Dichiarazione di astensione o di ricusazione

Corte di Cassazione, sezione quinta penale, Sentenza 29 ottobre 2019, n. 44120.

Massima estrapolata:

Il codice di rito riserva al giudice demandato a valutare una dichiarazione di astensione o di ricusazione il compito di selezionare gli atti che debbono conservare efficacia, giacché proprio quel giudice conosce i profili di incompatibilità del giudice astenutosi o ricusato e può quindi valutare con precisione gli effetti di tale rilevata incompatibilità sugli atti di natura probatoria assunti in precedenza. La dichiarazione di inefficacia degli atti può essere tuttavia sindacata, nel contraddittorio tra le parti, dal giudice della cognizione, con conseguente eventuale utilizzazione degli atti medesimi.

Sentenza 29 ottobre 2019, n. 44120

Data udienza 9 maggio 2019

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUINTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ZAZA Carlo – Presidente

Dott. MICHELI Paolo – rel. Consigliere

Dott. MOROSINI Elisabetta M. – Consigliere

Dott. BORRELLI Paola – Consigliere

Dott. BRANCACCIO Matilde – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
(OMISSIS), nato a (OMISSIS);
avverso l’ordinanza emessa il 22/01/2019 dal Tribunale di Palermo;
visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Dott. MICHELI Paolo;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. BIRRITTERI Luigi, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1. Con l’ordinanza indicata in epigrafe, il Tribunale di Palermo rigettava un atto di appello presentato nell’interesse di (OMISSIS) avverso un precedente provvedimento del Gup dello stesso Tribunale, del 18/12/2018, in forza del quale era stata respinta una istanza di declaratoria di inefficacia della misura della custodia cautelare in carcere disposta a carico dell’appellante per addebiti ex articoli 416-bis, 629 c.p. e Decreto Legge n. 152 del 1991, articolo 7.
In particolare, l’ordinanza restrittiva genetica era stata emessa dal Gip del Tribunale di Palermo in data 17/07/2017; concluse le indagini preliminari, il Procuratore della Repubblica aveva esercitato l’azione penale con richiesta di rinvio a giudizio, formulata a carico del (OMISSIS) e di numerosi altri soggetti, e ne era derivata la fissazione dell’udienza preliminare con decreto del Gup Dott. (OMISSIS) del 10/05/2018. Lo stesso magistrato, il 28/06/2018, aveva rigettato una richiesta di giudizio abbreviato condizionato ad integrazioni probatorie, presentata nell’interesse di alcuni imputati (fra cui il (OMISSIS)), per poi ammettere – il 04/07/2018 – il rito abbreviato c.d. puro nei confronti di chi, anche all’esito del rigetto appena ricordato, ne aveva fatto istanza (come, ancora una volta, il predetto (OMISSIS)). Nel successivo mese di ottobre, il Gup aveva altresi’ sospeso i termini massimi di custodia cautelare, con ordinanza adottata ex articolo 304 c.p.p., comma 2.
Nel frattempo, gia’ il 18 luglio, la Corte di appello di Palermo si era pronunciata – rigettandola – su una dichiarazione di ricusazione avanzata nei riguardi del Dott. (OMISSIS), che la difesa aveva considerato incompatibile per avere emesso precedenti provvedimenti in tema di intercettazioni, nell’esercizio delle funzioni di giudice per le indagini preliminari; la Seconda Sezione penale di questa Corte, con sentenza del 28/11/2018, aveva tuttavia annullato l’ordinanza della Corte territoriale, affermando il principio di diritto secondo cui “non puo’ tenere l’udienza preliminare il giudice che, nel medesimo procedimento, in funzione di giudice per le indagini preliminari, abbia emesso alcuni decreti di proroga delle intercettazioni telefoniche in corso, rientrando detta ipotesi nei casi di incompatibilita’ previsti dall’articolo 34 c.p.p., comma 2-bis, e non nelle fattispecie elencate ai commi 2-ter e 2-quater dello stesso articolo”.
