Corte territoriale riteneva come il mobbing non si esaurisse nella sommatoria di comportamenti gia’ vietati dalla legge, ma postulasse ed esigesse un elemento psicologico aggiuntivo, ossia l’animus nocendi, che rende vietati i comportamenti altrimenti leciti e aggrava il significato giuridico nonche’ sociale di comportamenti gia’ vietati e per i quali l’ordinamento gia’ assicura tutela, ossia un complesso di azioni che, in quanto convergenti verso un fine ultimo vessatorio, ed organizzate in sequela, oltre ad arrecare un maggior danno, perseguono un intento di degrado che il singolo atto non sarebbe altrimenti in grado di conseguire;
pertanto, dalla lettura della pronuncia d’appello non risulta che il (OMISSIS) abbia fondato l’azionata pretesa risarcitoria sulla violazione del cit. articolo 33, ne’ che una tale violazione sia stata dedotta come motivo di appello, laddove per contro il ricorrente si e’ limitato a richiamare i precedenti atti (v. in particolo l’elenco degli allegati a pag. 5 del ricorso: l’atto introduttivo del giudizio, il doc. 23 ivi prodotto, la memoria di costituzione per la parte appellata, i documenti da 8 a 19 versati con il succitato ricorso introduttivo ed i certificati medici per esso (OMISSIS) gia’ allegati a detto ricorso con i nn. 3, 4 e 5). Di conseguenza, non sono state chiarite, nei termini specificamente invece occorrenti a norma dell’articolo 366 c.p.c., comma 1, n. 6, soprattutto le ragioni di diritto (causae petendi) poste a sostegno della domanda. Parimenti dicasi per quanto riguarda i motivi d’appello, che risultano invece distintamente enunciati ai punti 1 (doglianza relativa al non riconoscimento del preteso comportamento vessatorio), 2 (asserita finalita’ discriminatorio desunta dal mancato avanzamento di carriera) e 3 (circa il dedotto carattere pretestuoso e strumentale di precedenti contestazioni disciplinari, che sarebbe stato dimostrato, secondo la versione di parte attrice, dall’omessa applicazione delle sanzioni inflitte) delle ragioni poste a sostegno della sentenza d’appello;
alla luce delle evidenti carenti allegazioni, in violazione del principio di autosufficienza, deve escludersi che il (OMISSIS) sia in primo che in secondo grado abbia denunciato la violazione della L. n. 104 del 1995, articolo 33, comma 5, per sostenere la domanda di risarcimento del danno (non patrimoniale, quantificata Euro 60.000,00), di guisa che in appello (che non e’ un “judicium novum”, ma una “revisio prioris instantiae” – cfr. tra le altre Cass. II civ. n. 4695 del 23/02/2017) correttamente non risulta essere stata esaminata alcuna questione, in fatto ed in diritto, inerente al suddetto articolo 33, comma 5, per cui, attesa la novita’ della censura, la stessa nemmeno e’ ritualmente prospettabile in questa sede di legittimita’;
analogamente deve osservarsi per quanto concerne l’articolo 2087 c.c. (norma di carattere generale, la quale disciplina la tutela delle condizioni di lavoro), che, ad ogni modo, non configura un’ipotesi di responsabilita’ oggettiva, in quanto la responsabilita’ del datore di lavoro – di natura contrattuale – va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento, sicche’ incombe al lavoratore ex articolo 2697 c.c., comma 1 – che lamenti di avere subito, a causa dell’attivita’ lavorativa svolta, un danno alla salute – l’onere di provare, oltre all’esistenza di tale danno, la nocivita’ dell’ambiente di lavoro, nonche’ il nesso tra l’una e l’altra, e solo se il lavoratore abbia fornito tale prova sussiste – ex articolo 2697, comma 2 – per il datore di lavoro l’onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno e che la malattia del dipendente non e’ ricollegabile alla inosservanza di tali obblighi (cfr. Cass. lav. n. 24742 in data 8/10/2018 ed altre conformi);
di conseguenza appaiono inconferenti le denunciate violazioni di legge, pure con riferimento ai surriferiti articoli 2697, 115 e 116, visto che nell’ambito del gravame devolutole la Corte di merito ha motivatamente esaminato le doglianze menzionate nell’impugnata sentenza, disattendendole, sulla scorta altresi’ delle acquisite risultanze istruttorie ed evidenziando inoltre, nei limiti delle sue precipue attribuzioni e dei propri poteri di apprezzamento ed accertamento in fatto, insindacabili in questa sede di legittimita’, l’insussistenza di fondati elementi di cognizione tali da poter ravvisare in concreto il denunciato mobbing, in difetto del pur necessario requisito psichico, individuato dalla stessa Corte nell’animus nocendi, su cui peraltro non risulta alcuna specifica e pertinente confutazione da parte ricorrente con la censura de qua (cfr. tra le altre Cass. lav. n. 12437 del 21/05/2018: e’ configurabile il “mobbing” lavorativo ove ricorra l’elemento obiettivo, integrato da una pluralita’ di comportamenti del datore di lavoro, e quello soggettivo dell’intendimento persecutorio del datore medesimo.
V. altresi’ parimenti Cass. lav. n. 17698 del 06/08/2014: ai fini della configurabilita’ del mobbing lavorativo devono ricorrere: a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio – illeciti o anche leciti se considerati singolarmente – che, con intento vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi; b) l’evento lesivo della salute, della personalita’ o della dignita’ del dipendente; c) il nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrita’ psicofisica e/o nella propria dignita’; d) l’elemento soggettivo, cioe’ l’intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi. Conformi Cass. lav. n. 3785 del 17/02/2009 e n. 898 del 17/01/2014.
Cfr. inoltre in motivazione Cass. lav. n. 26684/17 in data 23/05 – 10/11/2017: “l’elemento qualificante va ricercato non nella legittimita’ o illegittimita’ dei singoli atti, bensi’ nell’intento persecutorio che li unifica, che deve essere provato da chi assume di avere subito la condotta vessatoria e che spetta al giudice del merito accertare o escludere, tenendo conto di tutte le circostanze del caso concreto”);