Conseguentemente, il Dott. (OMISSIS) aveva formalizzato la propria astensione, con riassegnazione del processo – l’11/12/2018 – ad altro magistrato. La difesa del (OMISSIS), a quel punto, instava per la scarcerazione del proprio assistito ritenendo che i termini di restrizione previsti ex lege per la fase delle indagini preliminari fossero ormai decorsi il 13 dicembre (la richiesta per la declaratoria della perdita di efficacia della misura veniva avanzata il giorno seguente): cio’ sul presupposto che dovessero ritenersi improduttivi di effetti tutti gli atti compiuti dal giudice ricusato, ivi compresi quelli incidenti sui termini de quibus come le ordinanze emesse ai sensi dell’articolo 438 c.p.p., comma 4, o articolo 304 c.p.p., comma 2. Il giudice procedente, con interpretazione poi condivisa dal Tribunale, riteneva invece che la dedotta inefficacia potesse riguardare soltanto gli atti a contenuto probatorio, come chiarito dalla giurisprudenza delle Sezioni Unite di questa Corte, dovendosi nel contempo escludere che a seguito dell’annullamento senza rinvio dell’ordinanza in tema di ricusazione, ovvero della designazione del nuovo Gup, si fosse verificata una ipotesi di regressione del procedimento alla fase delle indagini.
2. Avverso l’ordinanza emessa ex articolo 310 c.p.p. propongono ricorso i difensori del (OMISSIS), che – lamentando la violazione degli articoli 42 e 303 c.p.p. – ribadiscono l’approccio esegetico cui i giudici di merito non hanno inteso aderire.
Nell’interesse del ricorrente si evidenzia che, se e’ pacifico che il giudice non possa compiere atti di sorta dopo l’accoglimento di una dichiarazione di ricusazione, con conseguente sanzione di generalizzata inefficacia degli atti posteriori, il problema si pone con riguardo a quelli gia’ assunti: e, mentre un risalente indirizzo sposava la tesi di una presunzione di efficacia (in mancanza di diverse ed espresse indicazioni, da desumere dal provvedimento che decide sulla ricusazione), la sentenza n. 13626/2011 delle Sezioni Unite esprime invece la regola opposta, con l’ulteriore precisazione che l’efficacia o meno degli atti pregressi puo’ essere suscettibile di valutazione in contraddittorio. La stessa sentenza, inoltre, si sofferma sulla nozione di atti a contenuto probatorio, per i quali – giacche’ in grado di produrre effetti giuridici – si rende concretamente necessaria una verifica circa la legittima possibilita’ che vengano mantenuti nel fascicolo per il dibattimento; ne deriva, secondo la tesi difensiva, che:
– e’ il massimo organo di nomofilachia a chiarire che il problema riguarda l’utilizzabilita’ di un atto nella fisiologica sede dibattimentale, senza che rilevino effetti giuridici di natura differente, come quelli da correlare ai provvedimenti de libertate od interruttivi di termini di restrizione;
– cosi’ inquadrata e delimitata la portata della questione, deve concludersi che, tra gli atti gia’ compiuti da un giudice ricusato, solo per quelli a contenuto probatorio dovra’ procedersi ad una valutazione nel contraddittorio delle parti, al fine di selezionare gli atti suscettibili di mantenere efficacia, mentre per tutti gli altri dovra’ valere la regola della inefficacia tout court.
La soluzione descritta non e’ posta in dubbio dal disposto del Decreto Legge n. 553 del 1996, articolo 1, comma 3, (ove si dispone che il giudizio rimanga sospeso fino a quando non pervenga dinanzi al nuovo magistrato assegnatario), trattandosi di previsione espressamente riferita al dibattimento; soprattutto, ove calibrata al caso oggi in esame, e’ coerente al dato formale che vuole un giudice dell’udienza preliminare, per cui rilevi una incompatibilita’ funzionale derivante dall’avere emesso atti peculiari nella veste di giudice per le indagini preliminari, non legittimato in radice a compiere attivita’ processuale, sia o meno a contenuto probatorio.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso non puo’ trovare accoglimento.
Come evidenziato illustrando i motivi di impugnazione, la tesi difensiva e’ che – anche all’esito della piu’ volte citata sentenza Di Giacomantonio delle Sezioni Unite di questa Corte – il quadro di riferimento normativo impone che gli atti gia’ compiuti da un giudice ricusato non possano mantenere efficacia, in difetto di una esplicita indicazione in senso diverso nel provvedimento che abbia accolto la dichiarazione di ricusazione. Va comunque ribadito che, come meglio si vedra’ tra breve, la medesima sentenza consente anche al giudice della cognizione, subentrato al magistrato trovatosi in una situazione di incompatibilita’, di incidere sulla possibilita’ che un atto emesso da quest’ultimo rimanga efficace: ma si tratta di un intervento – da compiersi nel contraddittorio delle parti – limitato agli atti aventi contenuto probatorio. Per tutti gli altri, invece, l’interpretazione suggerita nell’interesse del ricorrente porta alla conclusione che debba valere la regola della inefficacia tout court.
In vero, se ci si muove dal presupposto che un atto a contenuto probatorio puo’ avere una connotazione decisoria solo parziale e non sempre valutativa, potrebbe sembrare del tutto logico pervenire alla conclusione che gli atti pienamente decisori – ma privi di portata concreta sul materiale da utilizzare ai fini del giudizio – gia’ compiuti dal magistrato ricusato non producano effetti di sorta, potendo quella decisione essere sospettata di parzialita’; rilievo che, se appare di valenza neutra per atti squisitamente ricognitivi di presupposti formali (come nel caso di un’ordinanza ammissiva di rito abbreviato non condizionato), puo’ assumere maggiore evidenza al cospetto di provvedimenti espressivi di discrezionalita’ (si pensi ad ordinanze che dispongano la sospensione dei termini di custodia cautelare in procedimenti di elevata complessita’, o che decidano su richieste di giudizio abbreviato subordinate ad integrazioni istruttorie).
D’altro canto, pero’, se la ratio delle norme processuali in tema di (astensione o) ricusazione e’ quella di scongiurare un difetto di terzieta’ del giudice, garantendone dunque l’imparzialita’, sarebbe irragionevole che l’ordinamento consentisse di superare il rischio di decisioni “parziali” – proprio perche’ adottate dal giudice ricusato – solo per gli atti sulla prova, direttamente incidenti sulla valutazione della regiudicanda e dunque di portata maggiormente condizionante sull’esito del processo, e non invece per atti che – seppure potenzialmente indicativi di un pregiudizio – non incidano sul materiale probatorio. In altre parole, se la regola deve intendersi quella di una generalizzata inefficacia, perche’ un atto a contenuto probatorio del giudice ricusato (in ipotesi, determinante nella selezione del materiale da utilizzare al momento cruciale della decisione) si dovrebbe poter salvare, come le Sezioni Unite indubbiamente consentono, e dovrebbe invece essere travolto un provvedimento de libertate, che giammai vincolerebbe il nuovo giudice.
Tanto premesso, e passando alla disamina della fattispecie concreta, ad avviso della Corte risulta indispensabile considerare che il presupposto dell’incompatibilita’ funzionale, in casi come quello oggi sub judice, si fonda sul rilievo che il Gup designato abbia precedentemente assunto atti nella veste di Gip (presupposto derogabile, non essendo valido nelle ipotesi di atti compiuti in occasione di un incidente probatorio): cio’ indipendentemente dalla circostanza se gli atti in questione abbiano o meno inciso sulla liberta’ (di comunicazione, o personale stricto sensu) dell’imputato. Infatti, anche un provvedimento sostanzialmente interlocutorio come un decreto di proroga del termine di durata delle indagini preliminari comporta la successiva incompatibilita’ del magistrato a svolgere la funzione di Gup; mentre, per converso, adottare una decisione de libertate non determina ex se l’impossibilita’ che quel magistrato presieda all’esito definitivo del giudizio, visto che una richiesta di revoca o sostituzione di misure in atto ben puo’ essere presentata a (e deve essere valutata da) chi sta tenendo l’udienza preliminare e/o nel corso di un rito abbreviato gia’ ammesso dallo stesso decidente.