analoghe considerazioni, in termini d’inammissibilita’, possono valere per le doglianze mediante cui in effetti il ricorrente contesta pure il ragionamento decisorio, peraltro coerente e logico nella sua esposizione, in forza del quale i giudici di merito hanno ritenuto di dover rigettare la domanda della parte attrice, che pero’ irritualmente in questa sede di legittimita’ tende in concreto a svilirne il fondamento; pretesa tanto piu’ inammissibile nella specie, laddove operano i limiti maggiormente rigorosi imposti dall’attuale e vigente formulazione dell’articolo 360 c.p.c., n. 5 (cfr. tra l’altro Cass. III civ. n. 11892 del 10/06/2016, secondo cui pure il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non da’ luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo inquadrabile nel paradigma dell’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5 – che attribuisce rilievo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e presenti carattere decisivo per il giudizio, ne’ in quello del precedente n. 4, disposizione che – per il tramite dell’articolo 132 c.p.c., n. 4 – da’ rilievo unicamente all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante. Ed in senso analogo su quest’ultimo punto, circa il solo c.d. minimo costituzionale, rilevante ex articolo 360, n. 5, v. altresi’ Cass. sez. un. civ. nn. 8053 e 8054 del 2014);
come e’ noto (cfr., tra le altre, Cass. I civ. n. 16526 del 5/8/2016), in tema di ricorso per cassazione per vizi della motivazione della sentenza, il controllo di logicita’ del giudizio del giudice di merito non equivale alla revisione del ragionamento decisorio, ad.za 02-10-18/ r.g. n. 13254-14 ossia dell’opzione che ha condotto tale giudice ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che cio’ si tradurrebbe, pur a fronte di un possibile diverso inquadramento degli elementi probatori valutati, in una nuova formulazione del giudizio di fatto in contrasto con la funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimita’ (v. altresi’ Cass. sez. 6-5, n. 91 del 7/1/2014, secondo cui per l’effetto la Corte di Cassazione non puo’ procedere ad un nuovo giudizio di merito, con autonoma valutazione delle risultanze degli atti, ne’ porre a fondamento della sua decisione un fatto probatorio diverso od ulteriore rispetto a quelli assunti dal giudice di merito. Conformi Cass., n. 15489 del 2007 e n. 5024 del 28/03/2012. Cfr. ancora Cass. Il civ. n. 24434 del 30/11/2016: in tema di valutazione delle risultanze probatorie in base al principio del libero convincimento del giudice, la violazione degli articoli 115 e 116 c.p.c., e’ apprezzabile, in sede di ricorso per cassazione, nei limiti del vizio di motivazione di cui all’articolo 360, c.p.c., comma 1, n. 5) e deve emergere direttamente dalla lettura della sentenza, non gia’ dal riesame degli atti di causa, inammissibile in sede di legittimita’. Id. n. 11176 – 08/05/2017: nel quadro del principio, espresso nell’articolo 116 c.p.c., di libera valutazione delle prove – salvo che non abbiano natura di prova legale, il giudice civile ben puo’ apprezzare discrezionalmente gli elementi probatori acquisiti e ritenerli sufficienti per la decisione, attribuendo ad essi valore preminente e cosi’ escludendo implicitamente altri mezzi istruttori richiesti dalle parti. Il relativo apprezzamento e’ insindacabile in sede di legittimita’, purche’ risulti logico e coerente il valore preminente attribuito, sia pure per implicito, agli elementi utilizzati. Cass. III civ. n. 11892 del 10/06/2016: la violazione dell’articolo 115 c.p.c., puo’ essere dedotta come vizio di legittimita’ solo denunciando che il giudice ha dichiarato espressamente di non dover osservare la regola contenuta nella norma, ovvero ha giudicato sulla base di prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli, e non anche che il medesimo, nel valutare le prove proposte dalle parti, ha attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre. Cfr. altresi’ Cass. II civ. n. 2707 del 12/02/2004, secondo cui le norme – articolo 2697, 55.- poste dal Libro VI, Titolo II del Codice civile regolano le materie: a) dell’onere della prova; b) dell’astratta idoneita’ di ciascuno dei mezzi in esse presi in considerazione all’assolvimento di tale onere in relazione a specifiche esigenze; c) della forma che ciascuno di essi deve assumere; non anche la materia della valutazione dei risultati ottenuti mediante l’esperimento dei mezzi di prova, che e’ viceversa disciplinata dagli articoli 115 e 116 c.p.c. e la cui erroneita’ ridonda quale vizio ex articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5);
pertanto, si appalesa l’inammissibilita’ delle varie doglianze al riguardo mosse da parte ricorrente, di modo che il ricorso va disatteso, con conseguente condanna della parte soccombente al rimborso delle relative spese;
stante l’esito del tutto negativo dell’impugnazione, ricorrono, infine, i presupposti processuali di legge per il pagamento dell’ulteriore contributo unificato.

P.Q.M.

La Corte RIGETTA il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese, che liquida a favore della parte controricorrente in Euro 4000,00 (quattromila/00) per compensi professionali ed in Euro 200,00 (duecento/00) per esborsi, oltre spese generali al 15%, i.v.a. e c.p.a. come per legge. Ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2002, articolo 13, comma 1 quater, da’ atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, se dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso articolo 13, comma 1-bis.

 

In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.

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