Ergo, l’incompatibilita’ di un Gup non deriva dall’aver deciso sulla liberta’ di un imputato e dal dover tornare a decidere sul punto, vuoi direttamente (come puo’ accadere con ordinanze ex articoli 299 o 304 c.p.p.) vuoi con atti che presentino riflessi sul permanere o sul venir meno di uno stato di restrizione (ad esempio, ammettendo un giudizio abbreviato): deriva invece dall’avere assunto un qualsiasi atto, tranne quelli correlati ad un incidente probatorio, nell’esercizio delle funzioni di Gip, ed essere poi chiamati a decidere sul non luogo a procedere o sul rinvio a giudizio (ovvero, a fortiori, sulla responsabilita’) dell’imputato.
Ma se questo e’ vero, e senz’altro lo e’, non si vede perche’ ad un atto che non incida sul materiale utilizzabile ai fini della decisione debba essere precluso di dispiegare i propri (diversi) effetti.
L’interpretazione piu’ rigorosa sembra suggerita da una recente pronuncia di questa Corte (Cass., Sez. 6, n. 10160 del 18/02/2015, Boschetti) relativa pero’ ad una vicenda affatto peculiare: un soggetto aveva presentato opposizione avverso una richiesta di archiviazione avanzata dal P.M., ed il Gip aveva fissato l’udienza camerale per la valutazione in contraddittorio; in seguito, la stessa persona offesa aveva sollecitato l’astensione del giudice, che si era determinato in conformita’. A quel punto, il nuovo magistrato assegnatario del procedimento aveva deciso sulla richiesta di archiviazione con decreto de plano, reputando inammissibile l’opposizione spiegata, senza revocare il provvedimento di fissazione dell’udienza.
In motivazione, la Sesta Sezione penale chiarisce che “deve (…) escludersi che, in assenza di specifico salvataggio, pronunciato dall’autorita’ che accoglie l’istanza di astensione, dei provvedimenti emessi in precedenza dal giudice astenuto, il nuovo giudice designato sia vincolato alle determinazioni assunte dal collega titolare del procedimento in precedenza, sviluppandosi la cognizione nella pienezza dei suoi poteri, in assenza di vincolo derivante dalle precedenti determinazioni (…). In vero, la pregiudiziale salvezza dei provvedimenti assunti in precedenza si pone in diretta contraddizione con l’accertamento della causa di astensione, poiche’ garantirebbe la persistenza di atti emessi da giudice la cui imparzialita’ e’ posta in dubbio, sicche’ tali provvedimenti, ove non espressamente convalidati dal giudice che valuta la richiesta di astensione, devono considerarsi inefficaci” (sul punto, la pronuncia richiamata cita espressamente la sentenza Di Giacomantonio delle Sezioni Unite).
In vero, il principio di diritto affermato dalla sentenza Di Giacomantonio, risolvendo il contrasto che aveva determinato la rimessione ex articolo 618 c.p.p., e’ nel senso che “in assenza di una espressa dichiarazione di conservazione di efficacia degli atti nel provvedimento che accoglie la dichiarazione di astensione o di ricusazione, gli atti compiuti in precedenza dal giudice astenutosi o ricusato debbono considerarsi inefficaci”. Principio che, come parrebbe aver recepito la ricordata sentenza Boschetti, sembra in effetti tranchant, senza possibilita’ di ricavarne distinzioni fra tipologia di atti, a seconda della finalita’ o del contenuto degli stessi.
Tuttavia, una successiva decisione di questa stessa Sezione (Cass., Sez. V, n. 34811 del 15/06/2016, Lo Giudice), posteriore alla sentenza Boschetti e puntualmente richiamata nell’ordinanza oggetto dell’odierno ricorso, ha gia’ diffusamente illustrato perche’, in realta’, quel principio di diritto non possa che intendersi riferito ai soli atti a contenuto probatorio: un’illustrazione alla quale il collegio non puo’ che rimandare, essendo stata effettuata, peraltro, riportando per ampi stralci alcuni passaggi della motivazione della pronuncia delle Sezioni Unite (mentre la sentenza Boschetti, anche per l’anzidetta peculiarita’ di quella fattispecie, si era limitata a sintetizzarne la massima). A tale approccio esegetico, cui deve prestarsi completa adesione senza che si renda necessaria una nuova rimessione ex articolo 618 c.p.p., puo’ aggiungersi che:
– gia’ la Corte Costituzionale (con l’ordinanza n. 25 del 2010, a sua volta segnalata nella pronuncia delle Sezioni Unite) aveva stabilito come la valenza dell’articolo 42 c.p.p., comma 2, fosse quella di “delimitare l’area del possibile recupero dell’attivita’ istruttoria gia’ espletata”;
– lo sviluppo motivazionale della sentenza Di Giacomantonio chiarisce, contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa del ricorrente, che l’esame del massimo organo di nomofilachia era si’ limitato allo specifico tema del destino da riservare agli atti destinati a produrre effetti giuridici ai fini dell’individuazione del materiale su cui fondare la decisione, ma con il risultato di offrire una lettura complessiva della portata del capoverso del citato articolo 42 c.p.p.. A tacer d’altro, infatti, nello spiegare perche’ il codice di rito riservi al giudice demandato a valutare una dichiarazione di astensione o di ricusazione il compito di selezionare gli atti che debbono conservare efficacia, la sentenza de qua sottolinea apertis verbis che e’ proprio quel giudice “che conosce i profili di incompatibilita’ del giudice astenutosi, e che puo’ quindi valutare con precisione gli effetti di tale rilevata incompatibilita’ sugli atti di natura probatoria assunti in precedenza”;
– coerentemente, al principio di diritto sopra riportato le Sezioni Unite aggiungono il dictum secondo cui “la dichiarazione di inefficacia degli atti puo’ essere sindacata, nel contraddittorio tra le parti, dal giudice della cognizione, con conseguente eventuale utilizzazione degli atti medesimi”.
All’ufficio cui e’ rimessa la valutazione sui presupposti di una dichiarazione di ricusazione, in definitiva, si chiede di verificare se e quali atti “di natura probatoria” possano essere stati condizionati da un approccio non imparziale alla regiudicanda da parte del primo giudice; ed il giudice che a questo subentri potra’ anche rivedere gli esiti della verifica anzidetta, pervenendo – sentite le parti – ad attribuire una possibilita’ di “utilizzazione” di atti inizialmente espunti. E non e’ chi non veda come le nozioni stesse di utilizzazione od utilizzabilita’ di un atto processuale siano immanenti alla destinazione dell’atto medesimo a fini di prova.
Se ne ricava la conferma, pertanto, che gli atti diversi da quelli evidenziati dispiegano ancora gli effetti propri, salva pur sempre la possibilita’ del nuovo giudice – nella pienezza dei poteri che senz’altro gli si deve attribuire – di assumere determinazioni diverse: si pensi al caso di una richiesta di giudizio abbreviato subordinato ad integrazioni istruttorie, che il primo giudice abbia rigettato e che, al contrario, il nuovo assegnatario reputi rituale ed accoglibile. Un problema, quello appena segnalato, che ai fini della presente disamina non puo’ comportare rilievi di sorta (ad esempio, in punto di individuazione della nuova decorrenza dei termini di custodia cautelare), visto che l’odierno ricorrente – alla richiesta di rito abbreviato condizionato disattesa dal giudice ricusato fece poi seguire una istanza ex articolo 438 c.p.p., comma 1, sulla cui ammissione, ai sensi del successivo comma 4, ne’ il primo giudice ne’ quello subentrato potevano avere margini di discrezionalita’.
2. Il rigetto del ricorso comporta la condanna del (OMISSIS) al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimita’.
Dal momento che alla presente decisione non consegue la rimessione in liberta’ del ricorrente, dovranno essere curati dalla Cancelleria gli adempimenti di cui al dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di cui all’articolo 94 disp. att. c.p.p., comma 1-ter.

 

In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.

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